CHE IL TUO VOLTO SIA SEMPRE SORRIDENTE AL SOLE.
Maddalena Saba nacque a Ozieri il 3 novembre del 1922.
Donna che ha dimostrato, fino alla fine della sua esistenza,
di avere un enorme pregio che può essere, al contempo, un difetto; la troppa
mitezza. Un eccesso di arrendevolezza del quale hanno saputo
approfittare coloro che, tutt’altro che miti, hanno mirato a distruggerla
nell’animo e depredarla di tutto, serenità compresa e, se fossero riusciti
nell’intento, persino di una casa in cui vivere.
CIAK, SI GIRA!
Pare che Maddalena incontrò l’ufficiale di cavalleria Bruno Piredda in occasione di una manifestazione equestre, di sicuro si sa che si innamorarono a prima vista e, lasciatisi alle spalle tutti i loro eventuali “impegni” precedenti, fuggirono insieme nella più classica delle cosiddette “fughe d’amore”.
Il primo periodo della loro unione ufficiale non dovette essere facile; dopo aver prestato servizio all’ ERLAAS nella disinfestazione dalla zanzara Anopheles, Bruno tentò, con scarso successo e anzi perdendoci il denaro investito, di avviare un ufficio a Milano per occuparsi di invenzioni, occuparsene nel senso di creare qualcosa da brevettare.
La sua idea più convincente consistette nel creare un apparecchio munito di spazzole e serbatoio per il detersivo, da collegarsi al rubinetto del lavabo per facilitare il lavaggio di piatti e posate. Lo chiamò SpumaJet e ne fece costruire diversi come prototipo. Ebbi l’opportunità di vederne uno nella sua confezione originale e dotato di tutti gli accessori. Era di plastica dura color avorio e aveva all’incirca la forma di un diffusore da doccia, ma più piccolo ed ergonomico e dotato di nere spazzole rigide adatte per distribuire, attraverso sottili condotti, il detersivo che andava riposto al suo interno prima dell’utilizzo. L’idea di per sé sarebbe anche buona, ma al lato pratico si dimostrò una complicazione inutile e di ingombro eccessivo. Inoltre, col tempo, le spazzole lasciavano rigature su vetri e ceramiche. Fu un’invenzione bocciata sul nascere.
Rientrati a Nuoro nella casa di San Pietro di proprietà della famiglia di Bruno e dopo un breve ma burrascoso periodo di scontento, lui trovò un impiego e, a quanto mi raccontarono molti anni dopo alcuni anziani funzionari del’ Ente per il Turismo, fu solo grazie all’interessamento diretto di Maddalena che, chiedendo aiuto, riuscì a farlo assumere.
Maddalena aveva una caratteristica piuttosto rara; trattava tutti allo stesso modo e non si sentiva sminuita né superiore davanti a nessuno. Conservava il suo temperamento e il suo atteggiamento sia che si trovasse a parlare con uno straccione che con un Re, trattando tutti con lo stesso rispetto e identica considerazione. Non temeva di chiedere aiuto se ce ne fosse necessità, e non lesinava di aiutare chi si presentava alla porta a chiedere aiuto, come il buon Diego, il mendicante scalzo che tutti conoscevano nel nostro rione e che rifiutò più volte l’offerta di un paio di scarpe; non le sopportava affatto e non cedette mai all’insistenza di quel regalo che mamma avrebbe voluto quasi imporgli. Ci si doveva accontentare che accettasse qualcosa da metter sotto i denti.
Bruno,
dotato di notevole padronanza della favella e ottimo conoscitore della lingua
inglese, non tardò ad adattarsi nel suo
nuovo ruolo presso l’ufficio dell’ Ente per il Turismo e diventare amico di
tutti. Purtroppo, come tanto spesso accade in ambienti come il nostro, avere
molte conoscenze significa anche, come effetto collaterale, frequentare
assiduamente i bar, e Bruno Piredda non solo non fece eccezione a questa
regola, ma riuscì a eccellere persino in questo campo, diventando abilissimo
nell’alzare il gomito.
Sempre
molto disponibile nei confronti dei numerosi turisti che lo cercavano per avere
informazioni utili alle loro vacanze in Sardegna, si sperticava in gentilezze e
moine che spesso andavano “bagnate” con un drink al solito bar. Conto aperto a
suo nome, ovviamente.
Amici e conoscenti che andavano a trovarlo al lavoro, sapevano che ancor prima di dare un’occhiata nel suo ufficio facevano meglio a sbirciare dentro al locale.
A proposito di quanto fosse nota la sua assiduità nel bar, mi sovviene il ricordo delle risate del mio maestro in terza elementare, mentre, leggendo ad alta voce il tema svolto da un suo alunno, arrivò alla frase “Il babbo di Piredda lavora in un bar di piazza Italia”…
IO SONO BRUNO
PIREDDA…
Ho
avuto la sventura di nascere terzogenito di questa coppia di fuggitivi per
amore nel marzo del 1958, mentre mio padre era già da anni intensamente
impegnato con le “sue” grotte e i suoi numerosissimi amici. Non è stato quasi
mai presente mentre la moglie partoriva in casa con l’aiuto della sua brava
levatrice di fiducia, e nemmeno nei giorni successivi a tali eventi. Lo si vedeva poco o niente a casa e, di
questo poco o niente, quasi tutto era dopo che aveva dato fondo a svariati
bicchieri di vino.
Parte
del piano inferiore della nostra abitazione era invaso da zaini, scalette,
funi, lampade ad acetilene, sacchi di carburo e quant’altro servisse per le
spedizioni nelle grotte. In effetti,
quella fu la prima sede del suo team di amici speleologi e vi avvenivano
riunioni, preparativi, partenze e ritorni.
Io
ero solo un bambino e tutte quelle persone mi erano simpatiche, ravvivavano un
ambiente spesso triste e noioso, tornavano dalle loro spedizioni rallegrati da
qualche bicchiere di Cannonau e mi volevano bene; non era raro ritrovarmi le taschine dei
pantaloncini piene di caramelle.
Maddalena
però, dal suo punto di vista molto differente dal mio, una sera osò far
osservare a Bruno che le sue assenze dall’ufficio e da casa erano eccessive, ed
ecco che, attraverso la sua voce cavernosa e alterata dal vino, Bruno dichiarò
all’intero vicinato le parole-chiave di tutta la sua esistenza:
Maddalena dovette, lentamente ma inesorabilmente, abituarsi a fare buon viso a cattiva sorte anche nei momenti peggiori; la figura ormai lanciata verso un lungo percorso di mitizzazione di quell’uomo doveva essere preservata, non era assolutamente consentito criticarlo, specialmente in presenza di chiunque.
Qualsiasi cosa lui dicesse, fosse anche la più
scontata e banale, suscitava nell’ascoltatore stupore e meraviglia. Forse erano
i tempi, forse erano le persone o tutto l’insieme, fatto stà che vi era questa
predisposizione ad attirarsi lodi e ammirazione con poco, e quel poco lui
riusciva a dirlo con enfasi tale da farlo apparire molto.
Lodarlo
divenne -e accrebbe valenza nel
tempo- una sorta di obbligo sociale al
quale non ci si poteva sottrarre; chi non faceva parte di quel gregge rischiava
di esserne tagliato fuori, di sentirsi bollato come “non conforme”, uno che non
capiva niente. Un deficiente insomma. Ma agli occhi di noi familiari - e credo
non solo di noi figli o della moglie -
apparivano spesso scarsamente dotati d' intelletto coloro che, per un
nonnulla, attribuivano genialità a un uomo che, almeno noi, conoscevamo fin
troppo bene. E ci scappava sovente, ma nascostamente, da ridere…
Per
ammissione stessa di qualcuno che visse quei tempi e li ricorda, la figura di
Bruno Piredda era circondata da un chissà ché d' inspiegabile, forse molto
interessante come argomento di studio e ricerca per un buon antropologo, un
psichiatra, un neurologo.
Come
mi disse qualche tempo fa un testimone diretto di quei tempi: “Se tuo padre diceva merda, gli altri capivano
oro. Ma me ne resi conto solo tardi,
troppo tempo dopo, come risvegliatomi da uno stato di torpore mentale, d' ipnosi. Rivalutai la personalità egocentrica di tuo padre troppo tardi.”
LE LEGGI DELLA
SOPRAVVIVENZA
Cercai
di vivere la mia infanzia con la sola dotazione di quelle armi di autodifesa
che offre la natura ai bambini, tra le quali la fantasia e il sapersi
accontentare di poche cose, ma non era per niente facile riuscire a vivere in
un ambiente dove ero lasciato solo o,
ancor peggio, con la sgradita compagnia di due fratelli maggiori che
spesso si impegnavano in una gara nella quale chissà quale era il premio:
rendermi difficile e sofferta la sopravvivenza.
Nostro
padre quasi perennemente assente e nostra madre in difficoltà nel prendersi
carico di casa e figli.
Si
occupava della casa, della cucina, del bucato che lavava a mano nel cortile sulla vasca di granito con
la sola acqua fredda a disposizione, o quella scaldata nella pentola in cucina.
Ma non si accorgeva neppure delle angherie che dovevo subire dai miei fratelli,
dei rischi che correvo in quelle ore in cui ero lontano dalla sua vista e lei
sembrava dimenticarsi della mia esistenza.
Spesso
entravo in quell’ antro buio che in casa chiamavamo “magazzino”, uno stanzone
disposto al disotto del piano stradale e strapieno di materiali e oggetti
vari. Per un certo tempo ci fu persino uno strano ospite: un avvoltoio monaco,
legato per una zampa a una catena e costretto a stare quasi immobile. In
quegli anni era ancora presente in Sardegna e mi capitava di vederlo in volo o
trovarlo persino posato a terra, mentre frugava nelle discariche in periferia.
Questo esemplare, che a me gracile bambino appariva enorme, aveva avuto la sventura di sorvolare la testa
di Bruno mentre cacciava nelle campagne tra Maria Frunza e Marreri . Babbo lo
puntò con la doppietta e gli sparò, colpendolo a una ala, in un gesto di pura
spacconeria. Portatolo a casa, lo incatenò in quel buio stanzone.
Andavo
a portargli i ritagli di carni di vario genere,
specialmente di pollo, che mi passava mamma in cucina; non
avevo affatto timore di quell’enorme ospite che anzi, mi faceva
compassione. Abbassava la testa e io gli porgevo quei ritagli, ma non sempre
li degnava di attenzione. Seppure bambino, sapevo già molto del regno animale e
attingevo conoscenze in merito leggendo qualsiasi libro o articolo che parlasse
di animali. Sapevo bene che quel raro avvoltoio non poteva continuare a vivere
in quelle condizioni.
L’attaccatura della sua ala era sanguinante, spezzata dal “bel tiro” di un uomo che, più tardi, attirerà enormi lodi su di sé spacciandosi per grande naturalista. “bè, lo diventerà dopo” penserà qualcuno. Vedremo…
Anche se me lo aspettavo, fu per me un gran dispiacere ritrovarlo morto.
Ricordo
ancora benissimo lo sguardo arreso, gli occhi neri ma lucenti di quel povero
volatile che, di lì a poco, si sarebbe totalmente estinto in Sardegna.
Nel
magazzino, oltre questo ospite sfortunato, vi erano due fucili e numerose
munizioni, un grande tavolo di legno con il macchinario a leva che serviva per
costruire cartucce di vario genere e i relativi contenitori con pallini e pallettoni di varia misura, più le
classiche “balle” lisce o a elica. Altri contenitori e lattine contenevano in
abbondanza polveri da sparo, mentre un sacco di juta appoggiato a terra era
pieno di bianco D.D.T. che babbo aveva conservato e che, evidentemente
ignorando i pericoli che rappresentava, di tanto in tanto spargeva in dosi generose
per la casa e nel cortile, forse convinto che potesse eliminare le blatte.
L’odore
di quella polvere mi rimarrà per sempre nella memoria olfattiva; è come se la
respirassi ogni volta che si ripresenta nei miei ricordi.
Nel
tavolone al centro di quel magazzino c’era anche un lungo binario di forma
ellittica con sopra un trenino elettrico in metallo grigio, con sui fianchi la
scritta Santa Fè e sul tettuccio due
luci, una rossa e una verde. Babbo ne era geloso e non voleva che
nessuno lo toccasse, era tutto suo e io potevo limitarmi a osservarlo con
ammirazione, cosa che facevo volentieri specialmente quando lo metteva in
marcia.
In
uno dei rari pomeriggi che lui passò a casa libero dai soliti impegni, si
dedicò a costruire una galleria di cartapesta per quel suo prezioso giocattolo,
senza affatto coinvolgermi in alcun modo. Potevo guardare e stare zitto.
Nei
tanti ripiani disposti alle pareti nel magazzino vi erano le cose più strane;
boccette e barattoli in vetro pieni di
formalina che conservavano, perfettamente integri, rettili e insetti, un grosso millepiedi,
alcune salamandre di vario colore, rospi e ranocchi, un insetto stecco,
scorpioni e altre varie bestioline. Per terra, diverse concrezioni dall’aspetto
brillante e pezzi di stalattite. Nella
nicchia in alto su un mobile di legno, attirava lo sguardo una bella e grande
cassa militare chiusa da un grosso lucchetto, con impresso a vernice il nome di
babbo a caratteri in stile militare.
Era
la sua cassaforte personale e conteneva cose preziose e ricordi di guerra,
penso che l’avesse portata con se di ritorno dalla dorata prigionia a Camp Como
nello stato di Mississippi, conseguenza della sua cattura in Libia da parte
degli inglesi.
Se
la definisco dorata è solo perché lui stesso la considerava tale, dato che fu
trattato con tutti i riguardi e anche di più. Fu una vacanza nella quale
visitò grandi città americane e molti bar, accompagnato dai graduati
dell’Esercito USA, tutti divenuti suoi grandi amici.
In
quel forziere, che ebbi occasione di sbirciare una sola volta dopo che la ebbe
aperta per cercare qualcosa, vidi che c’era una gran quantità di monete d’oro,
specialmente dollari, e monete d’argento tra le quali diverse 500 lire con le
Caravelle e la bandiera al contrario. Vi erano anche mazzette di banconote di
vario genere, e anche tra queste riconobbi svariati dollari di un certo valore.
Tra i documenti, le sue tessere della Massoneria e manoscritti di chissà quale
epoca o valore. Non mi era concesso, ovviamente, di fare domande o esprimere qualsiasi
curiosità sul contenuto di quella cassa; ogni cosa eventualmente e casualmente
vista doveva rimanere in me, ed ero stato fortunato ad avere quei pochi secondi
a mia disposizione per darci un’occhiata.
IL
BOMBAROLO
Un
padre previdente avrebbe avuto l’accortezza di chiudere bene la porta di quello
stanzone, Bruno invece lo lasciava aperto e, in sua assenza, chiunque di noi (o
eventuali intrusi) poteva avere accesso ad armi, esplosivi, sostanze chimiche e
veleni vari. Il secondogenito Graziano, da sempre attratto dalle sostanze
esplosive, ci si riforniva spesso e
costruiva ordigni di vario genere e potenza, spesso mettendo in allarme
l’intero quartiere, ma soprattutto faceva rischiare me e nostra madre di saltare
in aria.
Un
povero gatto bianco entrato nel nostro cortile per curiosare, fu da lui e
l’altro fratello maggiore -da tempo a noi noto col nome di Figliounico, poiché
tale si vantava di essere- attirato con
del cibo; lo coccolarono e, a tarda sera,
mentre
io pensavo che si fossero affezionati al bel gattone e che sarebbe rimasto con
noi, gli attaccarono un grosso petardo artigianale nella schiena appena sopra
l’attaccatura della coda, accesero la miccia e lo cacciarono via affinché
corresse, nottetempo, nei vicoli dietro il cortile. In via Alberto Mario il
gatto esplose in mille pezzi, riempiendo i muri delle case di brandelli
sanguinolenti. Lo scoppio allarmò tutto il vicinato e, assieme ai resti della
vittima, fu l’argomento di tutto il quartiere per i successivi giorni, con
grande gioia e soddisfazione dei fautori di simile bravata.
Meno
contento fu Bruno, venuto a conoscenza del misfatto, che evidentemente aveva intuito la
provenienza dell’esplosivo. Ma come al solito, anziché affrontare i diretti responsabili,
mise in croce la moglie e, come conseguenza, me che non potevo sottrarmi dalle
sue scenate.
In
mezzo a tante e tante giornate da dimenticare, appariva a tratti e nonostante
tutto, qualche giornata spensierata, come quando si degnava di portarci a
qualche spuntino per famiglie organizzato dal suo club di amici speleologi.
In
quelle occasioni pubbliche Bruno e Maddalena apparivano, probabilmente, come
una coppia senza particolari problemi, ma era importante comportarsi
esattamente come lui ordinava e secondo le direttive che ci dettava
preventivamente. Io dovevo parlare il meno possibile, non chiedere mai niente a
nessuno e rifiutare qualsiasi eventuale dono anche se si trattasse delle
caramelle più buone del mondo. Dovevo dire esattamente “grazie no” anche dopo
eventuali insistenze, non usare mai il “ciao” e usare solo buongiorno e
buonasera, ovviamente con garbo e compostezza. Guai ad appoggiare un gomito sul
bordo di un tavolo, guai a tenere un cucchiaio con la sinistra (sono sempre
stato ambidestro, quindi per me era del tutto indifferente), guai a fare un
qualsiasi verso durante i pasti, guai a non obbedire ciecamente a uno
qualunque dei sui ordini, spesso impartiti attraverso il suo solo sguardo
minaccioso.
Praticamente
dovevo apparire, agli occhi degli altri bambini che scorrazzavano e giocavano
liberi e allegri, come un reietto.
Un
notevole paradosso di questo suo atteggiamento era che, in presenza degli altri
due figli più grandi, aveva un
atteggiamento del tutto diverso, totalmente passivo.
IL COMPAGNO FUTURO
DOTTORE
Graziano
era più grande di me di 7 anni e Figliounico di 10. Graziano era fortemente
anaffettivo verso qualsiasi forma di
vita, e purtroppo condivideva con me la
stanza nella quale dormivamo -o meglio- avremmo dovuto dormire. Quella stanza
aveva una finestra che dava sul cortile interno della casa, e da quel cortile
era facile, scavalcandone il muro, andare in strada. Graziano “evadeva” spesso
dopo aver fatto finta di andare a dormire, e per fare in modo che io non me ne
rendessi conto e potessi fare la “spia” a nostra madre e farla allarmare, mi
offriva con inconsueta gentilezza una camomilla verso le nove di sera.
Passarono diversi mesi prima che Maddalena si accorgesse che, in quella
camomilla, ci scioglieva dei sonniferi che gli procurava un suo compagno di
scuola, dopo averli sottratti al padre medico.
La
mattina era un problema svegliarmi e stare attento a scuola, mi ammalavo spesso
con febbri alte e dolori diffusi, ricordo ancora bene gli strani incubi che mi
opprimevano in quelle notti di sonno profondo indotto da quei potenti
sonniferi; visioni di vortici sempre più grandi che, rotolando dal cielo, mi
cadevano addosso e trascinavano verso altri vortici, in un loop infinito.
Quando
mia madre si lamentò con Bruno di quel mio stato, ancor prima di scoprire che
ero spesso narcotizzato, le rispose che ero troppo fragile e che sicuramente
era colpa sua che non sapeva crescere bene i suoi figli. Ne nacque una delle
tante vivaci discussioni, a quei tempi ben conosciute da tutti i vicini che
abitavano quel vicolo antico del quartiere di San Pietro. Mentre i due fratelli
grandi svicolavano da quelle scenate andandosene per fatti loro, io dovevo
obbligatoriamente assistervi e godermi fino in fondo la brutalità di cui era
capace quell’uomo.
UBRIACHEZZE
MOLESTE
Fu
in una indimenticabile occasione che dovetti vedere, e purtroppo non fu
l’unica, mia madre piangente e sanguinante, seduta nello scalino che separava
la cucina dall’andito di quella casa; la violenta discussione tra i due era
nata dopo che le riferirono di una
gentile signora che, durante la solita permanenza in grotta dalla quale lui
ritornò quella notte, si era infilata dentro il sacco a pelo di Bruno. Maddalena, incapace di accettare uno sgarro
del genere e per giunta attuato in presenza di molte persone, era decisamente
la moglie sbagliata per quell’uomo, e almeno altrettanto sbagliato era lui per
lei.
Dovette
essere molto delusa da quello che, un tempo
impacchettato da buon ufficiale di cavalleria, le dimostrava ora di
essere un qualunque cialtrone in confezione regalo.
La
ricorderò sempre tra tante altre quella nottata della mia non spensierata
fanciullezza, il pianto che si mischiava al sangue e le attraversava le braccia
fino a gocciolare nel pavimento di tavole di legno, il suo singhiozzare e lo
spavento che mi impietriva. Mi svegliarono, poco prima, le urla e i colpi delle
botte che provenivano dalla cucina, seguiti da lui che scendeva le scale mettendosi
la sua fida pistola Beretta in tasca, minacciando il suicidio e dileguandosi
sbattendo la porta.
Piansi
impietrito dalla paura, preoccupato per un padre che pensavo già morto e una
madre che tremava e piangeva sanguinante.
Ho
capito solamente molto tempo dopo, quanti immani sforzi fece quella donna per
tenere una pace familiare che era flebile, sempre in equilibrio su una lama
affilata dal destino ignobile.
A
sei anni e mezzo, involontario partecipante a quella farsa che era la vita in
quella famiglia e dopo aver già vissuto situazioni a dir poco spaventose, mi
ammalai seriamente. Inizialmente passai alcuni giorni a letto con forti dolori
addominali e febbre, e quando mi rialzai scoprii di avere delle macchie molto
pruriginose nella schiena.
PSORIASI E AMOREVOLI CURE
Mamma
chiamò un nostro parente medico che abitava in quello stesso vicolo mentre
babbo era, come suo solito, assente. Quelle erano macchie di psoriasi, una
malattia a forte valenza psicosomatica. E poteva essere diversamente, dato
l’ambiente che mi circondava?
Sarebbe
stato molto meglio per me se nessuno avesse mai parlato di quelle macchie con
mio padre al suo ritorno, se mi avesse totalmente ignorato, magari come quando
giocava col suo trenino. Alticcio e per
nulla interessato a seguire i consigli del medico che aveva raccomandato di
farmi stare tranquillo e magari portarmi qualche ora al mare, mi fece subito
mettere cavalcioni a torso nudo su una sedia, con la “seria” intenzione di
farmi sparire le macchie a modo suo.
Il
“modo suo” ahimè, consistette
nell’usarmi da cavia e nel provare tutto quello che la fantasia gli poteva
suggerire.
Il
primissimo trattamento fu spalmarmi
abbondanti quantità del famoso dentifricio Pasta del Capitano nella schiena e
attendere che si asciugasse, per poi raschiare via tutto ciò che rimaneva con
una lametta appena tolta dalla sua cartina protettiva. Tutto, ripassando più
volte con insistenza, fino a far affiorare i vasi sanguigni, e più avanti eventuali spessori creatisi attorno e dentro
le macchie, praticamente lo strato dermico che tentava di ricostruirsi.
Fin
da quel primo trattamento, che mi procurò -forse lo riesce in parte a immaginare- non pochi dolori e sanguinamenti, fu palese la dannosità del
dentifricio sulle macchie psoriasiche. Così sarebbe stato, almeno, per una
persona normale. Ma Bruno Piredda non era il tipo, per mia grande sfortuna, che
si arrendeva facilmente. Le macchie furono già più grandi e rosse fin dalla
mattina successiva, dopo che passai una notte di dolori e fastidi indicibili in
tutta la schiena. Quella sera stessa, il novello Dottor Bruno purtroppo decise,
anziché trattenersi come in una normalissima serata al bar a ubriacarsi, di
prestarmi nuovamente la sua amorevole attenzione.
Dovetti
nuovamente mettermi cavalcioni su quella che ormai -per me- era e sarà sempre
nella memoria la sedia delle torture; ed ecco che fu la volta del succo di
limone, spremuto fresco fresco direttamente sulle macchie già lese e offese
dalla sera prima.
Evito
di tentare una descrizione di quello che provavo, nessuna parola sarebbe
sufficiente a descrivere cosa provavo. Non potevo oppormi a quei trattamenti,
mi morsicavo il polso oppure il pollice o, ancora, la spalliera della sedia per
non urlare dal dolore e dal bruciore, lacrimavo e mia madre, timidamente quanto
inutilmente, tentava di farlo desistere. Imperterrito lui continuava e, una
volta asciugatosi il succo dei limoni che mi spremette nelle macchie, mi lavò
la schiena con un liquido scuro che emanava un forte odore simile alla
trementina. Non so di cosa si trattava esattamente. So solo che, dopo un’altra
notte allucinante, mi ritrovai con la schiena che era ormai una macchia unica
dal colore rosso vivo, che sentivo pulsare come se mi fosse cresciuto un altro
cuore nella spina dorsale.
Maddalena
non osava intervenire né chiamare un’altra volta il dottore.
Erano
tempi molto diversi da questi attuali, una donna non poteva andare tanto
facilmente contro il marito, non aveva nemmeno una minima parte dei diritti
attualmente riconosciuti. Sapeva che, se avesse chiamato i carabinieri,
probabilmente avrebbero giustificato quel capofamiglia o, quantomeno, ne sarebbe scaturita una dura reazione da
parte di Bruno, che già aveva dimostrato di saper alzare le mani. Non si poteva
fare e basta, Bruno Piredda era un “intoccabile”.
Terzo
giorno di trattamento; il futuro “mago delle erbe in erba” mi fece di nuovo
accomodare sulla sedia delle torture. Inutili i miei tentativi di sottrarmi ai
suoi tormenti. Questa volta preparò un impasto nero a base di sughero bruciato
e macinato, poi mischiato a chissà quale altro ingrediente rimasto sconosciuto.
Me lo spalmò ancora molto caldo su tutta la schiena, mentre morsicavo la
spalliera della sedia per non gridare al dolore che sembrava indotto da mille
diavoli che mi pungevano coi forconi ardenti. Quando quella robaccia mi si
raffreddò addosso e si indurì, il mio
personal trainer la afferrò per i lembi e la tirò via pezzo dopo pezzo, come
quando si stacca una etichetta ben incollata da un barattolo. Vidi la faccia di
mia madre che, guardandone il risultato, sgranò gli occhi e si mise le mani
sulla fronte, osando un “Dio mio….”
Stranamente,
la psoriasi non solo era ancora lì al suo posto e non miracolosamente sparita
come Bruno, evidentemente, si aspettava, ma era pure ancora notevolmente
peggiorata.
Nonostante
io non ne potessi più di quelle sue attenzioni, quel padre datomi dal destino
provò su di me altri intrugli inventati sul momento a base di tutto ciò che gli
capitava.
Probabilmente
smise di torturarmi, dopo 5 o 6 giorni, per sopraggiunta stanchezza. Mai ammetterà, da lì in poi, di avermi
peggiorato una situazione che, già di per sé, era nata da condizioni familiari
quantomeno deleterie che lui stesso avrebbe dovuto, o quantomeno potuto, evitare.
Capitò
dopo qualche tempo che un medico serio e
preparato, tornato a Nuoro dall’estero, mi visitò casualmente dato che passò a
casa a salutare il suo parente Bruno.
“La
psoriasi ha degli aspetti spesso sorprendenti” disse, “può peggiorare
notevolmente nel giro di poche ore o sparire spontaneamente. Se aveste evitato
di intervenire con prodotti non appropriati, magari a quest’ora se ne sarebbe
andata da sola o, quantomeno, non sarebbe a questi livelli di estrema gravità”.
Naturalmente gli dissero solo di avermi messo delle creme senza ammettere di
avermi letteralmente usato come cavia di laboratorio, e di certo non potevo
raccontarglielo io, pena le pesanti cinghiate del caro babbino. Sembrerà strano, lo so, ma quello che oggi viene ricordato come il “buon
vecchio saggio” non solo alzava le mani sulla moglie, ma pestava volentieri
anche un figlio ammalato, rachitico e indifeso. E non c’era alcun bisogno che
gliene dessi la minima scusa.
ERA UN MAGO ANCHE CON LE
CINGHIE
Come
quel pomeriggio che, dovendo fare i compiti, osai chiedere indietro la mia
penna di scuola a Graziano; si innervosì e me la lanciò con forza beccandomi
una vena della mano destra con la punta. Esattamente, quella grossa vena nel
dorso che forma quasi una S e va a confluire tra l’anulare e il medio. Iniziò
a scorrere il sangue copiosamente, vidi il tavolato sotto di me riempirsi di
rosso e pensai solo, muto dallo spavento, che sarei morto.
Arrivò
mamma, disperata e incapace di fermarmi il sangue. Provò a stringermi attorno
alla mano una enorme quantità di cotone, peggiorando l’emorragia. Finalmente,
qualcuno si decise a chiamare l’ambulanza. Al pronto soccorso mi curarono e
raccomandarono a Maddalena di non fare più la fesseria di mettere cotone su una
emorragia. E, se possibile, di farmi mangiare qualche bistecca, dato che ero spaventosamente magro.
Tornati
a casa, tutto sembrava finalmente tranquillo finché non ritornò il “vecchio
saggio” dal suo solito giro di “relazioni sociali”, come amava chiamare le
bevute nei bar. Alterato, sbronzo e
innervosito da chissà che, e fortemente convinto che quello da punire fossi io,
colpevole per aver osato chiedere la mia penna. Alterato a tal punto da
sfilarsi la cinta e non rendersi conto che mi batteva nella schiena la fibbia
metallica. Ricordo ancora il dolore, ricordo le sue urla con la vociona
impastata dal vino, ricordo di aver gridato di dolore e, improvvisamente, fu
tutto buio. Mi ritrovai, evidentemente dopo uno svenimento, steso nel mio
lettino, con mamma a fianco che piangeva e con profonde ferite nella schiena
che affioravano, vistose, in mezzo a quella estesa macchia di psoriasi. Anche
quella volta la cura fu del tutto casalinga: una spruzzata di abbondante
alcool.
FOLLIA
Follia, mi viene solo questo termine: FOLLIA.
Dovevamo
tacere su tutto e non lamentarci mai di niente,
temevo fratelli e genitori perché tutti loro erano artefici o perlomeno
complici di simili nefandezze e vivevo un profondo stato di odio nei confronti
della vita. Avrei preferito che mia
madre avesse preso il coraggio di scappare via, che mi avessero abbandonato in
un convento, qualunque cosa sarebbe stata una alternativa migliore al
continuare a vivere quella vita.
Nonostante
questi aspetti, che rimanevano ben celati tra le mura della nostra casa,
riuscivo -sempre grazie alla grande autodifesa insita nel cervello di un
bambino- a vivere qualche momento di felicità tutta mia. Passavo ore intere nel
cortile, quando tutti erano impegnati in qualcosa che non fosse il dedicarsi al
mio male, a osservare gli insetti, le lucertole, qualunque cosa avesse vita lì
ai piedi del sambuco, dell’alloro, tra i gerani e la menta o tra le pietre del
muretto che separava il cortile dai vicini. Imparai molte cose sulla vita delle
lucertole, del ragnetto che battezzai “pigliamosche” che tendeva agguati agli
insetti per paralizzarli e svuotarli lentamente per nutrirsene, lasciandone
solo la corazza esterna. Nessun insetto o animale mi faceva paura, toccavo
qualsiasi ragno, qualsiasi insetto strisciante o volante, presi nel palmo della
mano persino il piccolo scorpione pallido che trovai sotto una pietra.
Maddalena
continuava a far di tutto per non far crollare quella baracca che era la nostra
famiglia, ma solo lei sapeva quanto le costasse. Ricordo un giorno di
primavera: mi teneva per mano mentre tornavamo a casa dopo aver comprato quella
che lei chiamava la pagnotta di Sanluri, da un negozio di alimentari in via
Roma. Ci venne incontro babbo e, mentre teneva nervosamente la pipa tra le
labbra, raccontò a Maddalena che Figliounico gli aveva sottratto le monete
d’oro e argento che custodiva all’interno della sua cassa militare.
Con le conoscenze che aveva, non ci mise molto
a scoprire che erano state vendute a un orafo per poi pagare un gioiello in
oro -non ricordo se anello o braccialetto- che Figliounico regalò a qualcuna
delle ragazze che frequentava. Ecco che, ancora una volta, quella che avrebbe
magari potuto essere una giornata con qualche vaga parvenza di “normalità” fu
compromessa. E fu compromessa anche la giornata successiva dato che Bruno, come
suo solito, anziché prendersela col diretto responsabile sfogò tutta la sua
rabbia con noi.
Figliounico
e Graziano potevano elegantemente svicolare dai guai come e quando volevano; io
no e nemmeno mamma Maddalena.
Perennemente
stressato e umiliato, mangiavo poco e
malvolentieri, troppo spesso saltavo il pranzo, la cena, e anche tutti e due.
Ero magrissimo, debole, con le piaghe alla schiena e le piaghe nell’animo,
forse ancor peggiori queste ultime. Invidiavo i compagni di scuola e le loro
profumate merende, quei loro panini che trasbordavano di salumi o formaggi,
invidiavo quelli che potevano rincasare senza timore di trovare una madre
piangente e un padre urlante. Una volta mi passò a pochi centimetri dalla
testa un pesante piatto di ceramica lanciato da Bruno verso la finestra che
dava sul cortile, ma le numerose schegge di vetro mi presero in pieno,
costringendo mamma a togliermele una per una con le pinzette, mentre colavo
sangue ancora una volta. Un’altra volta ancora fu Figliounico a lanciarmi un
coltello che mi colpì alla gamba, innervosito da chissà che, per fortuna mi colpì col manico e me la cavai
con un livido. Graziano distruggeva tutti gli eventuali giochini che mi
venivano regalati o che trovavo nelle patatine. Erano cose di poco valore ma
non per me, che giocando ci passavo qualche minuto di spensieratezza; lui si
divertiva a prendermeli e li fondeva nel caminetto sopra qualche cumulo di
paglia e legnetti. Mentre io piangevo, lui rideva di gusto e nessuno
interveniva per difendermi; nel frattempo respiravamo il puzzolentissimo fumo
nero della plastica fusa. Mamma troppo impegnata a leccarsi le ferite, babbo
troppo impegnato fuori casa, Figliounico
quasi mai presente e spesso impegnato in quel ruolo di cui tanto si vantava:
fare il playboy. Amava dire a tutti e tutte di essere figlio unico, e col tempo
risultò evidente che lo credesse veramente. Aveva (quasi) ragione!
Una
sera Bruno rincasò da una delle sue diecimila scampagnate con gli amici, aprì
la porta di casa con insolita lentezza e bisbigliando cose incomprensibili,
barcollò nell’andito e fece appena in tempo a buttarsi sul letto, vomitare vino
e vermi e chiedere aiuto. Lo caricarono sull’ambulanza e all’ospedale gli
fecero una lavanda gastrica per attenuare
l’avvelenamento da formaggio marcio associato alla potente sbornia.
UN TIPO
IN GAMBA
Dal
punto di vista dei suoi numerosi amici, Bruno era ovviamente considerato un
tipo molto in gamba; la sua generosità nei bar era proverbiale, la sua
disponibilità a qualsiasi ora anche, qualunque fosse il problema dell’amico,
amico dell’amico, oppure parente di un amico.
Era sempre pronto a preoccuparsene e occuparsene. Sempre disponibile alle bevute, alle
spedizioni in campagne mari e monti, a giornate di pesca e di caccia, e chissà
di quanto altro.
Facile
immedesimarsi nel suo amico-tipo; bastava essere un adulatore e contribuire ad
aggiungere aria nel pallone, che più si gonfiava e meglio stava in loro
compagnia.
Difficile,
a quanto pare, immedesimarsi in chi, di tale pallone troppo gonfio, doveva
subirne le prepotenze.
Un
certo periodo lo vedemmo impegnatissimo dopo che lesse, in un quotidiano
locale, che un suo amico era stato arrestato per aver sottratto denaro mentre
lavorava come ragioniere. Si agitò e preoccupò come se fosse una questione sua
personale, prese la cornetta del telefono e iniziò un lungo giro di telefonate
e incontri coinvolgendo alcuni suoi “fratelli” di Massoneria.
Non
solo lo tirò fuori dai guai, ma riuscì persino a farlo studiare e promuovere
per fargli dare un importante impiego ministeriale. Bruno non mancò, in più di
una occasione e in presenza della moglie Maddalena, di malignare - con quel
suo mezzo sorriso ironico e strafottente che noi in famiglia conoscevamo bene -
che il suo amico doveva tutto alla disponibilità della propria moglie. Buono
generoso e comprensivo davanti agli amici, in loro assenza dimostrava la sua
vera natura urticante e umiliante. Mamma stessa, comunque, non credette mai a
quelle affermazioni e le prese con la dovuta ponderatezza, definendole -
ovviamente non in sua presenza - come le “parole di una persona dalla
personalità eccessivamente misogina ed esaltata”. La misoginia di Bruno era, in
effetti, qualcosa che avrebbe destato molto interesse in qualche bravo
studioso. La esprimerà ancora al meglio (o peggio) più tardi, quando diverrà quel “vecchio
saggio” che ad alcuni fa comodo ricordare, dimostrando, almeno a noi familiari
e a chi ha avuto modo di conoscerlo bene veramente, che mai tale nomignolo fu
più immeritato.
UN GRANDE
ARCHEOLOGO?
Ci
fu anche un altro periodo particolare nella nostra casa; Bruno che usciva con
un certo conoscente la sera e tornava al mattino. Confabulavano tra di loro a
bassa voce, caricavano in auto lampade e torce di vario genere, pale e picconi,
e partivano verso quello che, si era capito nonostante la loro furtività, era
un villaggio nuragico che avevano scoperto da qualche parte dei monti di
Oliena.
Ogni
mattino all’alba tornavano con sacchi e sacchetti pieni che depositavano dentro
il magazzino, che stavolta veniva ben chiuso da chiavi e lucchetti. Questo loro
andazzo andò avanti per diverse settimane, finché una notte non rientrarono ben
prima della solita ora mattutina, con l’aspetto molto teso e preoccupato.
Sentii i loro discorsi e li udii lamentarsi di “quei maledetti pastori” che gli
avevano demolito il “loro” villaggio, facendovi rotolare sopra i grossi massi che
lo costituivano e, praticamente, distruggendolo. Le maledizioni si sprecarono
quella notte, Bruno e il suo amico tremavano dal nervoso e, probabilmente,
avevano anche avuto paura; forse i pastori di quella zona, disturbati dalla
loro costante presenza notturna, gli diedero anche qualche altro avvertimento.
Gli
avevano rotto un giocattolo prezioso, ma non rimasero del tutto a becco
asciutto: qualcosa di valore dentro quei sacchi
nascosti nel magazzino c’era e, avendone visto una buona parte,
preferisco farmi conto di averlo solo immaginato, mi sforzo ancora di credere
di averlo solo sognato, di non essere mai stato neppure spettatore di tanto
danno alla storia della mia isola.
Tempo
pochi giorni ed eccoli partire verso la Svizzera, dopo un loro continuo viavai
di preparativi, accordi, telefonate a qualche amico (o più probabilmente
“fratello” di Massoneria) che, in qualche modo, aveva il compito di facilitare
il passaggio tra i due “archeologi” e l’acquirente.
Tornarono
dalla Svizzera raggianti, vestiti a nuovo e pieni di acquisti e regali per
tutti, persino un orologio Tissot per me, uno d’oro per Maddalena, due
fantastiche ricetrasmittenti marca Zodiac e altri oggetti preziosi e, per
allora, tecnologici. E soldi, tanti soldi in banconote di grosso taglio.
Per
qualche tempo, finalmente, a casa si respirò aria di benessere e serenità,
finalmente la tavola fu imbandita di cose buone e si poté pranzare e cenare
senza urla e rimproveri, senza piatti volanti e sberle. I battibecchi tra Bruno
e Maddalena divennero meno frequenti,
ogni fine mese Bruno portava in omaggio a Maddalena una scatola gigante
di marron glacé e le gite tra noi divennero più frequenti. Finalmente vidi
persino il mare!
MADDALENA, LA VERA
PRIMA ERBORISTA
Passati
quei burrascosi anni delle elementari, iniziai a conoscere un padre meno propenso alla violenza, forse qualcosa
in lui iniziava a farlo ragionare, forse anche qualche giusto consiglio di
quelli che erano i pochi amici “veri” che aveva, quelli capaci di dare buoni
consigli senza timore di passare per stupidi e capaci di dire “basta”
all’ennesimo bicchiere di vino.
Forse
anche il timore che ormai, cambiati i tempi, avrebbe rischiato grosso nel
proseguire coi suoi metodi.
Mamma
partorì altri due figli in quella casa di Santu Predu, e in almeno una di
queste occasioni fu finalmente presente Bruno in casa, evidentemente libero dai
soliti impegni.
La
antica casa del rione San Pietro, di proprietà di tutti i fratelli di Bruno
-cinque fratelli dalla propria madre, altri sei avuti da nonno con la domestica
che sposò una volta diventato vedovo- andava liberata perché tutti loro avevano
l’intenzione di venderla e Bruno, anziché spendere per tenerla e aggiustarla,
preferì comprare un appartamento condominiale in viale Repubblica, al numero 3.
Finalmente
stanco di mille avventure e mille sbornie, con sul cranio ancora i segni di una
rovinosa caduta di decine di metri in una voragine dove ne uscì vivo per
miracolo, con la stanchezza di chi raggiunge una certa età dopo una vita di
eccessi, finalmente quell’uomo lo si vedeva rilassato e di compagnia, senza più
troppe interferenze di amici beoni.
Sembravamo
una famiglia “normale” e la speranza era di continuare a esserlo.
Mamma
leggeva sempre tanto e aveva una nutrita biblioteca con tutti i classici,
mentre Bruno leggeva soprattutto riviste o dispense museali sulla archeologia e
la paleontologia. Una sera, in tv, mamma sentì che parlavano di un personaggio
che, da allora, diventò molto popolare: Maurice Mességué. Avevano appena
tradotto un suo libro dal titolo “Uomini, erbe e salute” e sentirlo parlare di
erbe medicinali interessò mia madre a tal punto da precipitarsi a comprarne il
libro. Babbo ne sembrava del tutto indifferente all’inizio ma -non si è mai
capito se spinto da gelosia o reale interesse personale- una sera mentre
Maddalena leggeva delle proprietà curative delle erbe, sbottò nervosamente che
non aveva bisogno di Mességué per curare Marcello dalla psoriasi. Oddio dissi
io, lascia perdere che ho fatto già la cavia troppe volte! Ma Bruno rispose che
questa volta sarebbe stato diverso. Si mise a leggere il libro acquistato da
mamma e, finito quello, ne acquistò altri e poi altri ancora, che leggeva la
sera seduto in poltrona, spesso a voce alta. Io avevo -e ho ancora- una spiccata tendenza a ricordare meglio i
nomi latini che i nomi comuni, e a Bruno piaceva sfidarmi chiedendomi i nomi
delle varie piante che nominava. “Fenomenale” disse una sera, quando gli dissi
l’ennesimo nome scientifico di seguito senza incertezze. Era un esercizio che
ci divertiva, e nel contempo era utile per fissare quei nomi nella memoria.
CALMA APPARENTE
Dopo
circa un anno di vita tranquilla, babbo, con il ricavato di terreni in città
ereditati dal padre (purtroppo senza pensare che col tempo avrebbero avuto un
enorme valore) comprò 5 ettari di terreno a Marreri, a circa 13 chilometri
dalla città. Con la stessa cifra avrebbe potuto avere terreni migliori e meno
lontani dalla città, ma preferì così perché, in passato, quel terreno era stato
della sua famiglia paterna, e desiderava riconquistarlo anche a caro prezzo. “E
non è detto che non ci sia il petrolio” diceva spesso, con un tono che lo
faceva apparire davvero convinto.
Mi
portò a vedere quel terreno appena acquistato; dopo circa 13 chilometri dalla
città verso Marreri, fermò la macchina a bordo strada e ci incamminammo tra
lentischi e rose canine, percorremmo la collina verso il basso e, arrivati
vicino a una grossa quercia, mi indicò dove voleva far passare la strada e
dove erano i confini del “nostro” terreno. Nei giorni successivi, iniziammo a
tracciare il cammino secondo le sue indicazioni, mentre lui camminava e mi
indicava i punti da contrassegnare per poi
poter iniziare a decespugliare.
Gli
feci compagnia quasi ogni giorno per mesi, finché gran parte della strada non
fu completata.
Un
giorno, per gioco e scherzosamente, gli dissi che avevo sempre sognato di fare
una casa nell’albero come la vedevo nei fumetti; babbo mi prese sul serio e
disse “che ci vuole.. la facciamo!”
E
così fu, tornammo con delle grosse tavole e facemmo una vedetta nella grossa
quercia che faceva ombra alle nostre soste dal lavoro.
Di
lì a poco, a rovinare quel nostro idillio familiare ci pensò colui che già
aveva giurato di essere figlio unico di Bruno Piredda. Intanto, babbo andò in
pensione a primavera e, durante
l’estate, ebbe un infarto.
Ecco
che venne all’attacco Figliounico, battendo cassa per tentare di avere 5
milioni di lire per acquistare un apparecchio per la dialisi al suocero -
questa, almeno, era la motivazione che lui e la moglie adducevano- ed ecco che a casa ricominciarono le beghe di
vecchia memoria… Vivevamo da ciò che
rimaneva della pensione tolte le spese per la macchina di babbo, per tutto ciò che gli serviva per fare i
lavori a Marreri, e le spese condominiali.
Le pressanti richieste di denaro gettarono Maddalena nello sconforto e
Bruno nell’inquietudine.
Maddalena,
ogni tanto, si faceva accompagnare da Bruno a Ozieri per trovare l’anziana
madre; questa era vedova e viveva della pensione lasciatagli dal marito, ma una
volta all’anno incassava qualcosa dagli affitti di un terreno e, ogni certo
numero di anni, dalla vendita del sughero che se ne ricavava; ciò le consentiva
di dare alla figlia dei piccoli ma preziosi aiuti in denaro. Ma, di punto in bianco, nonna non volle più
sentire sua figlia Maddalena.
Mamma
ne rimase sconvolta, non riusciva a spiegarsi il perché di quell’atteggiamento
da parte di sua madre, sempre affettuosa con lei oltre che con noi tutti.
Quando andavamo a trovarla, lasciava che io passassi ore e ore a sintonizzare
le onde corte sulla sua bellissima radio
a valvole, mi dava sempre dei biscotti buoni e, prima di andar via per tornare
a Nuoro, mi regalava un bel biglietto da 500 lire.
Ci
vollero parecchi mesi per scoprire, attraverso l’interessamento di una sorella
di mamma, che quel certo Figliounico andava a chiedere soldi alla nonna a nome
di mamma, e con tale assiduità che, alla fine, nonna ne fu stanca e se la prese
con Maddalena, del tutto inconsapevole di quel “traffico”.
Nulla
demotivava quel soggetto avido di denaro dal continuare ad attaccarsi al padre
e alla madre come un vampiro; ritornò all’attacco.
Fu
la volta delle continue visite serali sue e della degna consorte in casa, con
azzardati e sfacciati tentativi di farsi cedere la casa di viale Repubblica con
le scuse più assurde. Provarono in tutti i modi di convincerli di andare ad
abitare in una casa per la quale avrebbero pagato loro l’affitto.. (sic..!),
provarono persino a convincere mamma che stavano per prendere il potere i
comunisti e quella casa era destinata a essere espropriata, provarono
veramente di tutto e di più, sfidando ogni limite del buon senso e sforando nel
ridicolo. Finalmente ben salda nei suoi
NO, mamma divenne il principale bersaglio del loro odio.
Raccontare
degli aiuti economici che già babbo e mamma gli davano da sempre, richiederebbe
un intero libro. Per ora soprassediamo…
Nonna
morì senza aver potuto far pace con la figlia Maddalena. Lasciò alle figlie il
ricavato della rendita e della vendita delle sugherete.
A
mamma spettarono 18 milioni, e la prima cosa che pensò fu di farmi aggiustare
tutti i denti, già da tempo quasi
totalmente deturpati a causa delle carenze
alimentari e della trascuratezza.
Ecco
che, percepito il profumo del denaro, si ripresentò il Vampiro! avanzando le
sue pretese convinse mamma di aver diritto quanto me di farsi curare a sue
spese e, inoltre, che era necessaria la sua presenza per aiutarmi nel viaggio
verso Bologna, dove mamma mi consigliò di andare perché, a quel tempo, c’era un dentista diventato
famoso per la rapidità nel lavoro e l’accuratezza delle protesi che metteva.
Diede
nove milioni a lui e nove a me, dietro precisa promessa che, pagato il conto al
dentista e le spese di albergo, ognuno le avrebbe restituito il resto
rimanente.
In
cuor mio speravo che stavolta, riempitegli le tasche di denaro, Figliounico
trovasse un freno alle sue bramosie.
VAMPIRISMO
ESTREMO
No,
fu una speranza del tutto vana.
Durante
quei quattro giorni a Bologna, presi fin da subito le distanze da lui e misi in
chiaro che doveva lasciarmi tranquillo e non cercarmi: ognuno per conto suo. Non rimase di certo da solo per questo; fin dall’arrivo nell’albergo “Tre Poeti” si
trovò “ottime” compagnie locali di suo gradimento.
Già
dalle prime ore di soggiorno capii che,
ancora una volta, aveva tutta
l’intenzione di divertirsi a spese della madre.
E
dato lo “stile di vita” che si permise durante i giorni successivi, ebbi le
conferme definitive che aridi di cuore si nasce e si muore.
Alla quarta sera, vigilia della ripartenza
verso casa e finito il lavoro del dentista,
mi chiese di dargli i soldi che mi erano rimasti, cercando di
convincermi di averne avuto l’ordine da mamma dopo averla sentita al telefono.
Non ci cascai. Dopo i suoi numerosi ma inutili tentativi di portarmi via il
denaro, si infuriò e andò via dall’albergo senza pagarsi la camera, cosa che
dovetti fare io per evitare discussioni,
mentre lui fuori imprecava e mi giurava vendetta.
Spese
di più in - chiamiamole così -
specialità tipiche del centro di Bologna che per il dentista, ma spese
qualcosina anche per un gentile romantico pensiero da regalare alla mogliettina:
una sottile catenina d’oro con appesa una piccola lametta in oro.
Alla
madre nemmeno una lira di resto!
Appena
tornai a casa chiesi a mamma se era vero che si era sentita al telefono con
Figliounico; naturalmente mi confermò di no. Le restituii i miei 6 milioni e
mezzo di resto e le raccontai tutto quello che era successo, e di quanto
avrebbe fatto meglio a non far sapere del suo gruzzoletto ereditato da nonna.
Mamma
si infuriò veramente, per la prima volta, come una belva, memore anche degli
altri tiri bassi avuti da quel figlio.
Lo chiamò a casa scoprendogli tutte le carte e urlandogli peste e corna.
Soprattutto corna.
Invece
di ritirarsi in buon ordine e farsi finalmente una vita “sua” senza
danneggiarci, il buon “figlio unico” di Bruno volteggiò in quel di Marreri e,
con la scusa di costruire qualcosa di utile per babbo, iniziò a occupare ampi
spazi con mattoni e cemento. Nel frattempo iniziarono, inesorabili, ad
aleggiare attorno alla figura di babbo le leggende che ancora oggi “ci tocca”
sentire, che culminarono nel 1988 con l’articolo di Agosto di Selezione dal
Reader’s Digest dal titolo “Sardegna:
l’uomo che si curò con la natura” e dal quale attingono ancora in continuazione
i tanti “giornalisti” che, su richiesta, fanno ancor oggi articoletti qua e la
prendendolo come spunto, come se fosse un pozzo di Verità Pura, senza mai
essersi presi la briga di sentire se qualcuno di noi in famiglia, soprattutto
la moglie, avesse da dire qualcosa in proposito. Ci sono tanti altri erboristi
che fanno né più né meno quello che faceva quest’uomo, che leggeva ingredienti
e dosi nei libri e li proponeva, senza inventare o scoprire niente di suo,
senza alcun che di “miracoloso”. Anzi, potrei citare qualche eclatante caso di
reazioni avverse anche piuttosto serie, ma mi astengo..
SELEZIONE DAL READER’S INDIGEST…
La “casetta sull’albero” divenne il primo eremo di Bruno. FALSO.
Nel
periodo di quella casetta, se proprio avesse voluto dormire in campagna, aveva
a disposizione la sua Simca 1301 familiare che poteva trasformarsi, tra ampio
portabagagli e sedili posteriori reclinati, in un comodo lettone matrimoniale.
Quella casetta sull’albero fu completata, alla fine, solo e unicamente per
poter dare l’idea che potesse essere davvero servita come dormitorio.
La successiva casetta di legno fu il suo dormitorio per 4 anni. FALSO. Servì principalmente come ripostiglio per gli attrezzi da lavoro e qualche nottata fuori casa.
Basta
chiedere ai condomini anziani che ancora abitano nella palazzina di viale
Repubblica 3, chiedete loro se ricordano assenze di babbo durate addirittura
anni. Vi risponderanno di NO.
Babbo
mancava -e di tanto in tanto- perché,
dopo il lavoro in campagna e dopo i numerosi ospiti che vi si attardavano, spesso trattenuti a cena, era troppo stanco
per guidare fino a Nuoro. Non ci nascondeva che gli piaceva ricoprire quel
ruolo di “eremita” che lo affascinava e gli faceva compiacimento nel sentire
l’ammirazione se non addirittura l’adorazione di chi andava a trovarlo. Era una
recita che gli piaceva e che veniva alimentata da chi lo assecondava senza
alcun spirito critico e da quei parenti arrivati dalla penisola che, andando a trovarlo, lo vedevano come era dipinto ma non come era davvero.
Qualche
vampiro già odorava altro abbondante sangue da succhiare.
A volte, letteralmente costretto a dover far credere agli ospiti che quello era un eremo, sgattaiolava appena questi se ne andavano e tornava a casa anche all’una o più, per passare la notte assieme alla moglie. Sentivamo la porta aprirsi e lui, con vocina quasi implorante, chiedeva “Maddalè me ne dai ospitalità?” Naturalmente la risposta era sì, tranne il no di qualche rara eccezione.
Si
era costruito attorno un personaggio che gli sarebbe stato scomodo per tutto il
resto della vita, ma che fu molto comodo per chi ne seppe approfittare.
L’aquila reale che curò per tre mesi.. FALSO, altra assurdità: Graziano era fin da ragazzo appassionato di falconeria, e alcuni amici del Corpo Forestale, conoscendolo, gli affidarono il rapace, trovato legato in un ovile e incapace a volare. Lo portarono a Marreri perché c’era spazio per fargli una voliera adatta. Bruno prese anche quell’occasione al volo per farsene motivo di vanto e ammirazione, Graziano, dopo alcuni contrasti col padre che non perdeva occasione per fare la “primadonna” con quel rapace, gli cedette il compito e, come fu già da noi previsto, finì male per l’innocente rapace, affidato alle “cure” di un uomo senza alcuna competenza in merito, che si limitava a dargli da mangiare e usarla per farsi fotografare. Dopo mesi di inutili esibizioni con quel povero rapace, Bruno fece arrivare una troupe del TG Regionale per liberare l’aquila, convinto di farne un ulteriore scoop utile ad alimentare la sua immagine pubblica: gli andò buca. L’aquila, restia a prendere un volo che non poteva fisicamente attuare, fu lanciata verso la vallata e si posò, inabile e più malata che mai, nelle fronde di un albero 40 metri più sotto. Finalmente fu ripresa dalla Forestale e affidata alle cure serie di un centro di recupero rapaci. La troupe del TG3 andò via delusa dopo un inutile viaggio da Cagliari e senza alcun servizio da proporre in redazione. Nessun giornalista scrisse di questo clamoroso fallimento, non c’era nessuna lode da fare. L’articolo di Selezione recita: “Nel 1978, le cure prestate da Piredda a un’aquila reale diventarono una leggenda e gli valsero il soprannome di Eremita Buono.. .. Piredda la curò e nutrì per tre mesi, finché non fu rimessa.. .. Salvare l’aquila fu solo naturale disse Piredda”. Salvare?
Si legge ancora che, prima di andare a fare l’ ”eremita”, i “suoi” sarebbero vissuti senza problemi, grazie anche alla pensione che Piredda aveva devoluto a loro beneficio quasi per intero..
BALLE, ancora una volta BALLE; ammesso che non ritirasse la sua pensione lui stesso, non abbiamo mai avuto idea di chi delegò per lui; a casa lasciava sempre meno soldi e mamma dovette far togliere il telefono per non avere più bollette da pagare. Si accumularono persino le quote condominiali, per pagare le quali dovemmo intervenire noi figli, escluso, ovviamente, Figliounico.
Selezione scrive ancora “Si sentiva talmente migliorato che dimezzò le medicine e poi le eliminò del tutto”: FALSO, non saltò mai le pillole cardiache di colore rosso che gli ritiravamo puntualmente nella farmacia Canargiu, allora la più vicina a casa; ne teneva sempre una scatola a Marreri e una a casa.
Ancora: “Gradualmente, Piredda cominciò a vedere qualche familiare e qualche amico”.. BALLE, non si privò MAI per più qualche ora o, al massimo qualche giorno, della presenza di familiari e amici!
“La guarigione di Bruno Piredda fu spettacolare” si legge ancora. Di spettacolare c’è solo una cosa ed è tutta la montatura che quest’uomo si è lasciato creare attorno, fino a ritrovarsene in gabbia. Spettacolare è la faccia di bronzo di certi giornalisti ai quali furono dettate immane cazzate da trasformare in articolo, senza alcuna verifica che ci fossero corrispondenze reali.
IL VIAGGIO DELL’ILLUSIONE E IL RITORNO
DELLA DELUSIONE
Spettacolare
è l’assenza di palle di tutti coloro che, ben sapendo le assurdità che venivano
riportate, non hanno mai avuto il coraggio di apporre nemmeno un piccolo
accenno di contrarietà, se non in ambiti ristretti e mai pubblicamente.
Dopo
aver letto questo articolo di Selezione, una anziana donna del Sudafrica,
ammalata di tumore e convinta di aver trovato un autentico Mago, fece enormi
sacrifici per racimolare i denari necessari a raggiungere l’ ”eremo del buon
vecchio saggio mago delle erbe e guaritore”. Non so quanti voli dovette
affrontare quella povera donna, quanto le costò quel suo “viaggio della
speranza” che si trasformò in “viaggio dell’ illusione”, Babbo, per una volta
assenti giornalisti e testimoni scomodi, le disse la verità; “Mi dispiace
molto, ma non posso fare niente per te, non sono mai riuscito nemmeno a guarire
una psoriasi a mio figlio, figurati cosa posso fare per il tuo tumore”. Lei
andò via distrutta, dopo aver versato tutte o quasi le sue lacrime.
Ecco
a cosa serve prestarsi acriticamente a certe forme di “giornalismo”, nemmeno ci
si rende bene conto di quanti e quali danni possa creare, direttamente o meno,
un articolo di giornale o di rivista nato su chiacchiere e fantasie.
Bruno
non si perse certo d’animo dopo questo fatto penoso, continuò come sempre ad
accogliere amici, giornalisti, ammiratori, parenti e adoratori che, attraverso
la stampa e le chiacchiere, avevano di lui l’idea dell’uomo geniale da
complimentare con sperticata ammirazione.
UN GENERATORE DI BORIA
GRATUITA
Una
delle attrazioni che Bruno fece in quel suo (..o nostro?) fazzoletto di terra,
fu una grande ruota di legno disposta sulla riva del fiumiciattolo che al tempo
scorreva lungo il confine a valle della campagna. La debole spinta dell’acqua
la faceva ruotare, seppure molto lentamente, al ritmo di pochi giri al minuto.
Le attaccò una puleggia con cinghia che andò a far passare sulla ruota di un
vecchio alternatore di automobile. Io e Graziano lo aiutammo a costruire quel
meccanismo, ma non riuscimmo a fargli capire che, dato il basso numero di giri,
l’alternatore non avrebbe mai e poi mai potuto generare corrente. Nemmeno un
po’! Tentammo di farlo ragionare: “Babbo, lo sai bene che un alternatore ha
bisogno di fare almeno qualche centinaio di giri al minuto, per iniziare a
fornire tensione e corrente necessaria a ricaricare la batteria dell’auto”. Fu
inutile, voleva farlo e basta. Una volta pronto gli dimostrammo che, anche col
fiumiciattolo in piena, non dava nessuna tensione. “Non importa, non importa
niente” disse, e ci attaccò lo stesso dei lunghi fili elettrici fittizi.
Tempo
poche ore, ed ecco che capimmo il perché di tanta inutile fatica:
quell’alternatore attaccato alla ruota in stile Mulino Bianco non doveva
servire a fornire corrente, ma ad alimentare il suo già spropositato EGO. Presa
sottobraccio una signora che venne a trovarlo, la portò ad ammirare la sua
nuova creazione, il “generatore di corrente gratuita!” - “Ooooh zio Brunooo che
meravigliaaa!”.
Ecco
collaudato un nuovo giocattolo di babbino - dissi a Graziano- il generatore di
complimenti! Io e Graziano dovemmo allontanarci parecchio per non far sentire
le risate che ci facemmo, dovemmo ormai cominciare a prendere atto che nostro
padre stava trasformandosi in una macchietta ridicola.
UN PRANZETTO ESTIVO
Una
assolatissima domenica di agosto dei primi anni 80, quando Bruno sapeva che non
ci sarebbero state visite a Marreri che potessero rivelare che tanto “eremo”
non era, scese con mamma e gli ultimi due figli e invitò me e Graziano e
relative famiglie a raggiungerli per pranzare tutti assieme.
Ci
portammo appresso viveri, bibite e bottiglie d’acqua in abbondanza; babbo ci
trattava con superiorità e decantava le doti e le virtù salutari della “sua”
acqua. Questa sua acqua miracolosa proveniva da una lunga tubatura che aveva
fatto arrivare fin sotto alla quercia delle Giovani Marmotte, come la chiamavo
io. L’inizio di quella tubatura prendeva l’acqua dal fiumiciattolo più a monte,
e la faceva cascare, ma sempre più flebilmente poiché ormai quel fiume si stava
lentamente prosciugando, fino alla famosa “fontana di zio Bruno”. Era acqua
fortemente inquinata dalle già numerose case dei vicini di campagna e i loro
scarichi fognari e di vario genere. Cercammo di farglielo capire riempiendone
un fiasco e mostrandogli gli ossiuri che ci si dimenavano dentro, ma del tutto
inutilmente; non voleva rinunciare a quella sua favola. Chissà quante persone
si lasciarono convincere a berla?
Preparammo
un lauto pranzetto e ci sedemmo attorno al tavolo, babbo si avvicinò a una
grande giara di terracotta nella quale teneva le olive a mollo e ne pescò
qualche manciata, poi tolse dall’acqua in mezzo alle olive un topo morto che ci
doveva essere caduto dentro; senza scomporsi più di tanto, sotto lo sguardo
attonito di noi tutti e mamma che si coprì la bocca tentando di non ridere, si
affacciò alla porta e lanciò il ratto giù, verso l’orticello. Tornò dentro e
afferrò un’altra manciata di olive, le mise in un piattino e le posò sul tavolo
come se non fosse accaduto niente. Cercammo di far finta di nulla anche noi,
mangiammo e bevemmo allegramente -tutto meno le olive- e babbo ci raccontò di
una signora che lo andò a trovare qualche giorno prima e alla quale, come
d’abitudine ormai consolidata, facendogli vedere i suoi fiori le disse “I miei
fiori impallidiscono, davanti alla sua bellezza!” e si fece due grosse risate
descrivendo quanto fosse racchia. “Che poco ci vuole a far felice una donnina,
anche se orribile” disse. Noi ridemmo meno, specialmente a mamma sembrò qualcosa
di molto deplorevole. “I miei fiori impallidiscono davanti alla tua bellezza”
fu una frase che Bruno fece sua da un fumetto di Topolino letto a casa e preso
in prestito dai figli più piccoli, detta da Paperone coltivatore a non ricordo
chi. Ritagliammo quella vignetta per ricordo e dovrei averla ancora tra le
tante cose che conservo; la sentimmo ripetere a babbo tante di quelle volte da
venirci a nausea.
Altra
sua abitudine consolidata con le visitatrici era quella di strappare alcuni petali
rossi dei suoi fiori e tentare di strofinarglieli sulle labbra… “Questo è un
rossetto naturale...” diceva, e così testava - parole sue - eventuali riluttanze delle donzelle a farsi
toccare.
LA
TENIA E GLI UFO
Un
altro ricordo ributtante riguarda un pomeriggio durante il quale Bruno macellò
un cinghiale, sopra il pozzetto davanti alla casa, e ci lasciò cadere dentro
una enorme, lunghissima tenia. A occhio,
era lunga circa 8 metri.
Quel
pozzetto passava attraverso lo scarico del
water, posto all’interno del minuscolo bagno della casetta, e proseguiva
in discesa per scaricare tutti i liquami nel terreno sottostante, dove
coltivava lattughe, peperoni e altre verdure. Secondo la sua “filosofia”, era
solo un modo per dare nutrimento alle piante, ce lo descriveva come “il suo
concime”.
La
tenia ovviamente finì, con tutte le sue proglottidi e relative uova, in mezzo a
quella coltivazione.
Da
quel giorno in poi ci guardammo bene dall’accettare una delle sue tanto decantate
insalate; in compenso tante famigliole di suoi visitatori, tanti amici e
persino ignari parenti, ne fecero man bassa. Spero per loro che gli sia andata
sempre bene.
Una
sera, prima che ritornasse in città, fece a me e mia moglie una rivelazione; con
voce emozionata ci disse che, la sera prima, erano andati a trovarlo gli
extraterrestri: “Calate da poco le tenebre, vidi tre enormi cerchi luminosi che
si muovevano in cielo, erano sicuramente extraterrestri che volevano comunicare
con me..” Aveva gli occhi accesi della ormai ben conosciuta luce dell’ego e
della presunzione, non gli bastavano più le lodi degli umani, nella sua
fantasia pretendeva di far sbavare di ammirazione anche gli esseri degli altri
mondi.
“Mi
dispiace deluderti babbo” gli dissi, “Le luci che hai visto le abbiamo visti
tutti ieri notte in città, e altro non erano che le potenti celle fotovoltaiche
di una discoteca alla periferia di Nuoro, che proiettano fasci di luce così
potenti da formare, appunto, dischi luminosi nel cielo”. La luce nei suoi occhi
si spense, aggrottò le sopracciglia e ci lasciò andar via con una fredda
buonanotte.
Potevo
forse lasciarlo ancora sognare? Potevo lasciare che, ancora una volta, si
sentisse al centro dell’universo, anche se era un uomo adulto e per giunta
considerato saggio e intelligente?
NO,
non avevo nessun favore da rendergli, non mi andava di dargli sempre ragione
fino a farne uno scemo, mi aveva fatto passare una intera infanzia senza sogni
e senza speranze, benché ne avessi diritto quanto e più di un ultrasettantenne.
GRANDE
NATURALISTA?
Per
alimentare, agli occhi dei suoi visitatori, il suo presunto sconfinato amore
per la natura e gli animali -bada bene, dopo aver fatto il cacciatore per tutta
la vita- costruì un paio di casettine di legno e le dispose su dei pali nel
terreno al di sopra della sua casetta. Uno sprovveduto assiolo ci fece il nido
e mal gliene incolse: durante una notte d’estate passata a dormire li sotto,
Bruno, infastidito dal suo richiamo, caricò la doppietta e sparò al nido
forando la casettina e impallinando i genitori assioli e la nidiata che avevano
dentro. Alla richiesta di spiegazioni da parte nostra, si limitò a dire che non
lo lasciavano dormire. Io, da sempre appassionato di rapaci notturni, non potei
trattenermi dal dirgli ciò che pensavo: “Andavi a caccia e portavi panieri
pieni di beccacce, di pernici, merli e
tordi, tutte cose che poi ti sei lamentato di non vedere più volare numerose
come un tempo. Non hai mai capito, nella tua infinita saggezza, che non hai
ucciso solo quelli che impallinavi, ma è stato come ucciderne altrettanti ogni
giorno della tua vita, e il perché è facilissimo da capire: assieme a ognuno
di quegli uccelli, hai ucciso tutta la sua prole, la prole della sua prole e
così via. Hai privato migliaia di pernici, beccacce e tutto il resto, ora
persino di assioli, di fare la loro utile vita. Sei un coglione”.
Rimase
perplesso come lo vidi ben poche volte in vita sua, e piano mi disse “Sai che a
questo non ci avevo mai pensato?”.
...E LA VITA
CONTINUA
Ormai
consolidatasi la fama di grande erborista, a Bruno vennero affidate alcune ore
di insegnamento di botanica presso un
istituto scolastico cittadino, ed ecco che un altro evento si apprestava
ad affacciarsi prepotentemente nelle nostre vite!
L’
arzillo vecchietto si infatuò di una sua alunna che, quanto a età, avrebbe
potuto essergli nipote, ma quanto a esperienze di altro genere aveva,
evidentemente, qualcosa da insegnarli. Bruno riprese ad assentarsi da casa per
diversi giorni e, quando andavamo a trovarlo, lo trovavamo assieme a lei e ci
diceva che era tanto interessata allo studio delle piante che preferiva vivere
l’esperienza botanica direttamente sul campo, direttamente dal “suo Maestro”.
In quel periodo infastidito dalle visite, geloso del suo nuovo giocattolo, il babbo iniziò precipitosamente la sua
decadenza morale e intellettiva. Era talmente abituato a ricevere lodi e approvazioni, che tardò a rendersi conto di quanto fosse ridicolo in quel suo
nuovo ruolo di “Conquistador”. Probabilmente pensava, dall’alto della sua torre
costruita in cartone e presunzione, che avrebbe attinto nuove lodi e nuovi
complimenti. Ma così non fu. Tutti, amici compresi, iniziarono a diradare le visite
a quell’uomo ormai giunto ai limiti della ridicolaggine; mamma, dopo un primo
periodo di amaro stupore, se ne fece una ragione e, senza fare scandali,
assisteva muta agli eventi. Anzi, diceva a me e a Graziano di scendere ancor
più spesso per controllarlo, per dargli attenzione e vedere che non avesse
bisogno di qualcosa. Ma quell’uomo era davvero “cotto” a puntino, a tal punto
che, dopo che la sua nuova “fiamma” osò gettare uno sguardo -giudicato da Bruno
troppo malizioso- su Graziano, gli fece una ridicola scenata di gelosia. Come
era ovvio fin dall’inizio di quella Love Story, la pulzella si stancò di
prestare le sue attenzioni morbose al vecchietto e lo mollò, per tornare alla
ricerca di nuove emozionanti avventure come era d’abitudine. Bruno non si voleva
arrendere, una mattina ci chiamò per dargli una mano a rimettere in sesto la
sua Peugeot bianca che non andava bene e, una volta messa in moto, partì a
razzo verso il paese dove viveva quella ragazza. Ancora una volta, non
riuscimmo a farlo ragionare in alcun modo, era come impazzito, ci disse di
farci i cazzi nostri, che lui non era uomo da lasciarsi mollare così. Tornò il
tardo pomeriggio più incazzato che mai, letteralmente furioso, e fu comunque un
sollievo vederlo ancora vivo dopo quei tanti chilometri di pessima strada percorsi a chissà quale
velocità e con che stato d’animo. Venimmo a sapere che diede un penoso
spettacolo per strada davanti all’abitazione di quella “signorina”, dovettero
scendere i fratelli per mandarlo via. Rischiò seriamente di essere menato per
bene.
Non
volle ancora arrendersi all’evidenza e tramò vendetta contro quella donnetta
che tanto lo aveva illuso; prese da casa la sua vecchia macchina da scrivere,
tornò in campagna e iniziò il racconto di quella sua storia, col titolo “E la
vita continua...”. Era il racconto, oltremodo scabroso, di quello che accadeva
tra lui e quella sua alunna, con riferimenti precisi e ben dettagliati dei
molti aspetti della loro relazione. In un passo descriveva, tanto per avere una
piccola idea del tenore narrativo, “il fetore emesso dalle sue perdite
vaginali”. E mi fermo qui perché, a questo punto, si capisce bene che ci
trovavamo davanti a un uomo ormai incapace di intendere e di volere. Lesse
quel racconto quasi a chiunque andasse a trovarlo, e pregò alcuni dei suoi
tanti amici giornalisti di pubblicarglielo, a titolo gratuito e anche a
episodi, sui quotidiani locali o in qualsiasi altro modo. Pensava che così
facendo si sarebbe vendicato, che avrebbe distrutto quella donna.
Nessuno
ebbe il coraggio (o il permesso) di pubblicarglielo; per lui fu una ulteriore dura sconfitta.
LA
DECADENZA
Sempre
più depresso, trascurato e isolato da nuovi e vecchi amici, trovò sempre
Maddalena ad accoglierlo a casa, a tentare di distrarlo e farlo sentire a casa
sua. Ma babbo aveva sempre un certo non so ché che lo turbava, sentiva la
necessità di stare più possibile a Marreri perché, diceva, devo preparare il
posto per Figliounico, gli ho promesso di annaffiare, di controllare le sue
cose, gli ho promesso che mi avrebbe trovato sempre qui, gli ho promesso
questo.. gli ho promesso quello.. Gli aveva promesso tutto.
E
lì a Montricos Nieddos lo trovammo, in un rovente pomeriggio estivo, ridotto
pelle e ossa. Si affacciò alla porta di ferro tinto di verde con addosso solo
un pannolone, con gli occhi pieni di sofferenza e appresso 2 gatti, ridotti
anch’essi con le costoline che premevano su uno strato sottile di pelle, non
riuscivano più neppure a miagolare, non c’era nulla da mangiare neanche per
loro. Moriranno di stenti quello stesso giorno.
La
sua “acqua fantastica e leggerissima” come la chiamava lui, aveva già da tempo
smesso di scendere, il fiumiciattolo era ormai completamente asciutto.
All’interno della casa non aveva più niente che fosse commestibile, il frigo
era desolatamente vuoto. Nessun barattolo, nessuna lattina, nessuna forma di
pane di qualsiasi genere. Nulla. Nemmeno le “olive in toposalamoia”.
Anzi,
nel congelatore aveva un merlo spiumato, solo un misero merlo spiumato che,
disse, sarebbe stato la sua cena. La sua auto era ridotta a un catorcio,
probabilmente aveva il serbatoio vuoto al pari del frigorifero. “Non mi hanno
portato più niente, sono tutti in vacanza” ci disse. “Scusa babbo, ma la tua
pensione che fine fa? Chi doveva portarti qualcosa? Si può finalmente sapere
cosa ti stanno combinando? “
Assurdo,
era tutto così assurdo, non si riusciva a convincerlo di raccontarci le cose,
aveva una paura innaturale di qualcosa o qualcuno e sembrava, persino nei
movimenti, un vecchio burattino di legno, bisbigliò cose che non capivamo e,
forse, nemmeno volevamo credere. Pensammo che fosse ormai definitivamente fuori
di sé.
Non
riuscimmo a convincerlo di accompagnarlo a Nuoro, ma -era il minimo da farsi-
risalii verso la città per portargli dei viveri. Lo lasciai così, quella sera
estiva, col pianto nel cuore. Non potevo fare altro, doveva restare lì a
controllare chissà quali inquieti spiriti della sua mente e della sua (nostra?)
maledetta campagna.
PLAGIATO
Di
lì a breve, lo riportò a casa suo
fratello Italo. Era in condizioni disumane, voleva solo dormire e, con una
flebilissima voce, disse “Finalmente, finalmente sono a casa, Maddalena”.
Lei
rispose “E cosa aspettavi Bruno, non ti obbligava nessuno a stare via da qui,
questa è casa tua”. Zio Italo, con quel
suo garbo gentile ma deciso da antico barbaricino che tanto lo
contraddistingueva, guardò tutti noi con l’espressione di chi chiede un attimo
di attenzione e, rivolto a mamma, le disse “Maddalè, ascoltami, una cosa dovete
fare adesso, possibilmente subito, anzi adesso: chiamate i carabinieri e fate
una denunzia, che quest’uomo è stato plagiato, ricattato e ridotto alla fame.
Non lasciate passare questa cosa, Maddalè mi raccomando..”.
Ma
Maddalena non volle chiamare i carabinieri. “Non voglio scandali” disse. Non
diede retta a quelle parole di zio che, noialtri suoi nipoti, prendemmo in
seria considerazione. Ma mamma continuava a credere che suo marito non avesse
fatto altro che ciò che voleva fare, forse memore del suo ormai noto “IO SONO
BRUNO PIREDDA.....ECC. ECC..” Non volle che scomodassimo le forze dell’ordine e
alla fine desistemmo dal farlo, nonostante le accorate raccomandazioni di zio.
Fu comunque un grosso errore.
Ridotto
troppo male per essere curato e accudito in casa, babbo fu ricoverato in
ospedale; aveva diversi tumori, i reni a pezzi, un quadro clinico
spaventoso.
Andammo
a trovarlo io mamma e Graziano, attendemmo che uscissero certi parenti sgraditi
e ci avvicinammo al suo lettino. Graziano gli chiese cosa potevamo fare per la
sua (...o nostra?) campagna. Ci disse, lucidamente, che aveva fatto una
donazione di metà del terreno (2,5 ettari) al suo caro Figliounico, e che noi
altri 4 avremmo dovuto accontentarci della rimanente metà perché, ci spiegò
sibillinamente, non aveva potuto fare diversamente, anche se lo avrebbe voluto.
E ci chiese, di cuore, di fare in modo che, per motivo di una suddivisione così
“sbilanciata”, non si creassero attriti o, peggio, faide tra vicini di terreno.
“Perdonatemi e non chiedetemi di dirvi più di questo, non posso dirvi niente
altro, siatene contenti comunque perché quella metà ve la ho salvata io”.
Queste
furono, anche nei giorni successivi, le sue parole, ripetute con insistenza. Ma
qualcuno già vantava l’intera proprietà di quel buco di terra.
...NOSTRA?
Andai dal notaio Serra per prendere copia di tutti gli atti riguardanti Bruno Piredda e Marreri, e facemmo una scoperta molto interessante: l’acquisto iniziale dei 5 ettari da parte di babbo, l’atto di donazione dei 2,5 ettari al Figliounico e, dulcis in fundo, un secondo atto di vendita farlocco, con la firma palesemente FALSA di babbo. La sua particolarissima firma è sempre stata una e quella sola, figurarsi in un atto ufficiale. Babbo firmava così: brunpiredda , tutto minuscolo, attaccando nome e cognome e facendo della o una p. Non avrebbe mai firmato con quel banale Bruno Piredda a calce di un atto importante, di quell’atto fasullo ottenuto chissà come, anche se qualche idea in proposito ci fu suggerita, anzi rivelata.
Tornammo
in visita da babbo, ormai moribondo, e gli chiedemmo delucidazioni: “No, non è
possibile, io non ho firmato proprio niente, quella metà è vostra, è VOSTRA,
credetemi.. Io non ho firmato niente del genere, MAI”.
Non
potevamo insistere, era ormai un lumicino, e vederlo agitarsi per quella
questione ci straziò il cuore. Lo lasciammo così, con i suoi misteri, con le
cose mai dette, con tante cose in sospeso.
Ci
riunimmo in famiglia con mamma e noi 4 fratelli non-unici. Avremmo potuto e
anzi dovuto andare da un avvocato ma mamma, come al suo solito, odiava le prese
di posizione forti e decise. Sapeva bene che un reato così eclatante avrebbe
portato a qualche arresto e ad acuire attriti già difficilmente sanabili.
Ci
meditò sopra e ci disse “Cosa ce ne facciamo di un pezzetto di terra scoscesa,
lontana da casa, per giunta con dirimpettaia gente come quella? Con noi, che
siamo sempre stati troppo buoni, quei culi di cane hanno sempre alzato la coda.
Ma figli miei fregatevene, tanto quei Montricos Nieddos prima o poi restituiranno loro tutti quei
frutti che hanno piantato. Ho versato tante lacrime a causa di quel posto
maledetto, che non potrà che portare male a chiunque se ne sia approfittato.
Farina del Diavolo che finirà in crusca.”
Crusca
che odorerà sempre più di merda.
Parlammo
di quel marito e padre malato, affetto soprattutto da protagonismo in forma
grave, tradito da chi ne fece e ne fa ancora un mito.
Maddalena
Saba morì, accudita dai 4 figli, relative mogli e relativi nipotini, quasi tre
anni dopo il suo sempre amato Bruno. “Nonostante il male che ci ha fatto, mi
manca” diceva sempre.
Una
mattina d’agosto del 97, serenamente distesa sul suo letto a leggere il
giornale, mamma Maddalena chiamò i sue due figli più piccoli e un nipote,
diede ad ognuno 10.000 lire e li mandò a “Comprare le cose buone, che ci
facciamo un bel pranzetto tutti insieme oggi”. Uno comprò delle fettine,
l’altro frutta e verdura, l’altro ancora spaghetti e bibite.
Al
ritorno a casa la trovarono col giornale aperto tra le mani, pensavano che si
fosse addormentata leggendo. Sì, si era
addormentata leggendo, ma per sempre; il suo cuore si era fermato, il suo viso
era rilassato, senza alcuna smorfia, senza alcuna espressione di dolore. Era la
fine che lei stessa avrebbe voluto fare, meritava di smettere di soffrire così,
senza dolore. E’ la fine che si augura solo alle persone migliori.
VAMPIRI MAI SAZI
Nella
tomba della famiglia Piredda mamma non fu ben accetta; qualcuno e qualcuna, tra
cui le sue cognate, avevano remore in proposito. “Non era una Piredda” fu la
sentenza di qualcuno. Stranamente però, di signore “non Piredda” ne verranno
accolte eccome, in quella tomba, spero
ci sia ancora spazio per eventuali altre “non Piredda”, ovviamente per il loro
bene; che possano glorificarsi di essere sepolte in quel luogo tanto blasonato.
Nella
opinione pubblica doveva rimanere viva la credenza, anche questa del tutto
inventata ad arte, che babbo e mamma erano separati o addirittura divorziati.
Nel
corso della mia vita ho dovuto spesso contraddire le molte persone che erano
del tutto convinte di una loro separazione! E con quale convinzione; trovavo
persino umiliante dover insistere su cose che, ovviamente, dovevo sapere meglio
di loro.
Non
ci scomponemmo più di tanto, anzi, comprammo un loculo tutto per lei in una
parete assolata che lei avrebbe sicuramente approvato, innamorata com’era della
luce solare, e lasciammo che la tomba di quei Piredda si riempisse di quei
Piredda e affini.
Maddalena
Saba era di un altro impasto, di un altro forno, era un buon pane da non
mischiare con certi fermenti. Non sentiva il bisogno ossessivo di cercare
araldiche nobili origini e non si vantò mai di niente, era Nobile nell’animo e
basta. Pensava, come lo penso io da sempre e per sempre, che vanagloriarsi di
eventuali origini “nobili” abbia un valore pari a zero. Qualcuno evidentemente
la pensa diversamente e ama glorificarsi di qualcosa che, tra l’altro, può
essere solo frutto di personali interpretazioni non prive di “acrobazie”
storico-anagrafiche. Ma anche se fosse vero? Dovremmo forse impressionarci,
pensare che “nobil discendenza” abbia una qualche valenza pratica che ci eleva al di sopra degli altri? ….Ma vaffanculo!
Nonostante tutto e tutti, noi sopravvissuti cercammo di non creare situazioni spiacevoli. Un giorno, Figliounico mi fermò per strada e mi chiese di ascoltarlo; ci sedemmo a prendere un caffè e mi disse che aveva un tumore e anche un grande timore. Credeva che Graziano avrebbe potuto far del male alla sua famiglia e non sopportava di sentirsi morire con quel peso. Mi chiese di perdonarlo per il male che mi aveva procurato e, se potevo, di fare da tramite e fargli sapere se poteva permettersi di stare tranquillo. Gli feci questo favore, ancora una volta illudendomi che qualcosa in lui fosse cambiato in meglio. Ma una sera che mi chiese di accompagnarlo al mare per farci una pescata, capii dai suoi discorsi che il detto del lupo che perde il pelo ma non il vizio era ancora maledettamente attuale. Preferisco sorvolare sulla natura delle sue dissertazioni.
Avrei
potuto rendergli pan per focaccia riguardo ciò che fece nell’agosto del 1980,
quando mi trovai in ospedale in fin di vita dopo un terribile shock
anafilattico da reazioni allergiche molto potenti, sempre a causa di quella
antica psoriasi che, in quel periodo, mi riaffiorò con rabbia e soprattutto
nella schiena, là dove “Che bravoo ziooo Brunoooo” aveva sperimentato i suoi
medicinali. La sera che i medici mi dichiararono destinato a morire entro la
nottata, dopo il cerimoniale di una suora e un prete per la cosiddetta estrema
unzione, vidi entrare Figliounico che mi si avvicinò per bisbigliarmi
all’orecchio queste parole: “Hai visto Marcello, stai crepando, adesso me le
paghi tutte, specialmente quello che mi hai fatto a Bologna, addio bastardo,
vai all’inferno.” E se ne andò incontro alla mogliettina che lo attendeva sulla
porta.
Non
risposi nemmeno, avevo la pressione a zero e la temperatura a 42, ma una lucida
e incredibile certezza: che non me ne sarei andato. Non gli avrei dato quella
soddisfazione.
E
così fu.
No,
avrei potuto ma non gli resi pan per focaccia.
Non
ho autorità per mandare nessuno all’inferno, questo è un compito che spetta ad
altri, a Ragionieri che sanno fare bene i conti e non tralasciano nulla, poco
propensi a lasciarsi affascinare da facili miti o a farsi corrompere da denari
o donnette senza alcuna morale.
Ma
adesso basta, sinceramente, non sopporto più le favole, le enormi falsità che
ancora circolano su un uomo che non è mai stato quello che voleva (e che altri
volevano) far apparire. Niente da dire sulle grotte, alle quali ha dedicato
molto della sua vita sottraendolo a tutti noi, merito al merito, ha saputo
godersi fino in fondo le “sue” grotte.
La
vera, unica pioniera dell’erboristeria, nella nostra famiglia, è stata
Maddalena Saba.
La
vera, autentica “vecchia saggia” è stata lei, e lei sola.
Spero
che, tra coloro che sanno queste verità, ci sia qualche coscienzioso che non
abbia più remore per esternare ciò che ha realmente visto e sentito, che non
tema a contraddire i soliti luoghi comuni che certi “giornalisti piccoli
piccoli” hanno ormai preso a cliché, che si smetta di divinizzare ciò che fu
tutt’altro che divino. Spero che certe gentili parenti, che per decenni hanno
evitato Maddalena per rintronarsi ascoltando sempre e solo il solito rintocco
della solita campana fino a rintronarsi il cervelletto, la smettano di starnazzare “Zioo Brunoooo che
bravoooo che buonooo, che grande uomooo”. Peccato che non lo abbiate avuto voi
come padre o come marito, peccato che non abbiate mai voluto approfondire certi
argomenti, che abbiate seguito ciecamente il pifferaio che suonava più forte.
Capisco il vostro punto di vista, come parenti lontane che vedevano uno zio
“adorabile” per qualche giornata estiva. State tranquille, la soluzione c’è e
consiste nel continuare a fare come avete sempre fatto. In fondo, credere alle favole non è un reato,
e qualche seratina ad ammirar le stelle, per voi in Sardegna è sempre
garantita.
Provo
un notevole disgusto quando mi capita di vedervi in qualche modo “impegnate nel
femminismo” dopo aver passato la vita a disprezzare e gettar disprezzo su
quella grande donna che fu vostra zia. Non l’avete mai meritata.
Se
ho detto qualcosa che non corrisponde a Verità, che mi si secchi la lingua.
Altrimenti,
che gli si secchi a chi continua a dire falsità.
Amen.
Marcello Gabriele Piredda
Quel piccolo cortile della nostra casa, che occupavamo benché fosse una proprietà di tutti gli eredi di nonno Pietro, a me pareva enorme e ci trovavano posto molte piante, compresi alcuni alberi: un olivo, un melo, un nespolo, un grande alloro che spuntava al di sopra dei muri che ci tenevano al di fuori di sguardi indiscreti, un sambuco, una vite rampicante che formava un largo pergolato, e una grande edera che si arrampicava sulla parete a ridosso dell'ulivo e offriva un ottimo riparo per i passeri che, all’imbrunire, si infilavano sotto le foglie per passare la notte al riparo. Le ortensie, i gerani, la menta e tante altre piante erano curate da Maddalena e io mi offrivo volentieri alle operazioni di annaffiatura quotidiana. Nei primissimi anni cicciottello, divenni in seguito, progressivamente, sottile come un fuscello e seriamente denutrito, e venivo spesso nominato come "Marcellino pane vino e pelle e ossa".
GIOCHI E VELENI
A quei tempi tutt'altro che apprensiva, mia madre mi lasciava ore e ore totalmente libero di giocare nel cortile, anche se non credo fosse del tutto ignara dei rischi legati alla presenza, nel magazzino adiacente, di una notevole quantità di arnesi infernali: polveri da sparo conservate in vari barattoli, due fucili da caccia con relative cartucce, bottiglioni contenenti acidi e una gran varietà di veleni , come il grande sacco colmo di DDT che babbo teneva fin dal 1950, anno in cui terminò il mandato presso l’Ente per la disinfestazione dalla malarica zanzara anofele. Un altro sacco conteneva chili di pietre di carburo, usate per caricare le lampade con le quali si intrufolava negli anfratti e nelle grotte. La casa era anche la prima sede del sodalizio di grottaroli e quindi, buttati alla rinfusa nell’andito, vi erano spesso montagne di tute sporche che Maddalena avrebbe lavato, caschi, lampade, scalette avvolgibili in cavo di acciaio. Un altro stanzone in quel piano terra (che in realtà era al di sotto del piano stradale di circa un metro e, perciò, ci si scendeva attraverso una scalinata di granito, era riservato da una parte alla catasta di legna da ardere per il caminetto, unica fonte di calore della casa, e dal lato opposto a una notevole quantità di libri di vario genere, dai quali pescavo ogni giorno qualcosa da leggere. Adiacente, vi era una ulteriore grande stanza riservata ad attrezzi di vario genere, un tavolone di legno con una grossa morsa, decine di barattoli di vernici e mille altre cose buttate alla rinfusa. Un’ultima stanza in fondo a quell’andito era la cameretta di Angelo il figliounico che, in realtà, veniva a casa solo in rarissime occasioni. Probabilmente si voleva del tutto indipendente fin da ragazzo, insofferente verso i due fratelli che gli toglievano il primato di figlio unico, come rivelatomi da un foglio che trovai scritto di suo pugno nel quale si lamentava delle attenzioni che ci venivano rivolte, a suo dire discriminanti nei suoi confronti. Le sue rare apparizioni sfociavano quasi sempre in richieste di denaro e, inevitabilmente, finivano col generare grossi litigi e malumori familiari, specialmente tra Bruno e Maddalena. La sua forte inimicizia con Graziano, che si diceva nata il giorno che quest’ultimo ne scoprì un segreto inconfessabile del quale trovo saggio tacere poiché non ne fui testimone diretto, e del quale venni a conoscenza solo molti anni dopo, era al tempo per me incomprensibile, ma sentivo mamma dire spesso che era un bene tenerli lontani l’uno dall’altro; questo mi bastava e mi doveva bastare, dato che le domande non erano mai ben accette in famiglia, specialmente se a farle era un bambino. Quella piccola stanza conteneva solo un lettino, qualche sedia e una antica cassapanca di legno intagliato a mano, tanto grande da poter contenere al suo interno una persona adulta sdraiata, e la si poteva richiudere al di sopra col suo massiccio coperchio ligneo, normalmente tenuto aperto da una stecca basculante che si imperniava in una tacca del coperchio stesso per reggerne il notevole peso.
GRAZIANO IL CHIRURGO
Dato che quella camera quasi mai era occupata da Angelo,
veniva spesso sfruttata da Graziano per le più svariate attività; proprio sopra
la cassa antica lo vidi impegnato, un pomeriggio, a far qualcosa di impegnativo
mentre stava chino sotto la luce di una potente lampada. Naturalmente mi ci
avvicinai incuriosito e, incredulo e anche impaurito, vidi quel qualcosa di
raccapricciante che mai potrei dimenticare: stesi e tenuti fermi da strisce di
nastro adesivo c’erano, uno a fianco all’altro, un passerotto e un topolino che
invano si agitavano nel tentativo di liberarsi. Graziano, che teneva tra le
dita una lametta da barba, praticò un’apertura nei loro petti e, in un marasma
di sangue che zampillava, tolse i cuoricini dai due sfortunati animaletti.
Naturalmente - e per fortuna- sia il topo che il passero smisero di vivere e
soffrire, mentre Graziano non la prese bene perché il suo intervento chirurgico
non riuscì. Cosa voleva fare lo disse lui stesso non tanto rivolto a me quanto,
invece, a se stesso; scambiare i loro
cuori, insomma mettere il cuore del topo al passero e viceversa. Che Graziano
non fosse del tutto a posto di testa ne eravamo già consapevoli, e d’altronde
gli fu certificato quando lo riformarono dal servizio militare a causa di
evidenti problemi mentali, manifestati anche da reazioni violente. Davanti alla “nostra” casa c’era una stradina di ciottoli di pietra che
proseguiva, da un lato, verso il basso, formando quindi una lunga discesa che,
avanzando, proseguiva con una salita. Assurda
beffa del destino volle che fossimo considerati benestanti, e solo perché tutti
ricordavano il padre di Bruno, Pietro, un tempo proprietario di enormi
territori della nostra provincia e di case come quella che abitavamo, allora
considerata signorile ma, negli anni 60, ormai ridotta a poco più che un
vecchio rudere. Le pareti gonfie di umidità, l'impianto elettrico che scorreva
sopra i muri, attraverso fili di rame intrecciati e malamente isolati da uno
strato di tessuto, diventato marrone dal tempo e dalla fuliggine, dal fumo
delle sigarette di Maddalena e della pipa di Bruno, e in vari punti col
conduttore ormai scoperto e, quindi, ad
alto rischio di corto circuiti e scosse.
Anche i vecchi interruttori in bakelite nera erano volanti e, durante le forti piogge, quando dal tetto la
cui armatura era di canne penetrava l'acqua, avvenivano fenomeni di dispersione
e scariche che lasciavano macchie nere nei muri. Forse Tesla avrebbe gradito
vivere in una casa del genere e trarre ispirazione per la sua creazione di
fulmini artificiali, io imparai le prime rudimentali regole dell’elettricità
attraverso esperienze dirette, beccandomi più di una scossa. Le tegole sul tetto, maculate di verde
muschio, erano già tanto vecchie che si rompevano con facilità; quando ne
cadeva qualcuna le paragonavo alle tavole di argilla nelle quali i Sumeri
imprimevano i loro caratteri cuneiformi.
In origine del tutto sprovvista di una stanza da bagno, ci fu costruito
un soppalco di legno sopra la porta d'ingresso, simile a una piccionaia, nel
quale si accedeva attraverso una malferma e scricchiolante scala di legno. Una
volta giunti lassù bisognava entrarci col capo chino e persino rimanerci, tanto
era basso il soffitto e per giunta spiovente, e altro non vi era che un vecchio
cesso, così mal ridotto che non avrebbe sfigurato in una discarica, e un
treppiede di ferro che reggeva una bacinella di metallo laccato, posta sotto a un rubinetto dal quale non poteva che uscire
acqua rigorosamente fredda. Sempre che i tubi, che passavano anch’essi
all’esterno delle mura, non gelassero, come spesso accadeva durante le peggiori
giornate invernali. Un grosso chiodo infilzato
nel muro di fianco al cesso serviva da portarotolo, ma non nel senso che si
intende oggi; i rotoli di carta igienica ci furono del tutto sconosciuti per diverso
tempo e, per pulirci, usavamo strisce di carta di giornale infilzate appunto
nel chiodo. Trovare un giornale significava
ricavarne una riserva di “fogli da culo” come li definiva Graziano, ma
riciclavamo anche quei fogli -sempre ben intrisi di caratteri di stampa al
piombo- che i negozianti usavano per avvolgere la frutta, il pesce, e persino
la carne. Nel cortile c'era un'antica vasca di granito nella quale Maddalena
lavava vestiti, tute e lenzuola; mentre passava e ripassava un
grosso sapone di Marsiglia sui capi da
lavare, sotto l’acqua gelida, se era di buon umore canticchiava, altrimenti
malediceva la vita e parlava a se stessa nel suo bel dialetto logudorese, del
quale poco capivo, ma le mani livide, e
specialmente le eventuali lacrime che le scorrevano sulle guance, parlavano una
lingua universale. Passati i brutti
momenti, quando capitava che qualche sua amica veniva a trovarla o quando
usciva e ne incontrava, era sempre sorridente e curata, e ben se ne guardava dal lamentarsi.
D’altronde, dava a se stessa la colpa di aver creduto a un uomo che - col
tempo è sempre stato più evidente- la aveva sposata solo per avere una serva e,
al tempo stesso, qualcuna che gli sfornasse dei figli, nel tradizionale
rispetto di quei luoghi comuni che imponevano usi e costumi che rientrassero
nella cosiddetta "normalità" di un uomo, altrimenti considerato
impotente o chissà che. Inoltre, Maddalena credeva nella filosofia del
"non lamentarsi per non dare soddisfazioni a certa gente" e non aveva certo tutti i torti,
specialmente riportandoci a quei tempi e a quell’ambiente composto, anche, da persone tanto pettegole e maligne da potersi
paragonare alle vipere. Insomma, un principio che è ancora valido, in molti
casi, anche ai giorni attuali.
UN NONNO RICCHISSIMO
Le
persone anziane che conobbero quel mio facoltoso nonno, un tempo padrone della
casa, si dividevano in due categorie; una era quella di coloro che lo
esaltavano con ammirazione e invidia, descrivendolo come un grande e generoso
uomo, valido cacciatore e non solo di
cinghiali, ma anche -anzi soprattutto- di giovani donzelle; la seconda
categoria apparteneva, invece, a quelli che erano stati vittime delle prepotenze di quello che
definivano un despota e, quando lo si nominava, facevano gesti scaramantici e di disprezzo, mimando
l’atto di sputargli in faccia. Tra questi ultimi c'erano anche coloro che
assistettero impotenti a uno dei divertimenti preferiti dai figli di quel
"prinzipale", quando coi loro eleganti vestitini alla marinara
uscivano di casa e facevano rotolare giù nella stradina, divertiti, alcune
forme di formaggio, noncuranti dei poveri del vicinato che stavano a guardare.
Pietro commerciava il formaggio e il carbone persino con l'America,
trasportando grossi carichi su carrozze a cavallo che, periodicamente,
viaggiavano verso i porti per farne imbarcare il contenuto. Uno dei punti di
maggior carico delle sue merci era situato nella vallata di Lanaitto, nei monti
di Oliena (paese a circa 14 chilometri da Nuoro) e, proprio perché vi sostavano
i carri, quel punto fu chiamato "Sa sedda 'e sos carros", appunto
"punto di sosta dei carri". A Bruno, che spesso raggiungeva il padre
cavalcando da Nuoro fino a quella splendida vallata, non sfuggì la presenza
delle interessanti strutture di epoca antica che spuntavano tra l’erba,
rivelatrici di antichi villaggi (tra questi c’era anche Tiscali), e alcune
altrettanto invitanti grotte nelle quali non vedeva l’ora di infilarsi. Ci
tornerà con calma molto più avanti quando, non più al centro del commercio
della legna e del carbone, la zona tornò nell'oblio, frequentata solo da
qualche pastore. Le sue prime esplorazioni riguardarono alcune grotte della
zona, finché l’attrazione verso quelle rovine non prese il sopravvento. Erano i
primi anni 60 e, dopo i primi scavi, rendendosi conto di quanto quel villaggio
fosse grande e complesso, arrivò al punto di costruire un tratto di
binario metallico lungo diversi metri, ideato per poter svuotare più
rapidamente dai grossi massi e dalla terra il villaggio, scaricandoli nella
valle sottostante tramite un capiente carrello su ruote dove lui, qualche
complice e Figliounico caricavano anche grandi quantità di residui di bronzo,
rivelatori dell’esistenza in loco di una fonderia e, in seguito, anche di un
importante sito di produzione e lavorazione di preziosi reperti. Qualche volta
ci portò anche me e mamma, ma prima, e anche durante e dopo, mi "raccomandava", con le minacce
più convincenti, di non dire assolutamente mai nulla di ciò a cui assistevo in
quelle giornate. Per me, nonostante le
intimidazioni, quelle ore sono state molto divertenti, amavo stare a contatto
con la natura selvaggia e integra di quei posti. Vederli scaricare tonnellate
di materiale giù a valle, per poi scavare con foga e recuperare bronzetti e
tanto altro, non mi dava da pensare più di tanto; ero un ingenuo bambino e davo
per scontato che mio padre sapesse quel che faceva e non ci fosse niente di
illegale, e che non se ne dovesse parlare per non rivelare ad altri il “nostro”
posto segreto, nel quale si trovavano i tesori.
OH OH OOOH
Solo più avanti potei realizzare che quel che facevano non
fosse proprio del tutto lecito; il suo viavai da quella vallata fu, per mesi,
quasi quotidiano. Al suo ritorno, babbo parcheggiava
l'auto nel cortile prima dell'alba, e vi scaricava pesanti sacchi di juta, dai quali
poi tirava fuori decine di bronzetti in
diverse pose e di varie misure, oltre che barchette votive di bronzo, alcune delle quali di notevoli dimensioni e
con a bordo numerose figure umane e taurine, ma anche una notevole quantità di
reperti di chiara origine egizia: numerosi scarabei sacri in pietra verde della
dimensione di un piccolo fagiolo ma anche altri bronzi e statuette non certo di
origine nuragica, con figure ritte e dalle inconfondibili fattezze egizie. In un
altro pesante sacco conservava anche numerosi residui informi di bronzo, forse
destinati, nelle intenzioni, alla produzione di copie. Sicuramente quel sito
non fu il solo a subire la depredazione del notevole patrimonio storico e
culturale, ma ne visitarono diversi nella stessa vallata e in qualcuno di
questi, stufi della presenza dei tombaroli nuoresi, alcuni pastori del posto devastarono
gli scavi, lasciando il chiaro messaggio che non erano i benvenuti. Ricordo un
suo ritorno a casa prima del previsto; scaricate vanghe e picconi dal portabagagli,
livido dalla rabbia, lanciò colorati strali verso coloro che pascolavano le
loro greggi nella vallata di Lanaitto.
Il futuro "vecchio
saggio", col tempo, prese sempre più in odio gli abitanti di Oliena, fino
a definirli discendenti dei figli "bastardi" lasciati nella zona dai
centurioni romani, e quando lo diceva gli si illuminava una particolare lucina
negli occhi che per noi, che lo conoscevamo bene, era un chiaro segno di
autocompiacimento per ciò che diceva. L'odio raggiunse il picco massimo quando
un ristoratore del paese, dal quale si aspettava enorme riconoscenza per
avergli indirizzato molti turisti, gli presentò il conto del ristorante dopo
una cena, benché in realtà fosse piuttosto scontato. Lo aspettò al varco quando
si costruì la fama di "Mago delle Erbe" e finalmente, presentatosi
nel suo finto eremo quel ristoratore con qualche problema di salute, gli fece
pagare caro l'intruglio di erbe che gli preparò. Una vendetta che lo riempì di
orgoglio e che non mancò di raccontarci divertito, naturalmente dopo la
premessa del suo gutturale "OH OH OOOH". Ecco, una delle sue particolarità era proprio questa urticante risata
cupa che faceva prima di esternare qualche pensiero da se stesso considerato di
grande valore; "OH OH OOOH", un verso che esprimeva tutta la sua
boria e lo rendeva piuttosto antipatico perlomeno agli occhi di noi familiari
ma, certamente, anche a qualcuno di quei suoi amici che però mai e poi mai
avrebbero osato esternarlo. Bruno andava adulato e assecondato, e quegli amici
lo sapevano fare magistralmente, indotti dal pensiero unico del gregge dal
quale, se ti discosti, diventi malvisto. La facilità con la quale il loro mito
apriva il portafogli quando c’era da pagare era, certamente, un altro punto a
favore del gregge. Se non vi avessi assistito personalmente, non avrei mai
creduto che si potesse arrivare a punti così elevati di adulazione, non così
tanto da sperticare complimenti, abbracci e tanti ossequi da passarci intere mezz’ore.
LA SERVA DEL NONNO
A
proposito di nonno Pietro, i suoi stessi figli raccontavano spesso, con
compiacimento, un aneddoto che ben ne definiva il personaggio; prese a far
complimenti piuttosto espliciti alla serva che avevano in casa, molto più
giovane di lui, senza alcuna remora di farlo davanti a sua moglie che, una
sera, gli disse con severità di lasciarla tranquilla; ”Smettila di importunarla
Pietro, è solo una ragazza, molto più giovane di te!”. Nonno Pietro, evidentemente non arreso agli
anni in più e anzi, forse ancor più invogliato da quel "consiglio"
non voluto e ritenuto offensivo per
l'aver messo in gioco i suoi anni e sminuito la sua autorità, mentre la moglie dormiva si infilò nel letto
della serva e si fece volutamente sentire mentre la usava a suo piacimento. Nonna irruppe nella camera della serva e trovò suo
marito che, in tutta tranquillità e sorridente, le disse in dialetto
nuorese "Lo vedi che ha
"ricevuto" bene, la giovinetta?". Peccato, dispiace non riuscire
a rendere bene la volgarità insita in questa sua allegra risposta, invece ben
espressa nel dialetto. Morta la moglie,
alla quale fece partorire in tutto 6 figli, nonno si risposò con quella ormai
ex serva, con la quale fece altri sei figli dopo essersi trasferiti nella
penisola. Seppur
ricchissimo, questo nonno che non ho mai conosciuto finì col perdere tutto,
inizialmente perché "rimediava" alle sue numerose avventure con
giovani donne -specialmente quelle che rimasero incinte- con denaro, proprietà
immobili come case e terreni, e ,successivamente, perché uno dei suoi figli
(quindi mio zio) fu accusato di far parte di una banda di rapinatori che fecero
una strage e condannato all'ergastolo; nonno per tentare di tirarlo fuori dai
guai mise in moto un certo numero di avvocati che, come avidi avvoltoi, non ci
misero molto a decimare il suo patrimonio e, comunque, non evitarono 25 anni di
carcere a quel mio zio che tutto sembrava fuorché un delinquente e, probabilmente,
portò con se nella tomba alcune verità mai dichiarate ma qualche volta solo
accennate attraverso sfumature di sguardi e di parole. Appena uscito dal
carcere, venne a casa per conoscermi e mi regalò una fantastica scatolona di
legno con dentro tutto l’occorrente per dipingere a olio, un omaggio che porto
ancora nel cuore assieme alla pacata figura di quell’uomo, fino alla fine dei
suoi giorni pacioccone e gentile, tanto intelligente da essersi sempre tenuto
isolato dai luoghi comuni , dalla tv e dai giornali.
PALLE DI NATALE
Attendevo le sere di Natale pur sapendo che nessun bimbo
dotato di magici poteri fosse nato il 25 dicembre, ma auspicavo comunque una
serata tranquilla con, magari, qualcosa di buono da mettere sotto i denti. A
volte il mio desiderio si realizzava. Bruno, se non altro perché i suoi amiconi
di avventura stavano in casa, probabilmente dotati di un diverso senso del
dovere e della famiglia, anche se a mala voglia accettava l'idea di passare una
intera serata a casa e non in grotta, a pesca o a caccia o negli scavi
clandestini alla ricerca di reperti. A volte, invece, anche la serata di festa si trasformava in
tragicommedia e lo si poteva già preannunciare dalla tarda mattinata, quando
babbo tornava dai suoi numerosi "giri" di bar per scambiare auguri
con chi capitava, accompagnato da un forte e fastidiosissimo odore di vino nero
e chissà quali e quanti alcolici. Un giorno, oltre l'odore di bettola, portò con
se del pesce secco tipo baccalà e, posandone l'incarto sul tavolo di cucina con
orgoglio assieme a una bottiglia di vino, disse a Maddalena " questo è il
mio pranzo oggi, per me un vero elisir di giovinezza!". Osai dire una
battuta, per me del tutto innocente e che, anzi, credevo essere foriera di una
risata e dissi "l'importante è che non diventi un elisir di
stitichezza". Ecco, Bruno non perse l'occasione per mollarmi un sonoro
ceffone e, dall’alto del suo scranno di giudice, sentenziò che l’imputato incorse
nel reato di “mancanza di rispetto verso l’autorità”, meritevole quindi della
pena di un ceffone, chiusura nella sua stanza e rinuncia al pranzo. Nonostante
avessi scontato la pena, la serata finì comunque nel sangue per me
perché quel giudice, come sempre accadeva, mentre la sbornia scemava nella sua
fase euforica ed entrava in quella violenta,
trovò chissà quale ulteriore spunto per sfogare i suoi nervi contro la
moglie ed i figli (escludendo ovviamente quello unico, l’originale,
l’inimitabile) per ore e ore fino all'epilogo della distruzione dell'abete
natalizio e il lancio delle fragilissime palle di vetro, una delle quali,
grande, rossa con belle decorazioni di colore bianco fatte a mano come si usava
a quei tempi, si frantumò addosso a me mentre stavo seduto per terra angosciato
dalle sue urla. Mi ritrovai pieno di schegge e sangue in volto e nelle mani, nell'indifferenza di
quei genitori troppo impegnati a discutere. Per fortuna, richiamato dal frastuono e dal
mio pianto, bussò alla porta il medico che abitava di fronte a noi, che si preoccupò di togliermi le schegge di vetro con delle
pinzette e medicarmi. Mezzo fasciato e incerottato, andai a letto a tentare il
non facile scopo di dormire e superare, ancora una volta, il trauma subito.
INSETTI E VELENI
Il mio lettino era
una semplice branda di metallo con la rete di fil di ferro intrecciato su se
stesso e tenuto insieme dalla ruggine, con sopra un materasso di tela riempita
di crini, piume di gallina e chissà che altro, ottimo albergo per le cimici
che, assieme alle pulci, alle blatte e ai topi, formavano una presenza fissa e
considerata del tutto normale nell’abitazione. Spesso le piume -o meglio, le
loro acuminate punte chiamate calamo- sporgevano tra le trame del tessuto
formando fitte reti di duri spuntoni che mi provocavano -ovviamente assieme
alle punture delle cimici- dolorosi sfoghi che
impedivano di stare e dormire bene, perlomeno quelle volte che il Dottor
Chirurgo Graziano non mi somministrava la dose di sonnifero. Le blatte, che si manifestavano specialmente
di notte quando veniva accesa una luce, le si vedeva
correre rapidissime per infilarsi sotto i mobili. I topi, che entravano
con molta facilità dal cortile, spesso schizzavano via da dentro la dispensa
della cucina dove erano riposte le cibarie, ma li si poteva incrociare in ogni
angolo della casa, mentre scorrazzavano allegramente. Ogni tanto babbo spargeva
il suo puzzolente DDT negli angoli delle stanze, nel tentativo di rendere
difficile la vita alle blatte, ma la rendeva un poì più difficile anche a noi.
L’odore di quella polvere biancastra rimarrà per sempre nelle mie narici come
vivido ricordo olfattivo, un odore pungente che si potrebbe riconoscere tra
altri mille e il cui effetto tutt’altro che benefico si sommava ad altri
veleni, come i sonniferi che Graziano, con insolita gentilezza, mi propinava
prima di dormire, sciolti in una tazza di camomilla che io, ingenuamente,
accettavo riconoscente. Così come accettavo e svuotavo rapidamente i tubetti in
alluminio delle pastiglie Formitrol, che mamma mi portava dalla farmacia e che,
a quel tempo, contenevano formaldeide.
Preferisco pensare – sperando in una sorta di effetto placebo- che tutte
quelle sostanze mi abbiano in qualche modo irrobustito, insomma come diciamo
qui “vaccinato”, così come, forse, mi hanno vaccinato i veleni dell’animo, dei
dispiaceri e dei momenti più bui. Le nere
pulci che alcune volte babbo portava con
se dopo le sue scampagnate e specialmente al ritorno dalle battute di caccia,
le trovavo nel letto così spesso che le consideravo una presenza del tutto
normale, e mi divertivo a vederle saltare quasi fossero un gioco, finché non
riuscivo a schiacciarle e vederne il rosso contenuto di sangue che avevano
bevuto. Mi stupivo di quei bambini che
dicevano di non sapere neppure cosa fossero e pensavo “ma come, tu non giochi
con le pulci?”. Ma era soprattutto l'angoscia a ferirmi, sempre più grande, la
paura di ciò che poteva accadere all'interno di quella famiglia così
malmessa, che mi raffiguravo come una
zattera instabile nella quale dovevo tentare di sopravvivere senza lasciarmi
uccidere dagli eventi. Per un certo tempo e per attimi che mi sembravano
infiniti, finivo con il dover stare fermo su quella antica sedia nera - che si
sarebbe intonata benissimo nell’arredamento di un castello medievale- dove
subivo gli esperimenti “medici” di babbo, che altro effetto non hanno avuto se
non quello di crearmi molte sofferenze ed estendere una patologia che, se presa
in tempo e nei modi giusti, avrebbe potuto sparire, e invece si allargò dalla
schiena agli arti. Passavo ore a piangere, specialmente la notte, troppo spesso
coi morsi della fame e con le piaghe sanguinanti nella schiena - nella quale
avrò per sempre alcune cicatrici- dopo aver subito angherie da un fratello
folle e da un padre che aveva sposato una donna solo per farle partorire figli
che lui avrebbe lasciato al mondo senza alcuna protezione, con l’eccezione di
quell'unico che considerava, o forse è più corretto dire “che si faceva
considerare con prepotenza” un vero figlio, quello che ha saputo sfruttare
molto astutamente ogni debolezza di quella famiglia e, soprattutto, l'ego
smisurato di nostro padre e la sua fama di gran brava ed erudita persona.
Per me, è stata una piccola fortuna la presenza di quei libri e delle
enciclopedie, accatastati nello stanzone del piano di sotto assieme alla
legna, che leggevo quanto più potevo,
nell’intimo desiderio di riuscire a capire il senso dell'esistenza. Mi
estraniavo -o almeno ci provavo-
cercando spiegazioni sul perché il sole, la luna e i pianeti erano lì a
danzare precisi passi di un ritmo misterioso, su cosa c'era prima e cosa ci
sarebbe stato dopo ogni cosa, da quello che sembra il vuoto attorno a noi a ciò
che compone il tangibile della nostra esistenza. Sognavo di poter andare oltre
e avrei tanto voluto avere un microscopio,
osservare direttamente quel microcosmo di cui leggevo, ma rimase per
molti anni quello che era: un sogno.
PENSIERINI DELLA NOTTE La notte era fatta di pensieri
spesso assurdi e domande curiose, nei quali si imponevano con prepotenza
pessimismi e timori ma anche, per fortuna, qualche speranza. Non era facile alleggerire quei
pensieri; viaggiavano su un treno alle
cui fermate ne salivano tanti altri in fila, mentre ben pochi ne scendevano. Un
treno con sempre più vagoni appresso.
Stavo perennemente in ansia aspettando un rumore, un urlo, un doloroso
scherzo di Graziano, o un padre che si
metteva la pistola in tasca e andava via sbattendo la porta dopo avermi detto
“addio, vado a uccidermi”. Lessi anche
molti libri di fiabe e storie per ragazzi ma -solo dopo me ne resi pienamente
conto- non mi facevano fantasticare con la mente e li vedevo per quello che
erano realmente, curiose storielle
inventate che comunque, spesso, contenevano interessanti lezioni
morali.
Ammiravo l'arte e cercavo di
interpretarne le diverse trame ispiratrici e mi era facile, anche perché a quei
tempi la si distingueva dalla merda con
facilità. Non mi soffermavo all’aspetto esteriore
delle cose (oggi lo stesso, e alle cose ho aggiunto anche gli esseri viventi),
e ho sempre voluto conoscere il funzionamento degli oggetti; iniziai smontando
tutto ciò che potevo per vederne i meccanismi e interpretarne la funzione.
Macchinette a molla che trovavo buttate, radio, oggetti meccanici di vario
genere; dovevo capire come erano
“animati” e li smontavo per poi rimontarli. Naturalmente mi ci potevo dedicare
solo quando vi era un minimo di serenità, cosa impossibile se Graziano stava in
casa; uno dei suoi passatempi preferiti era farmi ogni possibile dispetto, come
quando si sedeva davanti a me e mi imponeva di stare assolutamente immobile
finché non resistevo e battevo le ciglia; era quello che aspettava per
prendermi a schiaffi o darmi forti pizzichi finché non mi vedeva piangere di
dolore e, a quel punto, mi imponeva il silenzio minacciando rappresaglie ancor
peggiori. Sadicamente, faceva squagliare nel camino ogni cosa con la quale
giocavo, mentre i regali “importanti” che ricevevo, a esempio una bussola, me
li rubava e li teneva per se. Mamma non assisteva mai a queste manifestazioni
di “affetto” fraterno, di solito era impegnata in cucina, dove passava gran
parte del suo tempo, e il sentirmi piangere non la preoccupava
minimamente.
GRAZIANO DE SADE
Quando il sadismo di Graziano raggiungeva i suoi apici,
arrivava al punto di chiudermi dentro quella maledetta cassapanca, dal cui
interno mi era impossibile aprirne il pesante coperchio, e lui decideva di
riaprirla solo quando ormai ero sconvolto dal timore di non uscirne più e mezzo
asfissiato dalla mancanza d’aria. Per rendere questo suo gioco ancora più
divertente, naturalmente dal suo punto di vista, metteva dentro la cassa anche
un teschio che portò a casa durante una sua visita assieme a babbo in qualche
anfratto. Era un vero teschio umano e spesso, quando calavano le tenebre, gli
disponeva due candeline accese dentro le orbite e lo posava sopra la
cassettiera, davanti ai nostri letti. Dopo un breve periodo di “apprendistato”
con questo suo lugubre feticcio, non ne provai più alcun timore e Graziano non
ne ebbe più soddisfazione. Naturalmente non si perdeva d’animo e inventava
cento altre cose per spaventarmi o provocarmi dolore. Più di una volta mise
pezzi di carburo acceso sotto il mio letto mentre dormivo, col rischio che non
mi risvegliassi più. Quel carburo serviva ad alimentare le vecchie lampade che
babbo e i suoi partner grottaroli usavano per farsi luce negli anfratti,
assieme alle torce alimentate da numerose batterie. Erano accessori che non
potavano mancare, babbo spendeva grosse
cifre per le sue avventure fuori casa; pazienza se la tavola in cucina rimaneva
vuota o quasi, le priorità erano altre. Sotto la prima rampata di scale che
scendeva dal primo piano della casa verso il portone, vi era una nicchia nel
muro con un vecchio contatore della luce e relativo interruttore; una sera
Graziano provocò volutamente un corto circuito che fece scattare la levetta, e
mi ordinò di scendere a riattivarla; feci le scale al buio e, sempre a tentoni,
sollevai con forza quella per me dura levetta per riattivare il contatore. Un
dolore acuto al dito e le sue risate sadiche mi fecero tardivamente capire che
quel buio non era stato per niente accidentale; con nel dito alcuni tagli
sanguinanti, vidi che nella levetta aveva incollato delle schegge di vetro
sottile, da lui in seguito rimosse per “game over”. Quando nostro padre tornava a casa la sera,
finito l’effetto euforico del vino bevuto assieme ai suoi accomodanti amici, lo
assaliva uno stato d’animo piuttosto critico; bastava una parola fuori luogo,
un lamento, un nulla insomma, per scatenargli il nervoso e fare di me il capro
espiatorio perfetto per sfogarsi, qualunque fosse l’argomento scatenante.
Vigliaccamente, se ne guardava bene dal confrontarsi con Graziano e tantomeno
col figliounico, sapeva bene che questi avrebbero reagito con forza e
determinazione. Insomma, tra urla,
punizioni e malumori, finivo piuttosto spesso col saltare la cena ma
d’altronde anche il pranzo. Devo dire
che, anche nei momenti “migliori”, non era per niente piacevole stare a tavola
con loro, essere continuamente ripresi per aver appoggiato un gomito al tavolo,
stare troppo chino, dimenticarsi di ringraziare se chiedevi il sale, fare un
minimo rumore masticando erano solo alcuni dei motivi di contrarietà. Certi
ricordi non ti lasciano mai, sono conservati in un album che nessun altro può
aprire e, dato che si parla della tavola, ecco che trovo un’altra foto molto
definita: eravamo a pranzo e tenevo in mano un coltello, intento a tagliare un
pezzo di pagnotta che, restia, non cedeva ai miei tentativi. I coltelli di
allora, perlomeno quelli che avevamo noi in cucina, avevano una forma tale che
difficilmente se ne distingueva il taglio dal dorso, avevano identico profilo,
manico compreso. Babbo, seduto di fronte a me, mi riprese con la consueta
affabilità che mi riservava sempre: “solo un idiota può tentare di tagliare
qualcosa col coltello al rovescio!”. Mentre lo diceva, fenomenale combinazione,
tentava di tagliare qualcosa con il coltello tenuto rovesciato! Mamma gli diede
un colpetto col gomito per fargli notare l’errore e lui, stizzito, sbatté il
coltello sul piatto e se ne andò furioso, stranamente senza picchiarmi,
giustificando la sua svista con la scusa che ero stato io a distrarlo.
FORMAGGIO E NEMESI
Chiedere un pezzo di formaggio, quando c’era, poteva essere
motivo di contrasti tra me e lui e tra lui e mamma e, insomma, tra tutti e me.
Quando seppi che babbo, da ragazzo, giocava facendo rotolare intere forme di
formaggio, ci rimasi doppiamente male al ricordo di quando mi sentivo costretto
a non chiederne proprio. La quasi totale assenza di calcio nel mio sangue si rivelerà
più avanti. Ancora oggi mi chiedo:
perché fare figli se non hai la certezza di poterli e saperli campare, perché
quell’uomo non si è fermato al primo ed eterno figlio unico, forse perché
quando si cede troppo spesso alla tentazione del vino si perde totalmente il
controllo di se e della propria ragione? Questa è l’ipotesi che trovo più
plausibile. Ho sovente pensato che, se mi avessero abbandonato da qualche
parte, dentro un cestino per strada o da qualsiasi altra parte, magari non
avrei avuto i tanti problemi di salute che mi hanno causato, ma mi starei
chiedendo “chissà chi erano i miei genitori?”, con tutte le relative
conseguenze che, nell’animo, una tale domanda impone. Però
so anche che la vita, durante ogni giorno dell’esistenza, non è altro che
il curioso susseguirsi di incontrollabili coincidenze, e se solo un piccolo
tassello non fosse stato nel punto e nell’attimo in cui si trovava, si trova e
si troverà, tutto sarebbe diverso al punto che, molto probabilmente, ora non
sarei qui a scrivere e nemmeno essere in
vita, così come potrei, piuttosto,
essere un ricco turista in giro per il mondo. E invece, sono qui e - forse qualcuno lo
troverà strano- sto bene e ho imparato un sacco di cose, sia da fare che da non
fare, specialmente prendendo esempio dai miei familiari riguardo le cose da non
fare. Ho smontato e riparato molte radio e tante altre cose, ho smontato anche
qualche mito fasullo, riesco a vedere l’interno dei gusci che ricoprono e
celano le persone, riesco a non credere ai miti e ai luoghi comuni, scavo
ovunque non alla ricerca di remunerativi reperti archeologici, ma alla scoperta
di verità che non riempiono le tasche ma arricchiscono la conoscenza. Forse i
miei pianti notturni di bambino hanno risvegliato la dea Nemesi ed ella volle
regalarmi un lumicino di curiosità verso la Giustizia e la Verità, un lumicino
che durante la vita ha rischiato di spegnersi spesso per arrendevolezza, ma poi
si è finalmente riacceso con forza fino a diventare il falò che è ora. Fortunatamente-
e finalmente- Graziano si sposò e andò a vivere in un’altra casa, e questo mi
permise di riacquistare un po’ di serenità e terminare l’ultimo anno delle
elementari. La scuola distava solo due o trecento metri da casa e ci andavo
sempre da solo qualunque fossero le condizioni meteo - anzi se c’era la neve
andavo ancor più volentieri- con in mano una borsa che conteneva giusto il
libro di testo, un quadernetto, penna e matita.
Andavo contento anche se il
maestro aveva l’aspetto e il portamento di un gerarca nazista ma, in realtà,
era persino peggio. Bé insomma, diciamo che era molto severo e spesso, con una
piccola dose di sadismo, entrava in classe mentre tirava via da un flessibile
ramo, strappato dagli alberi davanti alla scuola, le ultime foglioline; noi
capivamo benissimo che uso intendesse farne e, se non obbedivamo come
soldatini, ci menava coi rametti o, nei casi più ostinati, con una robusta
stecca di legno. Fantasioso maestro, a volte ci costringeva a stare in piedi
nel limitato perimetro di una piastrella, e se una volta stanchi ci spostavamo,
giù con le botte. I ceci duri sui quali ci faceva stare con le ginocchia
variegavano le punizioni corporali, naturalmente sempre ben viste dai genitori,
coi quali noi alunni evitavamo di parlarne per non essere ulteriormente
umiliati anche a casa. Quell’insegnante ci ha tirati su e preparati alla vita
con la giusta severità, insegnandoci di tutto, educazione compresa. Non ebbi
mai particolari problemi alle elementari, imparare era persino divertente e il
maestro non risparmiava nemmeno gli elogi, se meritati.
REGALI
IMMATERIALI
L’unico ricordo spiacevole riguarda la mattina che, andando
a scuola, venni aggredito da un ragazzo più grande di me, vicino di casa, che
aveva qualche conto in sospeso con Graziano e, visto che io ero una più facile
vittima, scaricò la sua rabbia prendendomi a calci senza pietà. Tornai a casa
indolenzito e zoppicante ma, come al solito, non ne feci parola con nessuno,
sapendo che avrei potuto peggiorare il clima di depressione che già abbondava
tra le pareti domestiche. Ho rivisto solo recentemente quell’individuo che mi
menò senza che io avessi alcuna colpa, ed è curioso come, a distanza di così
tanto tempo, i ruoli si possano invertire; piccoletto e mal messo com’era, lo
avrei potuto scaricare dentro un bidone
della mondezza, ma dato che il cosiddetto Karma aveva già fatto il suo dovere,
ovviamente lasciai perdere. Fa parte di quella schiera di persone alle quali ho
fatto grandi regali dei quali sono del tutto inconsapevoli, a lui l’omaggio di
non rendergli pan per focaccia dopo tanto tempo, o di farglielo rendere da
Graziano a tempo debito, a tanti altri in altro vario modo. Penso di aver ormai
esaurito i pacchetti e i fiocchetti per fare ulteriori regali; il tempo dei doni senza averne nemmeno un
briciolo di gratitudine è probabilmente finito. Sorridevo sempre nonostante
tutto, apparendo così un “normale” bambino sereno, ma in seguito, analizzando
il mio stato mentale di allora, capii che era una reazione logica e naturale,
conseguente allo spirito di sopravvivenza: ogni seppur piccolo momento di “normalità” mi faceva star bene ed ero pronto
a dimenticare i torti subiti poco prima, e nessuno avrebbe mai detto che quel
bimbo sorridente patisse malanni e tormenti.
Una delle rare apparizioni in casa di Angelo figliounico fu un
pomeriggio, mezz’ora dopo che mamma mi raccomandò di non scendere giù al
pianterreno; il prediletto di papà aveva
organizzato una sorta di sfilata di ragazze alla fine della quale -lo so è
incredibile, almeno al di fuori di certi ambienti sociali mondani ben diversi
dal nostro- avrebbe scelto la sua “femmina” preferita. Sentii il vocio delle
ragazze che passavano nell’andito sottostante per raggiungere la cameretta in
fondo, la musica diffusa da un giradischi, il suono dei bicchieri coi quali si
brindava, risate e balletti che durarono tutta la sera. Infine, tutti andarono
via e io, del tutto indifferente alla cosa, non feci neppure domande alle quali
non avrebbero, probabilmente, avuto seguito risposte. Rimarrà per sempre, nei
miei ricordi, come una arcana carnevalata fuori luogo.
VINO FUCILATE E CASU MARZU
Finite le elementari, mi iscrissero alle scuole medie e mamma, nel frattempo che si avvicinavano i
suoi cinquanta anni di età, partorì -in
casa come da tradizione- altri due maschietti, quasi uno appresso all’altro,
che posero fine al suo desiderio di avere almeno una figlia femmina. Cantava loro le ninne nanne più varie in
dialetto e in italiano, spesso la notte era sveglia e si sentivano le ruote di
quella grande culla di legno che cigolavano avanti e indietro nel pavimento di
travi della sua stanza da letto. Durante il giorno mi chiedeva spesso di
dondolarli e io mi ci dedicavo con piacere; vedevo con tenerezza quei piccoli
fratellini e speravo che il destino riservasse loro una vita serena nonostante
tutto. Ma qualche momento di atmosfera non proprio salubre toccò, anche a loro, di respirarla comunque. Una
tarda sera tornò, Bruno, reggendosi a mala pena sulle sue gambe, lo sentii
dalla mia stanza mentre vomitava e si lamentava dei dolori. Mamma era già
avvezza a vederlo sbronzo, ma quella notte si preoccupò più del solito perché
quella chiazza di vomito, rossastra dal
vino e accompagnata ai violenti dolori addominali era più preoccupante del solito, quindi chiamò l’ambulanza e lo ricoverarono in stato
di forte ubriachezza e intossicato da una esagerata abbuffata di “casu marzu”,
il noto formaggio sardo coi vermi.
Rimesso a nuovo o quasi , dalle cure e qualche giorno di convalescenza,
riprese le sue solite innumerevoli attività. Passò
non molto tempo e una sera, rincasando da una battuta di caccia ai volatili con
un suo amico di avventura e di massoneria,
questo lo aiutò a salire le scale di casa mentre lui, curvo e dolente,
con il volto contratto dal dolore, faceva un lento passettino dopo l’altro.
L’amico lo adagiò nel letto con l’aiuto
di mamma e raccontò di averlo colpito con una fucilata caricata a pallini;
Bruno, per non metterlo nei guai, rifiutò di farsi ricoverare. Mamma gli tolse
il maglione, i pantaloni e la camicia intrisi di sangue e costellati da
centinaia di piccoli fori, lo pulì dal sangue e ne rivelò lo stato pietoso;
aveva centinaia di pallini specialmente nella schiena, nel sedere, nelle
braccia, qualcuno nel collo e persino nel volto. I pallini meno profondi se li
fece estrarre da Maddalena armata di pinzette e abbondante alcol e cotone, lei
con enorme abnegazione si dedicò a quel lavoro per ore e ore, notte e giorno,
fino a liberarlo dapprima dei pallini più superficiali e, in seguito, di quelli
un po’ più profondi, che si intravvedevano appena al di sotto della cute. I
pallini che penetrarono più in fondo rimasero lì nelle sue carni, come subdoli
distributori di piombo nel suo sangue.
RISOTTO CON FUNGHI E...
Neanche questa
disavventura calmò la smania di quell’uomo di riempirsi le giornate di amici e bevute, di grotte e di
caccia, di pesca e di tutto ciò che gli andava di fare. Un’estate, e se ne
vantò con noi in famiglia per lungo tempo, andò verso il mare a Cala Gonone
assieme ad altri grottaroli per dare il benvenuto a una compagnia di turisti
olandesi, presso un camping nel quale si attendarono. Erano alcune coppie di
giovani e Bruno, con quella cordialità tipica dei sardi, si propose di
preparare loro un risotto ai funghi mostrando un sacchetto contenente i funghi
secchi che, diceva, teneva da parte da tempo
per gli eventi speciali. Con allegria e sempre accompagnati da bicchieri
di vino rosso che erano prontamente riempiti nel rispetto del detto “vuota il
bicchier che è pieno e riempi il bicchier che è vuoto”, tra risate e battute
spinte che gli ospiti forestieri non capivano ma delle quali ridevano divertiti
comunque, il risotto ai funghi fu pronto, e gli olandesi ci si gettarono
affamati. Mangiarono e bevettero di gusto del tutto ignari che Bruno, nelle
loro porzioni, aveva messo assieme ai neri pezzetti di funghetti secchi anche
diverse blatte, essiccate al sole il giorno prima e fatte a pezzetti. La serata
proseguì insegnando loro alcune frasi in sardo, dove si usavano termini sconci
al posto di quelli reali; sentir pronunciare, specialmente da quelle giovani
donne, “cazzu” anziché “grazie”, “in culu” invece di “buongiorno”, faceva scompisciare l’allegra compagnia e,
anche in seguito, al ricordo, ne ridevano di gusto. In altre occasioni furono cucinati gatti e
presentati come conigli, scherzo molto diffuso a quei tempi. Quello delle blatte però, rimase a lungo un
loro “pezzo forte”. Le serate in casa condite invece col veleno continuavano,
ed ebbero un’ulteriore evento triste quando babbo volò dalla scaletta da
speleologo, facendo un volo di 30 e più metri
in una voragine, spaccandosi il cranio. I soccorsi riuscirono a
recuperarlo e farlo ricoverare in ospedale, giusto in tempo per salvarlo. Fu
riportato a casa dopo parecchi giorni con il volto e la testa fasciati, e così
rimase, nel letto, per qualche tempo, servito in tutto e per tutto da
Maddalena. Dopo questo evento ci sembrò
cambiato, dava l’impressione di essere meno propenso all’avventura ma non
abbandonò comunque del tutto le sue amate grotte e nemmeno, nonostante i
consigli medici, i bicchieri di vino. Dopo le successive, ennesime e potenti
sbornie, fu colto da un infarto, e
questo lo portò, finalmente, a decimare le tazze di Cannonau. Raggiunti i 50
anni e poco più andò in pensione, svendette dei terreni in città che aveva ereditato
da suo padre e che gli rendevano molto grazie agli affitti di alcuni capannoni,
e acquistò un appartamento in un dispendioso condominio alla periferia della
città, nel quale si pagavano notevoli spese condominiali. Nel frattempo chi aveva comprato da lui quei
terreni si fece ricco, ma lui era del tutto indifferente alla cosa. Per una
cifra esagerata e ben al di sopra dell’effettivo valore, comprò il terreno di Marreri che distava
circa 13 chilometri dalla città, disse che un tempo apparteneva anche quello a
suo padre e lo volle riavere pur essendo così lontano, scosceso e considerato
non idoneo nemmeno per il pascolo. Abbandonata la vecchia casa col cortile, che
prontamente figliounico occupò fino a farla diventare sua, ci ritrovammo in un
appartamento dove, finalmente, c’era un vero bagno completo di scaldabagno, i
termosifoni e, insomma, tutto ciò che ne faceva un’abitazione definibile
“civile”. Bruno comprò anche un’altra macchina, questa volta familiare, in
sostituzione della vecchia Simca rossa che Graziano demolì facendola capottare,
naturalmente senza alcuna conseguenza nei suoi confronti. La mattina babbo mi
chiedeva di scendere con lui in campagna e io accettavo ben volentieri,
finalmente avevo un padre col quale parlare dei più svariati argomenti e, come
di mia abitudine, dimenticai le angherie subite, le torture, le botte e le
notti insonni. Avevamo grandi progetti finalmente e questo mi bastava per
andare avanti con ottimismo.
CASA NUOVA VITA NUOVA? Scoprii troppo tardi di essere
stato, ancora una vota, troppo ingenuo e
remissivo, e quando si fa tardi
non si recupera più ciò che si è perduto. Tagliammo cespugli ed erbacce laddove doveva passare la stradina,
successivamente tracciata dalla ruspa per la quale babbo sborsò il giusto
compenso, comprò cemento e blocchetti per fare la piccola casetta e dei
tavoloni di legno per iniziare a edificare quella piccola baracca sulla quercia
sulla quale salire attraverso una scaletta speleologica, fece spianare il luogo
dove sarebbe nata la casetta, e in quelle giornate, per noi belle anche in
autunno e in inverno, mangiavamo pane e salsiccia e tornavamo a casa stanchi ma
contenti. Bruno e Maddalena, la sera, stavano davanti alla tv a ridere,
parlare, o leggere e, persino, giocare a carte o studiare i libri di
erboristeria che mamma aveva comprato, incuriosita dagli articoli e programmi
televisivi che parlavano di Mességué, al tempo famoso pioniere dell’erboristeria.
Nel mentre io, chiuso nella mia cameretta,
studiavo i primi accordi di musica classica con una vecchia chitarra che
mi procurai in cambio di qualche riparazione elettronica, studiavo da vecchi testi che mi prestarono e
mi dedicai a quella che sentivo come la mia musica ancestrale “naturale”, la
classica e il flamenco. La notte, quando i segnali sulle onde medie arrivavano
forti, mi sintonizzavo sulle stazioni spagnole e, sentendo certe melodie, me ne
sentivo attratto, le riconoscevo come mie al contrario delle per me poco
gradevoli ballate tipiche della nostra isola. Avevamo anche un bel gattone
tigrato che regalarono a mamma, era molto docile e amava stare in casa a farsi
coccolare e correre da una stanza all’altra. A pensarci ora, il gatto Moustache
era l’ultimo tassello che perfezionava l’immagine di una famiglia serena. Finita la casetta in campagna, salivamo tutti
–io mamma e i due fratellini- nella familiare di babbo per passare la giornata,
specialmente la domenica, in quel piccolo angolo lontano dai rumori della
città, dove poco alla volta piantammo alberi da frutto e fiori di vario genere.
Spesso ci raggiungeva Graziano con la sua famiglia e formavamo una allegra
tavolata a pranzo, sempre ben attenti a non rivangare mai i passati malumori, dimentichi
di ciò che era il passato e disposti a vivere quell’oggi come se potesse essere
anche il domani. Non era poi così raro sentir dire a babbo “non è detto che,
qui sotto di noi, non ci sia il petrolio!”. Lo diceva con soddisfazione,
probabilmente ci credeva davvero, ma una frase del genere, a parte il fatto che
è del tutto illogica, ci lasciava un po’ così, senza parole. La dea Sorte,
insensibile ai nostri attimi di ottimismo e infaticabile tessitrice, tramava
nell’ombra del suo segreto rifugio qualcosa dai colori inizialmente poco
definiti, poi col tempo sempre più chiari; figliounico si ripresentò con
prepotenza nelle nostre esistenze e tentò in tutti i modi , questa volta per
fortuna inutilmente, di farci lasciare la nuova casa in città e farla sua. Una
volta tanto le sue mire non ebbero successo, ma i malumori ripresero forma e,
nuovamente, avremmo passato anni di amarezze, litigi e carestie. Fece scaricare
camion di mattoni e cemento poco più in la della nostra casetta in campagna e,
in qualche modo, fece sentire in babbo l’obbligo di aiutarlo. Quando con
Graziano e mamma scendemmo da lui, a babbo chiedemmo il perché di quel
cantiere, e ci spiegò che Angelo voleva costruire una stalla. Già avremmo
dovuto subodorare il fine di cotanta occupazione di suolo che, fin dall’inizio,
Bruno definiva la “nostra” campagna, invece ci limitammo, passivamente, a osservare gli sviluppi della vicenda. Babbo si sentì sempre più costretto a
controllare quei lavori e a prenderne parte, si assentò di nuovo spesso da casa
e, la sera, tornava nero dal malumore e, qualche volta, nuovamente alticcio. I
litigi tra lui e mamma ripresero, le sue urla vennero così conosciute anche ai
nuovi vicini di casa. Non aveva il coraggio di pronunciare un “no” a quel
figlio che riusciva, chissà con quali e quanti mezzi, a piegarlo totalmente al
suo volere e spingerlo ad allontanarsi dalla moglie e dal resto della famiglia.
In quel contesto di sottomissione, figliounico e chi lo appoggiava riuscirono,
con costanza e metodica scaltrezza, a gettare fango su mamma e renderla del
tutto ininfluente sulle volontà di Bruno. Si diffusero voci di una separazione
tra i due, indispensabile per arrivare ai loro fini. Più gente crede alle
falsità e più si ha possibilità di successo, come ben sanno i politici, i
venditori di sogni, i maghi e tutti i truffatori in genere, e quelle maldicenze
diventarono realtà nelle convinzioni di molti. Finita la scuderia, ecco che si
allargava ancora costruendo poco più in la anche una grande cucina rustica;
altre colate di cemento e altri mattoni per mettere le mani laddove la parola
“nostro” suonava assai stonata alle orecchie di colui che si è sempre ritenuto
un figlio unico. Chiedemmo nuovamente spiegazioni a babbo e lui, benché
esprimesse contrarietà a quei progetti di occupazione della “nostra” campagna,
ammetteva di sentirsi impossibilitato a negargli la sua piena disponibilità, ma
evitava di approfondire il perché.
UN SALTO ALL’INDIETRO
In casa ritornò la
miseria e sempre più spesso, al posto della pasta col mitico sugo di mamma,
riapparve la minestrina e non certo col brodo di carne ma, al massimo, con la
più economica merca e le patate. L’unico mezzo di contatto di mamma con le
sorelle e la madre, che vivevano tutte lontane, era il telefono, ma fu presto
costretta a farlo staccare per l’impossibilità di pagare le bollette. Io
dovetti ritirarmi da scuola perché non avevo i necessari libri, ritenuti da
Bruno troppo costosi, né tutto il resto che si richiedeva a scuola per poter
studiare. Non avevo neppure vestiti decenti e, per quanto cercassimo di
risparmiare, la quota condominiale portava via una gran fetta di quel poco che
babbo lasciava a mamma. Non potevo pretendere nulla e niente chiesi, ritornai
in uno stato psicofisico penoso, presi a
trattare male persino Moustache e, ancora adesso, ne provo i rimorsi. Mamma non poté più chiedere aiuto
economico a sua madre perché, guarda che combinazione, ci litigò grazie alle
ennesime astute mosse di figliounico, stavolta finalizzate al suo poter andare
periodicamente a Ozieri per chiedere soldi alla nonna a nome di mamma,
naturalmente per poi tenerseli ben stretti. Lo scoprimmo solo molto tempo dopo,
quando Maddalena andò a Ozieri e parlò con la madre ormai moribonda. Non voglio
estrarre dalla mia anima tutti i particolari di quel nuovo lungo periodo di
miseria e rabbia, di rassegnazione e di eccessivo “lasciar perdere”. Avremmo dovuto reagire prontamente e duramente
ma mille cose, di volta in volta, ce lo impedirono. Quando a diciotto anni
arrivai alla visita per la leva militare - che speravo potesse finalmente
allontanarmi da quella situazione familiare - i medici rimasero allibiti dalla
mia magrezza e mi rispedirono a casa. Finii in ospedale dove, ancora una volta
con stupore, i medici mi trovarono non solo rachitico ma anche con una
osteoporosi che, parole loro, sarebbe stata esagerata anche per un ottantenne.
Provo ancora profondo dolore nel vivido ricordo dei volti di babbo, mamma e i
miei due cari fratellini che si avvicinarono al letto d’ospedale dove avrei
dovuto morire. Un quadro indescrivibile e irriproducibile anche dal pittore più abile, una scena troppo abrasiva
e corrosiva da descrivere persino per il
miglior scrittore, figurarsi per me. Li osservai uno per uno con calma; persino
babbo trattenne le lacrime a stento,
mamma era l’immagine della tristezza fatta a persona e mi fu chiaro, dal suo
volto mezzo celato dai grandi occhiali, che aveva già pianto tutte le lacrime
del profondo oceano di amarezza nel quale annaspava. Quei due piccoli
fratellini si tenevano per mano e mi salutavano, tristissimi, come si saluta
qualcuno che sale su un treno che non tornerà più. Non riuscii a dire niente,
ero come lo spettatore di un film col quale non potevo interagire, avevo la
pressione a zero ed ero gonfio come un pupazzo.
Mamma mi prese la mano e strinse la medaglietta che mi legarono al polso
dopo l’estrema unzione, mi disse “addio figlio mio” e tutti insieme andarono verso l’uscita,
facendomi ciao con la mano e mandandomi un bacio prima di richiudere la porta.
Provai un profondo dolore nel vederli così, passai ore a dispiacermi di averli
lasciati con un dolore così e che l’indomani, alla mia dipartita, avrebbero
forse provato ancor più grande. Ma in fondo no,
non ero per niente convinto di
dover morire. Qualcosa di profondo in me diceva che non era giunta l’ora, non
ancora, di restituire le targhe. Quando entrò Angelo ad augurarmi di finire
all’inferno, lo vidi come quello che era, un essere indegno persino di uno
sputo che, comunque, non sarei stato in grado di lanciargli. Ancora una volta,
dal profondo del mio animo affiorò la vocina che mi tranquillizzava col suo
dolce bisbiglio: “Non morirai”. Rimediai alla tristezza di mamma e dei
fratellini ripresentandomi vivo a loro e fui tanto felice di vederli raggianti.
Tornai a casa ancora molto gonfio e debole, ma abbastanza vivo da aver dato,
almeno così pensavo, una bella lezione a quel figliounico tanto sicuro che
sarei andato all’ inferno. Peccato non potergli dire - ormai non può più sentirmi - che l’inferno
non è chissà dove in un ipotetico aldilà, ma ben aldiquà, nel mondo dei
vivi, ovunque ci siano persone false e
traditrici, avide e perfide.
EDIFICARE UN MITO
Mi ripresi lentamente, ricominciai a studiare musica e fare
qualche dipinto, mi innamorai di una ragazza conosciuta via radio con quel
ricetrasmettitore sui 27 MHz che chiamavamo “baracchino”, babbo era
momentaneamente presente in famiglia ma si lasciava condizionare ancora dal suo
ego e da chi voleva, per proprio tornaconto, contribuire a farne un
“personaggio”. Ci vuole poco a mitizzare una persona, inizialmente basta un
amico giornalista che ti fa un primo articoletto sul quotidiano locale, e da lì
si sale sul primo scalino della popolarità, da lui scalato poco a poco fino ad
arrivare a quel beffardo articolo su “Selezione dal Reader ‘s Digest” di agosto
1988. La presunzione di babbo era il miglior fulcro sul quale poggiare la leva,
e chi la manovrava sapeva bene come condurre il gioco. La miglior lezione che
si può trarre da un articolo del genere -e al mondo ci saranno milioni di
articoli come quello- dovrebbe essere imparare a non crederci, almeno non del
tutto, a porsi delle domande e avere una sana quantità di dubbi. Perché quei
giornalisti che tanto hanno ruotato attorno alla figura di babbo, fino a farlo
diventare un gigantesco pallone gonfiato, non si sono mai nemmeno una volta
presi il disturbo di andare a casa di mamma per intervistare anche lei? Lo so,
ottenemmo la risposta anche a questo dubbio; qualcuno di loro avrebbe persino e
ovviamente voluto, ma chi manovrava le leve mise in conto anche questo
eventuale intoppo e, infangando la figura di mamma, riusciva a evitarlo. Mamma
venne così isolata che non fu più visitata da tante delle sue nipoti e dalle
cognate. Attore di quel se stesso impegnativo che si era creato -e ben
volentieri lasciato creare-, babbo
cominciava a sentirne la stanchezza
e, lasciata la sua maschera a Marreri,
la notte tornava a casa a farsi coccolare da mamma, lamentandosi del viavai di
gente che passava le giornate nel suo “eremo” a lodarlo, a impegnarlo in pranzi
e cene che spesso, data l’ora, si sentiva obbligato a preparare per gli ospiti.
Tra i suoi obblighi teatrali c’era quello di essere sempre galante con le
donne; le prendeva a braccetto per condurle giù verso il fiumiciattolo presso
un alberello di cachi, e con fare che esse parevano gradire prendeva un cachi per offrirglielo, mentre, con un lumino di
sottile libidine nello sguardo, diceva loro “guarda che bei cachi, perfetti,
tondi e sodi come le poppe di Venere”. Era una delle tante battute -ormai scontate-che ripeteva ogni qual volta gli si
offriva l’occasione, e se la donzella gradiva le battutine, strada facendo
bruno strappava un rosso petalo di geranio e glielo passava sulle labbra: “questo è un ottimo rossetto naturale”
diceva. “I miei fiori impallidiscono davanti alla tua bellezza era un’altra
battuta preimpostata e abbondantemente collaudata, ispiratagli da un
fumetto, che contribuiva alla sua
affabilità. Ogni tanto però, andate via
le meravigliate bellezze femminili, Bruno
alzava gli occhi al cielo, scuoteva la testa e sghignazzava “ohohooh, che poco basta per far contenta una donnina,
anche se orrenda!”. Tornava a essere la
versione originale di se stesso insomma, ma solo quando era con noi familiari.
Gettava la maschera ma non troppo lontano,
la teneva sempre a portata di occasione uso per accogliere le successive
visitatrici del suo “eremo”. Nel frattempo
mi sposai con Giovanna; mamma e babbo vennero al matrimonio cercando di
nascondere i non pochi contrasti tra loro, babbo non contribuì minimamente alle
spese del ristorante ma questo lo aveva
già anticipato con un laconico “ah, se ti sposi sappi che io non ho niente, e
non metto nemmeno una lira “. Una volta uscito dall’ambiente opprimente della loro
casa, iniziai una lenta ma decisa ripresa dai malanni fisici e riuscii persino a
far calare, e di molto, la osteoporosi, recuperando anche peso e serenità.
CHI DISTRUGGE E CHI COSTRUISCE Lasciai
così mamma e babbo coi miei due fratellini in casa e il coccoloso gattone Moustache,
ma andavamo spesso a trovarli e lei
veniva spesso a trovarci nella nostra casa, anche per aiutarci col bimbo nato
in seguito. Attraversava camminando gran parte della città e saliva fino al
quarto piano a piedi, portando sempre qualcosa da regalare a noi e al suo nuovo
nipotino. Certi ricordi li rivivi e li senti come se qualcosa ti stringesse il
cuore, quel qualcosa che si chiama “legame”, che mi fa lacrimare nel ripensare
a quella donna che tanto si sacrificava per tutti noi senza mai chiedere nulla,
che non ho mai ringraziato abbastanza, che a furia di “metterci una pietra
sopra” poteva costruire un intero villaggio nuragico, contrariamente a chi, invece,
li demoliva. Lei passava oltre, accomodava le cose, era fin troppo arrendevole
ma era così, era il suo carattere, non ha mai reagito con la determinazione che
sarebbe stata, invece, doverosa. D’altronde, non posso dire di aver avuto
reazioni più decise delle sue e, come un cretino, ho voluto bene persino ai
miei “carnefici” per lungo – direi persino troppo- tempo. Credo di non dovermi
vergognare per questo; lascio che la
vergogna, sempre che rientri tra le loro virtù (ma ne dubito fortemente) la
provino coloro che hanno approfittato del mio affetto e della mia pacatezza,
nonché della bontà di Maddalena e, al contempo, della presunzione di
Bruno. Tra le numerose pompate di aria
che contribuivano a costruire vacua fama attorno alla figura di quell’ uomo,
c'era anche quella che lo vantava come dotato violinista (!), proprio lui che
odiava la musica e non perdeva occasione per far spegnere la radio a Maddalena
che, invece, amava ascoltare i cantautori, i complessi e le musiche classiche. In realtà, il violino
lo imbracciò sì qualche volta, ma giusto a scuola quando era ragazzo e
unicamente perché faceva parte del piano
scolastico e quindi vi era obbligato; ma tanto bastò per aggiungere al suo ego
anche la fama di musicista. I decenni trascorsi tra gli anni 60 e i 90 sono
stati un calderone di eventi che ruotavano, come pianeti attorno al sole,
intorno a una figura sempre più egocentrica e piena di sé. Per quanto un pallone possa essere robusto
però, si sa, c'è un limite di aria comprimibile al suo interno oltre il quale
il pallone scoppia, e la boria infine raggiungerà livelli così grandi da farlo
sgonfiare del tutto nel volgere di poco
tempo, quei mesi finali della sua esistenza quando, lui stesso, si renderà
conto di essere stato usato e, una volta spremuto, ritornerà a casa con la sola
buccia consunta.
LUCERTOLE E PRIMEDONNE
Un giorno d’estate che andammo con babbo e mamma nel Gennargentu, dove i parenti di mia moglie organizzarono un pranzo all’aperto, feci salire sulla mia mano una lucertolina tipica di quei monti, caratterizzata dal bel colore smeraldino, che adocchiai mentre si esponeva al sole su un muretto di pietre. Conoscevo il trucco fin da bambino; basta avvicinare il palmo della mano molto lentamente davanti al suo musetto, e lei ci sale sopra con fiducia, per avere calore. Come babbo mi vide mentre la facevo andare sulla mano di mia moglie, inizialmente stupito, si fece passare la lucertolina nel suo braccio e prese la palla al balzo per attirare l’attenzione dei numerosi presenti dicendo “guardate questa lucertolina come si diverte a scaldarsi sul mio braccio”, ovviamente omettendo di dire che aveva appena imparato quel piccolo trucco da me e confermando, ancora una volta, che il ruolo di “primadonna” gli si addiceva in pieno. Lo faceva a ogni occasione che gli si presentava, ti rubava l’idea e la presentava come frutto del suo sapere, proprio così, senza alcuna vergogna. Chi non proverebbe una certa stizza nei confronti delle persone che agiscono in questo modo? Adorava attorniarsi di amici influenti o comunque utili al suo ego, in modo speciale i giornalisti. Li incantava col suo carismatico modo di parlare, accogliendoli in quella casetta che lui stesso definiva “il mio eremo” e nel quale ogni cosa era disposta ad arte per suggestionare i visitatori; bottigliette piene di liquami di vario genere e colore con etichette scritte a penna e un velo di sottile polvere attorno, anch’essa suggestiva. Un alambicco e una serpentina per produrre distillati e acquaviti , libri di erboristeria a suo tempo in gran parte acquistati da Maddalena e riempiti di appunti, mazzi di erbe aromatiche molto comuni in Sardegna e appese a essiccare; tutto contribuiva a magnificare il padrone di casa, anzi di “eremo”. Offriva agli ospiti una tisana o un bicchierino di liquore alle erbe e si aspettava i complimenti di rito. Proprio a un giornalista, che poi ne scrisse l’incontro “magico” in un quotidiano locale, offrì un bicchierino di limoncello fatto da mia moglie Giovanna e del quale gli portammo una bottiglia qualche giorno prima dell’intervista; naturalmente si guardò bene dal rivelarne la vera provenienza e lo presentò come un suo distillato. Nell’articolo quel giornalista scrisse che aveva bevuto un liquore fatto dal “vecchio saggio” e nel quale sentì un “misterioso sapore di limone”! Quando leggemmo siffatta frase io e mia moglie, dopo un iniziale momento di stupore e incredulità, non potemmo fare a meno di farci grandi risate, sia per la frase in sé poiché il sapore di limone non ha nulla di misterioso, sia perché babbo lo presentò come fatto da lui. Lungi da me aver provato astio verso il giornalista, ha fatto solo il suo lavoro e, come tutti gli altri, suggestionato dall’ambiente e dal personaggio, descrisse quel che sentiva. Prendersi e costruirsi di sana pianta meriti non suoi era, per babbo, un’abitudine che tutti noi familiari conoscevamo e, d’altronde, spesso combinava le sue farse teatrali proprio davanti ai nostri occhi, come quando svuotò due barattoli di confettura di marroni in un suo contenitore, vi appose la solita etichetta di carta e la presentò, a chi andava a trovarlo, come preparata dalle sue sapienti mani. Era così entusiasta di se stesso che, in un grande quaderno, incollò tutti gli articoli di giornale che gli erano dedicati e, ogni tanto, lo sfogliava con l’entusiasmo del bimbo che ammira il suo album di figurine e non vede l’ora di appiccicarcene di nuove. Si sentiva eterno e, a casa, diceva spesso rivolto alla moglie “après moi le dèluge!” (dopo di me il diluvio!). Leggere articoli nei quali lui stesso si vittimizzava per aver lavorato troppo, per aver avuto troppe ansie in città e preoccupazioni in famiglia, fino a subire un infarto e sentirsi costretto a farsi un eremo, era piuttosto frustrante per noi, perché nella lista dimenticava volutamente di accennare alle sue avventure e disavventure fuori casa, agli incidenti a caccia e in grotta, alle continue ed esagerate sbornie, a tutto ciò che, realmente, potesse avergli creato le condizioni ideali per subire un infarto.
IL VECCHIO E LA LOLITA
Gli offrirono per un breve periodo l’insegnamento della
materia erboristica presso una scuola in città, e fu così che ebbe occasione di
invaghirsi di una ragazza che avrebbe potuto essere sua nipote ma che, quanto a esperienze sessuali, poteva fargli
da maestrina. A quel punto , mamma ne ebbe abbastanza e smise di
coccolarlo quando, calato il sipario dopo le quotidiane recite in campagna, lui
tornava a casa. Una notte trovò la camera da letto chiusa a chiave e le disse
“Maddalena, pensavo di passare la notte
qui ma, a quante pare, sono un ospite indesiderato , me ne torno laggiù nel mio
eremo allora, scusa il disturbo” e andò
via senza avere risposta, anche perché -come giustamente osservò mamma- le
risposte le aveva già dentro di se. La giovane studentessa divenne, da ospite
occasionale nell’eremo, una presenza fissa giorno e notte. Per qualche mese
Bruno si godette quella “luna di miele” mentre mamma passava le giornate e le
notti nella sua “luna di fiele”, si vergognava persino di uscire a comprare il
pane o le sigarette tanto si sentiva umiliata; ormai quella tresca tra suo
marito e quella allegra tipa era di dominio pubblico o quasi. Nonostante tutto,
mamma si preoccupava per lui e, dopo una decina di giorni di totale assenza di
Bruno, disse a me e Graziano “andate a trovare vostro padre, non vorrei che
stesse male”, ma forse la sua era solo curiosità e voleva sapere come andavano
le cose laggiù, se quella tipa era ancora li ad alimentare ulteriore super ego a
quel vecchietto. Scendemmo e trovammo lei e babbo mentre parlavano e ridevano,
c’era qualcosa di strano nei loro atteggiamenti ma pensammo che fosse solo
l’euforia datagli da quella loro avventura amorosa. Ci sedemmo a bere un
bicchierino di liquore, un distillato dal …misterioso sapore di mirto, e il mio
sguardo cadde su un barattolo di latta messo in una nicchia in alto, sopra la
porta che dava alla camera da letto. Era il classico barattolo dove si conserva
il caffè, ma mi incuriosì per la sua posizione così elevata, quasi fuori della
portata di mano, e l’ innata curiosità di voler vedere il contenuto delle cose.
Approfittai di un momento nel quale babbo e la sua amata giovinetta uscirono
fuori seguiti dal fido Puffi, un
dolcissimo cane volpino siberiano che stava sempre appresso a Bruno a ogni suo
spostamento, per elevarmi sulla punta dei piedi e prendere quel barattolo; fu
una grande scoperta vederlo pieno di un’erba che non rientrava nelle solite
essenze manipolate dal Mago delle Erbe: erano infiorescenze secche di
odorosissima Cannabis, e questo ci diede la spiegazione dell’atteggiamento di
quella romantica coppietta. Lo rimisi a
posto e non ne facemmo parola, ma più avanti scoprimmo che la aveva acquistata
da un suo amico che anche io e Graziano conoscevamo bene, un ragazzo che viveva
in una casa cantoniera dietro la quale aveva una fertile coltivazione di
“erba”. Tornati in città andammo da
mamma per informarla che suo marito e quella ragazza formavano ancora coppia
fissa, evitammo però di parlarle della
nostra scoperta riguardo la cannabis. Infastidita dalla notizia che non avremmo
voluto darle, se la prese con noi perché eravamo scesi a trovarlo, come se fosse del tutto ignara di
avercelo richiesto lei stessa. Discutemmo un po’ e, infine, la lasciammo col suo pianto e le sue
angosce, troppo nervosa per tentare
di tranquillizzarla e ragionarci. Passò
qualche giorno e babbo venne a trovarci a casa mia e di Giovanna, naturalmente
con appresso la sua fiamma, con la quale notammo che aveva un diverso
atteggiamento, meno sdolcinato e a volte sgarbato (in seguito capimmo che Bruno
era vittima di profonda gelosia nei riguardi della sua “pupilla”) e, facendo un
involontario sgarbo a mamma, li trattenemmo qui a pranzo. Alla fine del pasto,
dopo avergli invitato un digestivo dal misterioso sapore (ormai i liquori li
chiamo tutti così...) di genziana, presi la chitarra spagnola artigianale che
mi ero regalato con grandi sacrifici già da qualche anno, e suonai un brano
classico, caratterizzato dal continuo arpeggio: “Recuerdos de la Alhambra”.
L’amichetta di babbo ascoltò con interesse e mostrava di gradire, faceva segni
a babbo e già vedevo che lui si stava sulle spine. Alla fine del brano, si complimentò
con me mentre babbo era ormai grigio dal malumore e, stizzito come un
ragazzetto geloso, cercò di sminuire l’esecuzione del brano e la trattò come
una che non capiva niente di musica. In seguito seppi che si comportò così
anche con Graziano, mentre si trovavano in campagna; lei ascoltava con troppo
interesse quello che Graziano diceva, mentre era intento a nutrire la sua
aquila reale, e Bruno temette che la sua giovane amante cercasse già di
infilarsi in altri letti. Divenne furioso, ridicolmente furioso. Era il
principio della fine del loro rapporto amoroso, una relazione che costò a babbo
molte vecchie amicizie, i tanti amici rimasti delusi dopo essersi costruita
un’immagine ben diversa di quell’uomo. Forse a quella definitiva separazione contribuì anche
qualche sotterfugio del suo amato figliounico, che a un certo punto vide in
quella ragazza una possibile antagonista nella conquista del territorio, o per
meglio dire del terreno, intanto sempre più occupato dalle sue opere murarie
che proseguirono con un canile, un pozzo, e qua e la da campicelli di verdure
che rendevano il “nostro” terreno sempre più ristretto e sempre meno nostro.
Scesi a Marreri assieme a Graziano qualche giorno dopo quel “divorzio” e
trovammo babbo nervoso come un cane idrofobo, non ci salutò nemmeno e rimase
chino sotto il cofano motore della sua vecchia Peugeot ridotta ormai a un
rottame, lo aiutammo a rimetterla in
moto e partì deciso nonostante i tentativi di farlo desistere, ai quali rispose mandandoci al diavolo. Doveva andare
al paese della sua morosa e non ci fu modo di farlo ragionare, ci andò, fece
una penosa sceneggiata per strada, e
rischiò di essere linciato dai familiari.
NARCISO TRA I NARCISI
...E LA VITA
CONTINUA ...
Quando tornò nel suo eremo, si attaccò a una macchina per
scrivere e una risma di fogli per raccontare, a suo dire, di quella ragazza che,
ora, chiamava puttana, e di quanto gli facesse ribrezzo. Lo intitolò “...E la
vita continua.” Era un racconto così osceno che, persino i suoi più affezionati
amici giornalisti, si rifiutarono di pubblicarglielo, e mi rammarico di non
aver conservato quei fogli perché, più di ogni altra cosa, ben delineavano il
profilo di un uomo ormai totalmente fuori di senno. Il mito del vecchio saggio, del mago delle
erbe, del vecchio della montagna, stava sgretolandosi, ma non tutti lo
sapevano, non tutti erano a conoscenza della sua decadenza e c’era ancora -e
probabilmente ci sarà sempre, come la storia insegna- qualcuno che vuole continuare
a crederci. Babbo fu isolato sempre più dagli amici più cari e dalle sue “fan”
abituali e si ritrovò solo, persino senza nemmeno più l’affettuosa compagnia
del volpino Puffi, che il solito figliounico gli fece sparire con la scusa di
portarlo a una battuta di caccia. Raggiunto lo scopo di farne una figura
mitizzata, avendo ottenuto da lui tutto ciò che si poteva e con la proprietà di
metà di quel terreno -anzi proprio tutto, si vedrà poi il perché e il come-, lo
lasciarono abbandonato a se stesso, al niente. Finirono le lodi, finirono anche
i rifornimenti di cibo e gli aiuti di cui poteva aver bisogno, fosse anche solo
per farsi un po’ di legna per accendere il camino. Lo trovammo così, cachettico
e seminudo, in un giorno afoso, secco nella pelle e nel corpo e con lo sguardo
sbalordito, con ai suoi piedi due dei
suoi numerosi gatti, ultimi sopravvissuti alla mancanza di cibo che, ridotti
all’osso, tentavano di miagolare, ma dalle loro gole arse usciva solo un cupo
lamento. Entrammo nella casetta e aprimmo il frigo e la dispensa, vedendo così
che erano desolatamente vuoti. Non riuscendo
a convincerlo a tornare in città con noi, gli lasciammo qualche busta
che già avevamo in auto con della spesa, qualcosa da mangiare e da bere, ma
nemmeno le guardò, non gliene importava
più nulla, la fame gli era andata via, disse. A malincuore lo lasciammo in quel
pietoso stato, per poi rivederlo portare a casa da mamma pochi giorni dopo,
accompagnato da un suo fratello che gli voleva molto bene ma del quale non seguì
i saggi consigli. Una sua sorella che viveva nella penisola e andò a trovarlo
durante quell’estate, trovandolo già sofferente, propose candidamente di far
arrivare dall’Abissinia qualche ragazza che lo aiutasse. Sentir fare una
proposta del genere ci parve alquanto fuori luogo ed esagerato nonché ridicolo,
persino se usciva dalla bocca di una nostalgica. Messo nel suo letto, col respiro ai minimi
termini, Bruno guardò noi e sua moglie e, con flebile voce disse “finalmente a
casa, Maddalè” e mamma, tenendogli la mano, gli rispose “potevi starci anche
prima, cosa te lo impediva?”. A questa
domanda rispose zio con un lungo discorso del quale conservo ancora un nastro
magnetico; quel giorno avevo con me un piccolo registratore a bobina e lo misi
in funzione sul comodino di babbo per provarlo. Zio, tra le altre cose,
supplicò mamma di chiamare subito i carabinieri e fare una denuncia per plagio
e abbandono di incapace da parte del figliounico, e di stare attenti perché lui
già sapeva che il terreno di Marreri era stato, con l’inganno, intestato tutto
a figliounico. Chiedemmo chiarimenti a babbo che, con voce sempre più debole,
disse che non era vero, che gli aveva intestato metà del terreno ma che l’altra
metà era nostra. Era inutile insistere, la risposta era sempre la stessa e non
insistemmo ulteriormente perché, ormai, babbo non riusciva quasi più a
respirare. Lo facemmo portare in ospedale, purtroppo mamma, nel frattempo, non
volle dare retta a zio e non chiamò i carabinieri. La mattina seguente la
accompagnammo in ospedale a trovare suo marito.
E LA VITA FINISCE
Neanche a farlo
apposta, come ci aspettavamo, accanto al lettino di babbo c’era già la sua
nuora preferita a imboccargli un uovo sodo col cucchiaino; mamma si sedette un
po’ distante da quella idilliaca scenetta, in attesa di poter salutare quella
preda ormai spolpata, che per lei era pur sempre un marito che amò per tutta la
vita, nel bene e nel male. Una
dottoressa si avvicinò a Maddalena e le chiese perché non si avvicinava al
lettino e mamma, con sottile sarcasmo, le rispose “aspettiamo che la recita in
corso abbia fine, grazie dottoressa”, lei si girò verso il lettino a guardare e
poi, rivolgendosi nuovamente a mamma le disse “dicono che sia la figlia, non è
così?”, “lasciamo perdere dottoressa, lasciamo perdere...” le rispose mamma.
Finalmente riuscimmo ad avvicinarci e salutare Babbo, trovandolo in uno stato
fisico e mentale da moribondo. Morì così, nel giro di pochi giorni dal
ricovero, e calò il sipario sulle sue
ultime recite terrene. Non ci fu nemmeno il diluvio, dopo di lui. Assieme a Graziano andai dal notaio a richiedere gli atti riguardanti il
terreno, scoprendo così che la firma di babbo era indubbiamente contraffatta;
lo avrebbe capito anche un bambino. Per una volta, le furbizia di figliounico
non era stata sufficiente, ma lo aiutò la fortuna. Ci recammo da un avvocato e
gli facemmo vedere quegli atti, il primo con la firma inconfondibile di babbo e
il secondo ridicolmente contraffatto. Subito resosi conto che aveva a che fare
con reati di rilievo, che avrebbero coinvolto anche le due gentili signorine
che si prestarono, apponendo la loro firma, come testimoni, sgranò gli occhi e
ci disse “questa è roba da galera, è palese che la firma non sia della stessa
persona, non ci sarebbe nemmeno bisogno di una perizia grafica” ma, dando
un’occhiata al calendario e poi all’atto fasullo, allargò le braccia e poi si
mise una mano in fronte e disse “no, non è possibile, ieri, solo ieri,
scadeva il termine di legge per aprire una causa”. Ci spiegò, con calma,
perché esisteva questo limite di tempo: la legge dà per scontato che i
familiari, in casi di compravendita, donazione o altro, si rendano conto entro
un certo periodo che il loro congiunto abbia sottoscritto un atto notarile e
ceduto un terreno, e il termine vale anche se l’atto è irregolare o,
addirittura, totalmente falso come il nostro.
AMEN
Scusa babbo se nessuno di noi era presente al tuo funerale, era giusto e dovuto che ti accompagnasse solo quel figliounico che da te aveva ottenuto tutto, anche se tu, mentalmente non del tutto presente, ne sei stato vittima quanto noi. Chi ha visto e capito le nostre vicende ha non solo giustificato la nostra assenza, ma anche ammesso che non poteva andare diversamente. Gli altri, quelli che hanno creduto a ben altre campane, quelle che suonano per incantare, possono continuare sereni la loro esistenza credendo ciò che vogliono. Non ho descritto questi episodi della nostra esistenza per creare o demolire convinzioni, ma per amore di verità e rendere un minimo di giustizia, seppur tardiva, specialmente a una donna di nome Maddalena, che ha patito le peggiori brutture del maschilismo più abbietto. Avremmo potuto finirla nel sangue, attraverso quei regolamenti di conti di cui si occupano spesso le cronache familiari e, in molti casi, per cose di minor valore e importanza, ma abbiamo preferito ascoltare i consigli di una donna saggia, che nessuno ha mai definito, in un colorito articolo di giornale, “vecchia saggia”. Lo faccio io adesso anche se, lo so mamma, tu mi diresti ancora una volta di lasciar perdere, di lasciare che il tempo, così come ha sotterrato antichi templi, ricopra anche le vicende umane. Abbiamo discusso insieme del fatto che, se solo ci avessero chiesto quella nostra parte di terreno, gliela avremmo ceduta; ma hanno preferito agire così, con i già collaudati metodi abituali. Maddalena, prima di lasciare questo mondo, prese un foglio e, benché pienamente consapevole che non avesse alcun valore legale, ma sicuramente morale, scrisse di suo pugno la volontà di non voler lasciare niente al primogenito figliounico. Ma questo si intascò comunque i 20 milioni di lire che gli spettavano da parte della madre dalla vendita dell'appartamento, anche se convinse qualcuno di avervi rinunciato a favore del fratello più piccolo tra noi. Bugie, come al solito. Certe persone sembrano comportarsi come se fossero eterne, pensano di lasciare un qualche luminoso segnale del loro passaggio, ma dovrebbero pensare ai tanti boriosi che, già andati via, non hanno lasciato altro che qualche foto sbiadita, che col tempo successivo sparirà del tutto. Persino delle malefatte non rimarrà che sottile polvere, e così sarà tutto ciò che si è avuto con l’inganno. La vanagloria non dura che un soffio di venticello.
La Verità è un ciclone che
dura nel tempo.
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