CHE IL TUO VOLTO SIA SEMPRE SORRIDENTE AL SOLE.

  

Maddalena Saba nacque a Ozieri il 3 novembre del 1922. 

Donna che ha dimostrato, fino alla fine della sua esistenza, di avere un enorme pregio che può essere, al contempo, un difetto; la troppa mitezza. Un eccesso di arrendevolezza del quale hanno saputo approfittare coloro che, tutt’altro che miti, hanno mirato a distruggerla nell’animo e depredarla di tutto, serenità compresa e, se fossero riusciti nell’intento, persino di una casa in cui vivere.

                                             CIAK, SI GIRA!

Pare che Maddalena incontrò l’ufficiale di cavalleria Bruno Piredda in occasione di una manifestazione equestre, di sicuro si sa che si innamorarono a prima vista e, lasciatisi alle spalle tutti i loro eventuali “impegni” precedenti, fuggirono insieme nella più classica delle cosiddette “fughe d’amore”.                                

Il primo periodo della loro unione ufficiale non dovette essere facile; dopo aver prestato servizio all’ ERLAAS  nella disinfestazione dalla zanzara Anopheles, Bruno tentò, con scarso successo e anzi perdendoci il denaro investito, di avviare un ufficio a Milano per occuparsi di invenzioni, occuparsene nel senso di creare qualcosa da brevettare.

La sua idea più convincente consistette nel creare un apparecchio munito di spazzole e serbatoio per il detersivo, da collegarsi al rubinetto del lavabo per facilitare il lavaggio di piatti e posate. Lo chiamò SpumaJet e ne fece costruire diversi come prototipo.  Ebbi l’opportunità di vederne uno nella sua confezione originale e dotato di tutti gli accessori. Era di plastica dura color avorio e aveva all’incirca la forma di un diffusore da doccia, ma più piccolo ed ergonomico e dotato di nere spazzole rigide adatte per distribuire, attraverso sottili condotti, il detersivo che andava riposto al suo interno prima dell’utilizzo. L’idea di per sé sarebbe anche buona, ma al lato pratico si dimostrò una complicazione inutile e di ingombro eccessivo. Inoltre, col tempo, le spazzole lasciavano rigature su vetri e ceramiche. Fu un’invenzione bocciata sul nascere.

Rientrati a Nuoro nella casa di San Pietro di proprietà della famiglia di Bruno e dopo un breve ma burrascoso periodo di scontento, lui trovò un impiego e, a quanto mi raccontarono molti anni dopo  alcuni anziani funzionari del’ Ente per il Turismo, fu solo grazie all’interessamento diretto di Maddalena che, chiedendo aiuto, riuscì a farlo assumere.

Maddalena aveva una caratteristica piuttosto rara; trattava tutti allo stesso modo e non si sentiva sminuita né superiore davanti a nessuno. Conservava il suo temperamento e il suo atteggiamento sia che si trovasse a parlare con uno straccione che con un Re, trattando tutti con lo stesso rispetto e identica considerazione. Non temeva di chiedere aiuto se ce ne fosse necessità, e non lesinava di aiutare chi si presentava alla porta a chiedere aiuto, come il buon Diego, il mendicante scalzo che tutti conoscevano nel nostro rione e che rifiutò più volte l’offerta di un paio di scarpe; non le sopportava affatto e non cedette mai all’insistenza di quel regalo che mamma avrebbe voluto quasi imporgli. Ci si doveva accontentare che accettasse qualcosa da metter sotto i denti.

Bruno, dotato di notevole padronanza della favella e ottimo conoscitore della lingua inglese,  non tardò ad adattarsi nel suo nuovo ruolo presso l’ufficio dell’ Ente per il Turismo e diventare amico di tutti. Purtroppo, come tanto spesso accade in ambienti come il nostro, avere molte conoscenze significa anche, come effetto collaterale, frequentare assiduamente i bar, e Bruno Piredda non solo non fece eccezione a questa regola, ma riuscì a eccellere persino in questo campo, diventando abilissimo nell’alzare il gomito.

Sempre molto disponibile nei confronti dei numerosi turisti che lo cercavano per avere informazioni utili alle loro vacanze in Sardegna, si sperticava in gentilezze e moine che spesso andavano “bagnate” con un drink al solito bar. Conto aperto a suo nome, ovviamente.

Amici e conoscenti che andavano a trovarlo al lavoro, sapevano che ancor prima di dare un’occhiata nel suo ufficio facevano meglio a sbirciare dentro al locale. 

A proposito di quanto fosse nota la sua assiduità nel bar, mi sovviene il ricordo delle risate del mio maestro in terza elementare, mentre, leggendo ad alta voce il tema svolto da un suo alunno, arrivò alla frase  “Il babbo di Piredda  lavora in un bar di piazza Italia”…

                                  IO SONO BRUNO PIREDDA…

Ho avuto la sventura di nascere terzogenito di questa coppia di fuggitivi per amore nel marzo del 1958, mentre mio padre era già da anni intensamente impegnato con le “sue” grotte e i suoi numerosissimi amici. Non è stato quasi mai presente mentre la moglie partoriva in casa con l’aiuto della sua brava levatrice di fiducia, e nemmeno nei giorni successivi a tali eventi.  Lo si vedeva poco o niente a casa e, di questo poco o niente, quasi tutto era dopo che aveva dato fondo a svariati bicchieri di vino.

Parte del piano inferiore della nostra abitazione era invaso da zaini, scalette, funi, lampade ad acetilene, sacchi di carburo e quant’altro servisse per le spedizioni nelle grotte. In effetti,  quella fu la prima sede del suo team di amici speleologi e vi avvenivano riunioni, preparativi, partenze e ritorni.

Io ero solo un bambino e tutte quelle persone mi erano simpatiche, ravvivavano un ambiente spesso triste e noioso, tornavano dalle loro spedizioni rallegrati da qualche bicchiere di Cannonau e mi volevano bene;  non era raro ritrovarmi le taschine dei pantaloncini piene di caramelle.

Maddalena però, dal suo punto di vista molto differente dal mio, una sera osò far osservare a Bruno che le sue assenze dall’ufficio e da casa erano eccessive, ed ecco che, attraverso la sua voce cavernosa e alterata dal vino, Bruno dichiarò all’intero vicinato le parole-chiave di tutta la sua esistenza:

 IO SONO BRUNO PIREDDA, HO SEMPRE FATTO QUELLO CHE MI PARE, FACCIO QUELLO CHE MI PARE,  E CONTINUERÒ A FARE QUELLO CHE MI PARE!

Maddalena dovette, lentamente ma inesorabilmente, abituarsi a fare buon viso a cattiva sorte anche nei momenti peggiori; la figura ormai lanciata verso un lungo percorso di mitizzazione di quell’uomo doveva essere preservata, non era assolutamente consentito criticarlo, specialmente in presenza di chiunque.

Qualsiasi cosa lui dicesse, fosse anche la più scontata e banale, suscitava nell’ascoltatore stupore e meraviglia. Forse erano i tempi, forse erano le persone o tutto l’insieme, fatto stà che vi era questa predisposizione ad attirarsi lodi e ammirazione con poco, e quel poco lui riusciva a dirlo con enfasi tale da farlo apparire molto.

Lodarlo divenne  -e accrebbe valenza nel tempo-  una sorta di obbligo sociale al quale non ci si poteva sottrarre; chi non faceva parte di quel gregge rischiava di esserne tagliato fuori, di sentirsi bollato come “non conforme”, uno che non capiva niente. Un deficiente insomma. Ma agli occhi di noi familiari - e credo non solo di noi figli o della moglie -  apparivano spesso scarsamente dotati d' intelletto coloro che, per un nonnulla, attribuivano genialità a un uomo che, almeno noi, conoscevamo fin troppo bene. E ci scappava sovente, ma nascostamente, da ridere…

Per ammissione stessa di qualcuno che visse quei tempi e li ricorda, la figura di Bruno Piredda era circondata da un chissà ché d' inspiegabile, forse molto interessante come argomento di studio e ricerca per un buon antropologo, un psichiatra, un neurologo.

Come mi disse qualche tempo fa un testimone diretto di quei tempi: “Se  tuo padre diceva merda, gli altri capivano oro.  Ma me ne resi conto solo tardi, troppo tempo dopo, come risvegliatomi da uno stato di torpore mentale, d' ipnosi. Rivalutai la personalità egocentrica di tuo padre troppo tardi.”

                             LE LEGGI DELLA SOPRAVVIVENZA

Cercai di vivere la mia infanzia con la sola dotazione di quelle armi di autodifesa che offre la natura ai bambini, tra le quali la fantasia e il sapersi accontentare di poche cose, ma non era per niente facile riuscire a vivere in un ambiente dove ero lasciato solo o,  ancor peggio, con la sgradita compagnia di due fratelli maggiori che spesso si impegnavano in una gara nella quale chissà quale era il premio: rendermi difficile e sofferta la sopravvivenza.

Nostro padre quasi perennemente assente e nostra madre in difficoltà nel prendersi carico di casa e figli.

Si occupava della casa, della cucina, del bucato che lavava  a mano nel cortile sulla vasca di granito con la sola acqua fredda a disposizione, o quella scaldata nella pentola in cucina. Ma non si accorgeva neppure delle angherie che dovevo subire dai miei fratelli, dei rischi che correvo in quelle ore in cui ero lontano dalla sua vista e lei sembrava dimenticarsi della mia esistenza.

Spesso entravo in quell’ antro buio che in casa chiamavamo “magazzino”, uno stanzone disposto al disotto del piano stradale e strapieno di materiali e oggetti vari. Per un certo tempo ci fu persino uno strano ospite: un avvoltoio monaco, legato per una zampa a una catena e costretto a stare quasi immobile. In quegli anni era ancora presente in Sardegna e mi capitava di vederlo in volo o trovarlo persino posato a terra, mentre frugava nelle discariche in periferia. Questo esemplare, che a me gracile bambino appariva enorme,  aveva avuto la sventura di sorvolare la testa di Bruno mentre cacciava nelle campagne tra Maria Frunza e Marreri . Babbo lo puntò con la doppietta e gli sparò, colpendolo a una ala, in un gesto di pura spacconeria. Portatolo a casa, lo incatenò in quel buio stanzone.

Andavo  a portargli  i ritagli di carni di vario genere, specialmente di pollo, che mi passava mamma in cucina;  non  avevo affatto timore di quell’enorme ospite che anzi, mi faceva compassione. Abbassava la testa e io gli porgevo quei ritagli, ma non sempre li degnava di attenzione. Seppure bambino, sapevo già molto del regno animale e attingevo conoscenze in merito leggendo qualsiasi libro o articolo che parlasse di animali. Sapevo bene che quel raro avvoltoio non poteva continuare a vivere in quelle condizioni.

L’attaccatura della sua ala era sanguinante, spezzata dal “bel tiro” di un uomo che, più tardi, attirerà enormi lodi su di sé spacciandosi per grande naturalista.   “bè, lo diventerà dopo” penserà qualcuno. Vedremo…

Anche se me  lo aspettavo,  fu per me un gran dispiacere ritrovarlo morto.

Ricordo ancora benissimo lo sguardo arreso, gli occhi neri ma lucenti di quel povero volatile che, di lì a poco, si sarebbe totalmente estinto in Sardegna.

Nel magazzino, oltre questo ospite sfortunato, vi erano due fucili e numerose munizioni, un grande tavolo di legno con il macchinario a leva che serviva per costruire cartucce di vario genere e i relativi contenitori con  pallini e pallettoni di varia misura, più le classiche “balle” lisce o a elica. Altri contenitori e lattine contenevano in abbondanza polveri da sparo, mentre un sacco di juta appoggiato a terra era pieno di bianco D.D.T. che babbo aveva conservato e che, evidentemente ignorando i pericoli che rappresentava, di tanto in tanto spargeva in dosi generose per la casa e nel cortile, forse convinto che potesse eliminare le blatte.

L’odore di quella polvere mi rimarrà per sempre nella memoria olfattiva; è come se la respirassi ogni volta che si ripresenta nei miei ricordi.

Nel tavolone al centro di quel magazzino c’era anche un lungo binario di forma ellittica con sopra un trenino elettrico in metallo grigio, con sui fianchi la scritta Santa Fè e sul tettuccio due  luci, una rossa e una verde. Babbo ne era geloso e non voleva che nessuno lo toccasse, era tutto suo e io potevo limitarmi a osservarlo con ammirazione, cosa che facevo volentieri specialmente quando lo metteva in marcia.

In uno dei rari pomeriggi che lui passò a casa libero dai soliti impegni, si dedicò a costruire una galleria di cartapesta per quel suo prezioso giocattolo, senza affatto coinvolgermi in alcun modo. Potevo guardare e stare zitto.

Nei tanti ripiani disposti alle pareti nel magazzino vi erano le cose più strane; boccette  e barattoli in vetro pieni di formalina che conservavano, perfettamente integri,  rettili e insetti, un grosso millepiedi, alcune salamandre di vario colore, rospi e ranocchi, un insetto stecco, scorpioni e altre varie bestioline. Per terra, diverse concrezioni dall’aspetto brillante e  pezzi di stalattite. Nella nicchia in alto su un mobile di legno, attirava lo sguardo una bella e grande cassa militare chiusa da un grosso lucchetto, con impresso a vernice il nome di babbo a caratteri in stile militare.

Era la sua cassaforte personale e conteneva cose preziose e ricordi di guerra, penso che l’avesse portata con se di ritorno dalla dorata prigionia a Camp Como nello stato di Mississippi, conseguenza della sua cattura in Libia da parte degli inglesi.

Se la definisco dorata è solo perché lui stesso la considerava tale, dato che fu trattato con tutti i riguardi e anche di più. Fu una vacanza nella quale visitò grandi città americane e molti bar, accompagnato dai graduati dell’Esercito USA, tutti divenuti suoi grandi amici.

In quel forziere, che ebbi occasione di sbirciare una sola volta dopo che la ebbe aperta per cercare qualcosa, vidi che c’era una gran quantità di monete d’oro, specialmente dollari, e monete d’argento tra le quali diverse 500 lire con le Caravelle e la bandiera al contrario. Vi erano anche mazzette di banconote di vario genere, e anche tra queste riconobbi svariati dollari di un certo valore. Tra i documenti, le sue tessere della Massoneria e manoscritti di chissà quale epoca o valore. Non mi era concesso, ovviamente, di fare domande o esprimere qualsiasi curiosità sul contenuto di quella cassa; ogni cosa eventualmente e casualmente vista doveva rimanere in me, ed ero stato fortunato ad avere quei pochi secondi a mia disposizione per darci un’occhiata.

                                             IL BOMBAROLO

Un padre previdente avrebbe avuto l’accortezza di chiudere bene la porta di quello stanzone, Bruno invece lo lasciava aperto e, in sua assenza, chiunque di noi (o eventuali intrusi) poteva avere accesso ad armi, esplosivi, sostanze chimiche e veleni vari. Il secondogenito Graziano, da sempre attratto dalle sostanze esplosive,  ci si riforniva spesso e costruiva ordigni di vario genere e potenza, spesso mettendo in allarme l’intero quartiere, ma soprattutto faceva rischiare me e nostra madre di saltare in aria.

Un povero gatto bianco entrato nel nostro cortile per curiosare, fu da lui e l’altro fratello maggiore -da tempo a noi noto col nome di Figliounico, poiché tale si vantava di essere-  attirato con del cibo; lo coccolarono e, a tarda sera,

mentre io pensavo che si fossero affezionati al bel gattone e che sarebbe rimasto con noi, gli attaccarono un grosso petardo artigianale nella schiena appena sopra l’attaccatura della coda, accesero la miccia e lo cacciarono via affinché corresse, nottetempo, nei vicoli dietro il cortile. In via Alberto Mario il gatto esplose in mille pezzi, riempiendo i muri delle case di brandelli sanguinolenti. Lo scoppio allarmò tutto il vicinato e, assieme ai resti della vittima, fu l’argomento di tutto il quartiere per i successivi giorni, con grande gioia e soddisfazione dei fautori di simile bravata.

Meno contento fu Bruno, venuto a conoscenza del misfatto,  che evidentemente aveva intuito la provenienza dell’esplosivo. Ma come al solito, anziché affrontare i diretti responsabili, mise in croce la moglie e, come conseguenza, me che non potevo sottrarmi dalle sue scenate.

In mezzo a tante e tante giornate da dimenticare, appariva a tratti e nonostante tutto, qualche giornata spensierata, come quando si degnava di portarci a qualche spuntino per famiglie organizzato dal suo club di amici speleologi.

In quelle occasioni pubbliche Bruno e Maddalena apparivano, probabilmente, come una coppia senza particolari problemi, ma era importante comportarsi esattamente come lui ordinava e secondo le direttive che ci dettava preventivamente. Io dovevo parlare il meno possibile, non chiedere mai niente a nessuno e rifiutare qualsiasi eventuale dono anche se si trattasse delle caramelle più buone del mondo. Dovevo dire esattamente “grazie no” anche dopo eventuali insistenze, non usare mai il “ciao” e usare solo buongiorno e buonasera, ovviamente con garbo e compostezza. Guai ad appoggiare un gomito sul bordo di un tavolo, guai a tenere un cucchiaio con la sinistra (sono sempre stato ambidestro, quindi per me era del tutto indifferente), guai a fare un qualsiasi verso durante i pasti, guai a non obbedire ciecamente a uno qualunque dei sui ordini, spesso impartiti attraverso il suo solo sguardo minaccioso.

Praticamente dovevo apparire, agli occhi degli altri bambini che scorrazzavano e giocavano liberi e allegri, come un reietto.

Un notevole paradosso di questo suo atteggiamento era che, in presenza degli altri due figli più grandi,  aveva un atteggiamento del tutto diverso, totalmente passivo.

                       IL COMPAGNO FUTURO DOTTORE

Graziano era più grande di me di 7 anni e Figliounico di 10. Graziano era fortemente anaffettivo verso  qualsiasi forma di vita, e  purtroppo condivideva con me la stanza nella quale dormivamo -o meglio- avremmo dovuto dormire. Quella stanza aveva una finestra che dava sul cortile interno della casa, e da quel cortile era facile, scavalcandone il muro, andare in strada. Graziano “evadeva” spesso dopo aver fatto finta di andare a dormire, e per fare in modo che io non me ne rendessi conto e potessi fare la “spia” a nostra madre e farla allarmare, mi offriva con inconsueta gentilezza una camomilla verso le nove di sera. Passarono diversi mesi prima che Maddalena si accorgesse che, in quella camomilla, ci scioglieva dei sonniferi che gli procurava un suo compagno di scuola, dopo averli sottratti al padre medico.

La mattina era un problema svegliarmi e stare attento a scuola, mi ammalavo spesso con febbri alte e dolori diffusi, ricordo ancora bene gli strani incubi che mi opprimevano in quelle notti di sonno profondo indotto da quei potenti sonniferi; visioni di vortici sempre più grandi che, rotolando dal cielo, mi cadevano addosso e trascinavano verso altri vortici, in un loop infinito.

Quando mia madre si lamentò con Bruno di quel mio stato, ancor prima di scoprire che ero spesso narcotizzato, le rispose che ero troppo fragile e che sicuramente era colpa sua che non sapeva crescere bene i suoi figli. Ne nacque una delle tante vivaci discussioni, a quei tempi ben conosciute da tutti i vicini che abitavano quel vicolo antico del quartiere di San Pietro. Mentre i due fratelli grandi svicolavano da quelle scenate andandosene per fatti loro, io dovevo obbligatoriamente assistervi e godermi fino in fondo la brutalità di cui era capace quell’uomo.

                                    UBRIACHEZZE MOLESTE

Fu in una indimenticabile occasione che dovetti vedere, e purtroppo non fu l’unica, mia madre piangente e sanguinante, seduta nello scalino che separava la cucina dall’andito di quella casa; la violenta discussione tra i due era nata dopo che  le riferirono di una gentile signora che, durante la solita permanenza in grotta dalla quale lui ritornò quella notte, si era infilata dentro il sacco a pelo di Bruno.  Maddalena, incapace di accettare uno sgarro del genere e per giunta attuato in presenza di molte persone, era decisamente la moglie sbagliata per quell’uomo, e almeno altrettanto sbagliato era lui per lei.

Dovette essere molto delusa da quello che, un tempo  impacchettato da buon ufficiale di cavalleria, le dimostrava ora di essere un qualunque cialtrone in confezione regalo.

La ricorderò sempre tra tante altre quella nottata della mia non spensierata fanciullezza, il pianto che si mischiava al sangue e le attraversava le braccia fino a gocciolare nel pavimento di tavole di legno, il suo singhiozzare e lo spavento che mi impietriva. Mi svegliarono, poco prima, le urla e i colpi delle botte che provenivano dalla cucina, seguiti da lui che scendeva le scale mettendosi la sua fida pistola Beretta in tasca, minacciando il suicidio e dileguandosi sbattendo la porta.

Piansi impietrito dalla paura, preoccupato per un padre che pensavo già morto e una madre che tremava e piangeva sanguinante.

Ho capito solamente molto tempo dopo, quanti immani sforzi fece quella donna per tenere una pace familiare che era flebile, sempre in equilibrio su una lama affilata dal  destino ignobile.

A sei anni e mezzo, involontario partecipante a quella farsa che era la vita in quella famiglia e dopo aver già vissuto situazioni a dir poco spaventose, mi ammalai seriamente. Inizialmente passai alcuni giorni a letto con forti dolori addominali e febbre, e quando mi rialzai scoprii di avere delle macchie molto pruriginose nella schiena.

                              PSORIASI E AMOREVOLI CURE

Mamma chiamò un nostro parente medico che abitava in quello stesso vicolo mentre babbo era, come suo solito, assente. Quelle erano macchie di psoriasi, una malattia a forte valenza psicosomatica. E poteva essere diversamente, dato l’ambiente che mi circondava?

Sarebbe stato molto meglio per me se nessuno avesse mai parlato di quelle macchie con mio padre al suo ritorno, se mi avesse totalmente ignorato, magari come quando giocava col suo trenino.  Alticcio e per nulla interessato a seguire i consigli del medico che aveva raccomandato di farmi stare tranquillo e magari portarmi qualche ora al mare, mi fece subito mettere cavalcioni a torso nudo su una sedia, con la “seria” intenzione di farmi sparire le macchie a modo suo.

Il “modo suo”  ahimè, consistette nell’usarmi da cavia e nel provare tutto quello che la fantasia gli poteva suggerire.

Il primissimo  trattamento fu spalmarmi abbondanti quantità del famoso dentifricio Pasta del Capitano nella schiena e attendere che si asciugasse, per poi raschiare via tutto ciò che rimaneva con una lametta appena tolta dalla sua cartina protettiva. Tutto, ripassando più volte con insistenza, fino a far affiorare i vasi sanguigni, e più avanti  eventuali spessori creatisi attorno e dentro le macchie, praticamente lo strato dermico che tentava di ricostruirsi.

Fin da quel primo trattamento, che mi procurò -forse lo riesce in parte a immaginare- non pochi dolori e sanguinamenti, fu palese la dannosità del dentifricio sulle macchie psoriasiche. Così sarebbe stato, almeno, per una persona normale. Ma Bruno Piredda non era il tipo, per mia grande sfortuna, che si arrendeva facilmente. Le macchie furono già più grandi e rosse fin dalla mattina successiva, dopo che passai una notte di dolori e fastidi indicibili in tutta la schiena. Quella sera stessa, il novello Dottor Bruno purtroppo decise, anziché trattenersi come in una normalissima serata al bar a ubriacarsi, di prestarmi nuovamente la sua amorevole attenzione.

Dovetti nuovamente mettermi cavalcioni su quella che ormai -per me- era e sarà sempre nella memoria la sedia delle torture; ed ecco che fu la volta del succo di limone, spremuto fresco fresco direttamente sulle macchie già lese e offese dalla sera prima.

Evito di tentare una descrizione di quello che provavo, nessuna parola sarebbe sufficiente a descrivere cosa provavo. Non potevo oppormi a quei trattamenti, mi morsicavo il polso oppure il pollice o, ancora, la spalliera della sedia per non urlare dal dolore e dal bruciore, lacrimavo e mia madre, timidamente quanto inutilmente, tentava di farlo desistere. Imperterrito lui continuava e, una volta asciugatosi il succo dei limoni che mi spremette nelle macchie, mi lavò la schiena con un liquido scuro che emanava un forte odore simile alla trementina. Non so di cosa si trattava esattamente. So solo che, dopo un’altra notte allucinante, mi ritrovai con la schiena che era ormai una macchia unica dal colore rosso vivo, che sentivo pulsare come se mi fosse cresciuto un altro cuore nella spina dorsale.

Maddalena non osava intervenire né chiamare un’altra volta il dottore.

Erano tempi molto diversi da questi attuali, una donna non poteva andare tanto facilmente contro il marito, non aveva nemmeno una minima parte dei diritti attualmente riconosciuti. Sapeva che, se avesse chiamato i carabinieri, probabilmente avrebbero giustificato quel capofamiglia o, quantomeno,  ne sarebbe scaturita una dura reazione da parte di Bruno, che già aveva dimostrato di saper alzare le mani. Non si poteva fare e basta, Bruno Piredda era un “intoccabile”.

Terzo giorno di trattamento; il futuro “mago delle erbe in erba” mi fece di nuovo accomodare sulla sedia delle torture. Inutili i miei tentativi di sottrarmi ai suoi tormenti. Questa volta preparò un impasto nero a base di sughero bruciato e macinato, poi mischiato a chissà quale altro ingrediente rimasto sconosciuto. Me lo spalmò ancora molto caldo su tutta la schiena, mentre morsicavo la spalliera della sedia per non gridare al dolore che sembrava indotto da mille diavoli che mi pungevano coi forconi ardenti. Quando quella robaccia mi si raffreddò addosso e si  indurì, il mio personal trainer la afferrò per i lembi e la tirò via pezzo dopo pezzo, come quando si stacca una etichetta ben incollata da un barattolo. Vidi la faccia di mia madre che, guardandone il risultato, sgranò gli occhi e si mise le mani sulla fronte, osando un “Dio mio….”

Stranamente, la psoriasi non solo era ancora lì al suo posto e non miracolosamente sparita come Bruno, evidentemente, si aspettava, ma era pure ancora notevolmente peggiorata.

Nonostante io non ne potessi più di quelle sue attenzioni, quel padre datomi dal destino provò su di me altri intrugli inventati sul momento a base di tutto ciò che gli capitava.

Probabilmente smise di torturarmi, dopo 5 o 6 giorni, per sopraggiunta stanchezza.  Mai ammetterà, da lì in poi, di avermi peggiorato una situazione che, già di per sé, era nata da condizioni familiari quantomeno deleterie che lui stesso avrebbe dovuto, o quantomeno potuto, evitare.

Capitò dopo qualche tempo che un  medico serio e preparato, tornato a Nuoro dall’estero, mi visitò casualmente dato che passò a casa a salutare il suo parente Bruno.

“La psoriasi ha degli aspetti spesso sorprendenti” disse, “può peggiorare notevolmente nel giro di poche ore o sparire spontaneamente. Se aveste evitato di intervenire con prodotti non appropriati, magari a quest’ora se ne sarebbe andata da sola o, quantomeno, non sarebbe a questi livelli di estrema gravità”. Naturalmente gli dissero solo di avermi messo delle creme senza ammettere di avermi letteralmente usato come cavia di laboratorio, e di certo non potevo raccontarglielo io, pena le pesanti cinghiate del caro babbino.  Sembrerà strano, lo so,  ma quello che oggi viene ricordato come il “buon vecchio saggio” non solo alzava le mani sulla moglie, ma pestava volentieri anche un figlio ammalato, rachitico e indifeso. E non c’era alcun bisogno che gliene dessi la minima scusa.

                      ERA UN MAGO ANCHE CON LE CINGHIE

Come quel pomeriggio che, dovendo fare i compiti, osai chiedere indietro la mia penna di scuola a Graziano; si innervosì e me la lanciò con forza beccandomi una vena della mano destra con la punta. Esattamente, quella grossa vena nel dorso che forma quasi una S e va a confluire tra l’anulare e il medio. Iniziò a scorrere il sangue copiosamente, vidi il tavolato sotto di me riempirsi di rosso e pensai solo, muto dallo spavento, che sarei morto.

Arrivò mamma, disperata e incapace di fermarmi il sangue. Provò a stringermi attorno alla mano una enorme quantità di cotone, peggiorando l’emorragia. Finalmente, qualcuno si decise a chiamare l’ambulanza. Al pronto soccorso mi curarono e raccomandarono a Maddalena di non fare più la fesseria di mettere cotone su una emorragia. E, se possibile, di farmi mangiare qualche bistecca,  dato che ero spaventosamente magro.

Tornati a casa, tutto sembrava finalmente tranquillo finché non ritornò il “vecchio saggio” dal suo solito giro di “relazioni sociali”, come amava chiamare le bevute nei bar.  Alterato, sbronzo e innervosito da chissà che, e fortemente convinto che quello da punire fossi io, colpevole per aver osato chiedere la mia penna. Alterato a tal punto da sfilarsi la cinta e non rendersi conto che mi batteva nella schiena la fibbia metallica. Ricordo ancora il dolore, ricordo le sue urla con la vociona impastata dal vino, ricordo di aver gridato di dolore e, improvvisamente, fu tutto buio. Mi ritrovai, evidentemente dopo uno svenimento, steso nel mio lettino, con mamma a fianco che piangeva e con profonde ferite nella schiena che affioravano, vistose, in mezzo a quella estesa macchia di psoriasi. Anche quella volta la cura fu del tutto casalinga: una spruzzata di abbondante alcool.

                                                     FOLLIA

Follia, mi viene solo questo termine: FOLLIA.

Dovevamo tacere su tutto e non lamentarci mai di niente,  temevo fratelli e genitori perché tutti loro erano artefici o perlomeno complici di simili nefandezze e vivevo un profondo stato di odio nei confronti della vita.  Avrei preferito che mia madre avesse preso il coraggio di scappare via, che mi avessero abbandonato in un convento, qualunque cosa sarebbe stata una alternativa migliore al continuare a vivere quella vita.

Nonostante questi aspetti, che rimanevano ben celati tra le mura della nostra casa, riuscivo -sempre grazie alla grande autodifesa insita nel cervello di un bambino- a vivere qualche momento di felicità tutta mia. Passavo ore intere nel cortile, quando tutti erano impegnati in qualcosa che non fosse il dedicarsi al mio male, a osservare gli insetti, le lucertole, qualunque cosa avesse vita lì ai piedi del sambuco, dell’alloro, tra i gerani e la menta o tra le pietre del muretto che separava il cortile dai vicini. Imparai molte cose sulla vita delle lucertole, del ragnetto che battezzai “pigliamosche” che tendeva agguati agli insetti per paralizzarli e svuotarli lentamente per nutrirsene, lasciandone solo la corazza esterna. Nessun insetto o animale mi faceva paura, toccavo qualsiasi ragno, qualsiasi insetto strisciante o volante, presi nel palmo della mano persino il piccolo scorpione pallido che trovai sotto una pietra.

Maddalena continuava a far di tutto per non far crollare quella baracca che era la nostra famiglia, ma solo lei sapeva quanto le costasse. Ricordo un giorno di primavera: mi teneva per mano mentre tornavamo a casa dopo aver comprato quella che lei chiamava la pagnotta di Sanluri, da un negozio di alimentari in via Roma. Ci venne incontro babbo e, mentre teneva nervosamente la pipa tra le labbra, raccontò a Maddalena che Figliounico gli aveva sottratto le monete d’oro e argento che custodiva all’interno della sua cassa militare.

 Con le conoscenze che aveva, non ci mise molto a scoprire che erano state vendute a un orafo per poi pagare un gioiello in oro -non ricordo se anello o braccialetto- che Figliounico regalò a qualcuna delle ragazze che frequentava. Ecco che, ancora una volta, quella che avrebbe magari potuto essere una giornata con qualche vaga parvenza di “normalità” fu compromessa. E fu compromessa anche la giornata successiva dato che Bruno, come suo solito, anziché prendersela col diretto responsabile sfogò tutta la sua rabbia con noi.

Figliounico e Graziano potevano elegantemente svicolare dai guai come e quando volevano; io no e nemmeno mamma Maddalena.

Perennemente stressato e umiliato,  mangiavo poco e malvolentieri, troppo spesso saltavo il pranzo, la cena, e anche tutti e due. Ero magrissimo, debole, con le piaghe alla schiena e le piaghe nell’animo, forse ancor peggiori queste ultime. Invidiavo i compagni di scuola e le loro profumate merende, quei loro panini che trasbordavano di salumi o formaggi, invidiavo quelli che potevano rincasare senza timore di trovare una madre piangente e un padre urlante. Una volta mi passò a pochi centimetri dalla testa un pesante piatto di ceramica lanciato da Bruno verso la finestra che dava sul cortile, ma le numerose schegge di vetro mi presero in pieno, costringendo mamma a togliermele una per una con le pinzette, mentre colavo sangue ancora una volta. Un’altra volta ancora fu Figliounico a lanciarmi un coltello che mi colpì alla gamba, innervosito da chissà che,  per fortuna mi colpì col manico e me la cavai con un livido. Graziano distruggeva tutti gli eventuali giochini che mi venivano regalati o che trovavo nelle patatine. Erano cose di poco valore ma non per me, che giocando ci passavo qualche minuto di spensieratezza; lui si divertiva a prendermeli e li fondeva nel caminetto sopra qualche cumulo di paglia e legnetti. Mentre io piangevo, lui rideva di gusto e nessuno interveniva per difendermi; nel frattempo respiravamo il puzzolentissimo fumo nero della plastica fusa. Mamma troppo impegnata a leccarsi le ferite, babbo troppo impegnato  fuori casa, Figliounico quasi mai presente e spesso impegnato in quel ruolo di cui tanto si vantava: fare il playboy. Amava dire a tutti e tutte di essere figlio unico, e col tempo risultò evidente che lo credesse veramente. Aveva (quasi) ragione!

Una sera Bruno rincasò da una delle sue diecimila scampagnate con gli amici, aprì la porta di casa con insolita lentezza e bisbigliando cose incomprensibili, barcollò nell’andito e fece appena in tempo a buttarsi sul letto, vomitare vino e vermi e chiedere aiuto. Lo caricarono sull’ambulanza e all’ospedale gli fecero una lavanda gastrica per attenuare  l’avvelenamento da formaggio marcio associato alla potente sbornia.

                                       UN TIPO IN GAMBA

Dal punto di vista dei suoi numerosi amici, Bruno era ovviamente considerato un tipo molto in gamba; la sua generosità nei bar era proverbiale, la sua disponibilità a qualsiasi ora anche, qualunque fosse il problema dell’amico, amico dell’amico, oppure parente di un amico.  Era sempre pronto a preoccuparsene e occuparsene.  Sempre disponibile alle bevute, alle spedizioni in campagne mari e monti, a giornate di pesca e di caccia, e chissà di quanto altro.

Facile immedesimarsi nel suo amico-tipo; bastava essere un adulatore e contribuire ad aggiungere aria nel pallone, che più si gonfiava e meglio stava in loro compagnia.

Difficile, a quanto pare, immedesimarsi in chi, di tale pallone troppo gonfio, doveva subirne le prepotenze.

Un certo periodo lo vedemmo impegnatissimo dopo che lesse, in un quotidiano locale, che un suo amico era stato arrestato per aver sottratto denaro mentre lavorava come ragioniere. Si agitò e preoccupò come se fosse una questione sua personale, prese la cornetta del telefono e iniziò un lungo giro di telefonate e incontri coinvolgendo  alcuni  suoi “fratelli” di Massoneria.

Non solo lo tirò fuori dai guai, ma riuscì persino a farlo studiare e promuovere per fargli dare un importante impiego ministeriale. Bruno non mancò, in più di una occasione e in presenza della moglie Maddalena, di malignare - con quel suo mezzo sorriso ironico e strafottente che noi in famiglia conoscevamo bene - che il suo amico doveva tutto alla disponibilità della propria moglie. Buono generoso e comprensivo davanti agli amici, in loro assenza dimostrava la sua vera natura urticante e umiliante. Mamma stessa, comunque, non credette mai a quelle affermazioni e le prese con la dovuta ponderatezza, definendole - ovviamente non in sua presenza - come le “parole di una persona dalla personalità eccessivamente misogina ed esaltata”. La misoginia di Bruno era, in effetti, qualcosa che avrebbe destato molto interesse in qualche bravo studioso. La esprimerà ancora al meglio (o peggio)  più tardi, quando diverrà quel “vecchio saggio” che ad alcuni fa comodo ricordare, dimostrando, almeno a noi familiari e a chi ha avuto modo di conoscerlo bene veramente, che mai tale nomignolo fu più immeritato.

                              UN GRANDE ARCHEOLOGO?

Ci fu anche un altro periodo particolare nella nostra casa; Bruno che usciva con un certo conoscente la sera e tornava al mattino. Confabulavano tra di loro a bassa voce, caricavano in auto lampade e torce di vario genere, pale e picconi, e partivano verso quello che, si era capito nonostante la loro furtività, era un villaggio nuragico che avevano scoperto da qualche parte dei monti di Oliena.

Ogni mattino all’alba tornavano con sacchi e sacchetti pieni che depositavano dentro il magazzino, che stavolta veniva ben chiuso da chiavi e lucchetti. Questo loro andazzo andò avanti per diverse settimane, finché una notte non rientrarono ben prima della solita ora mattutina, con l’aspetto molto teso e preoccupato. Sentii i loro discorsi e li udii lamentarsi di “quei maledetti pastori” che gli avevano demolito il “loro” villaggio, facendovi rotolare sopra i grossi massi che lo costituivano e, praticamente, distruggendolo. Le maledizioni si sprecarono quella notte, Bruno e il suo amico tremavano dal nervoso e, probabilmente, avevano anche avuto paura; forse i pastori di quella zona, disturbati dalla loro costante presenza notturna, gli diedero anche qualche altro avvertimento.

Gli avevano rotto un giocattolo prezioso, ma non rimasero del tutto a becco asciutto: qualcosa di valore dentro quei sacchi  nascosti nel magazzino c’era e, avendone visto una buona parte, preferisco farmi conto di averlo solo immaginato, mi sforzo ancora di credere di averlo solo sognato, di non essere mai stato neppure spettatore di tanto danno alla storia della mia isola.

Tempo pochi giorni ed eccoli partire verso la Svizzera, dopo un loro continuo viavai di preparativi, accordi, telefonate a qualche amico (o più probabilmente “fratello” di Massoneria) che, in qualche modo, aveva il compito di facilitare il passaggio tra i due “archeologi” e l’acquirente.

Tornarono dalla Svizzera raggianti, vestiti a nuovo e pieni di acquisti e regali per tutti, persino un orologio Tissot per me, uno d’oro per Maddalena, due fantastiche ricetrasmittenti marca Zodiac e altri oggetti preziosi e, per allora, tecnologici. E soldi, tanti soldi in banconote di grosso taglio.

Per qualche tempo, finalmente, a casa si respirò aria di benessere e serenità, finalmente la tavola fu imbandita di cose buone e si poté pranzare e cenare senza urla e rimproveri, senza piatti volanti e sberle. I battibecchi tra Bruno e Maddalena divennero meno frequenti,  ogni fine mese Bruno portava in omaggio a Maddalena una scatola gigante di marron glacé e le gite tra noi divennero più frequenti. Finalmente vidi persino il mare!

                      MADDALENA, LA VERA PRIMA  ERBORISTA

Passati quei burrascosi anni delle elementari, iniziai a conoscere un padre  meno propenso alla violenza, forse qualcosa in lui iniziava a farlo ragionare, forse anche qualche giusto consiglio di quelli che erano i pochi amici “veri” che aveva, quelli capaci di dare buoni consigli senza timore di passare per stupidi e capaci di dire “basta” all’ennesimo bicchiere di vino.

Forse anche il timore che ormai, cambiati i tempi, avrebbe rischiato grosso nel proseguire coi suoi metodi.

Mamma partorì altri due figli in quella casa di Santu Predu, e in almeno una di queste occasioni fu finalmente presente Bruno in casa, evidentemente libero dai soliti impegni.

La antica casa del rione San Pietro, di proprietà di tutti i fratelli di Bruno -cinque fratelli dalla propria madre, altri sei avuti da nonno con la domestica che sposò una volta diventato vedovo- andava liberata perché tutti loro avevano l’intenzione di venderla e Bruno, anziché spendere per tenerla e aggiustarla, preferì comprare un appartamento condominiale in viale Repubblica, al numero 3.

Finalmente stanco di mille avventure e mille sbornie, con sul cranio ancora i segni di una rovinosa caduta di decine di metri in una voragine dove ne uscì vivo per miracolo, con la stanchezza di chi raggiunge una certa età dopo una vita di eccessi, finalmente quell’uomo lo si vedeva rilassato e di compagnia, senza più troppe interferenze di amici beoni.

Sembravamo una famiglia “normale” e la speranza era di continuare a esserlo.

Mamma leggeva sempre tanto e aveva una nutrita biblioteca con tutti i classici, mentre Bruno leggeva soprattutto riviste o dispense museali sulla archeologia e la paleontologia. Una sera, in tv, mamma sentì che parlavano di un personaggio che, da allora, diventò molto popolare: Maurice Mességué. Avevano appena tradotto un suo libro dal titolo “Uomini, erbe e salute” e sentirlo parlare di erbe medicinali interessò mia madre a tal punto da precipitarsi a comprarne il libro. Babbo ne sembrava del tutto indifferente all’inizio ma -non si è mai capito se spinto da gelosia o reale interesse personale- una sera mentre Maddalena leggeva delle proprietà curative delle erbe, sbottò nervosamente che non aveva bisogno di Mességué per curare Marcello dalla psoriasi. Oddio dissi io, lascia perdere che ho fatto già la cavia troppe volte! Ma Bruno rispose che questa volta sarebbe stato diverso. Si mise a leggere il libro acquistato da mamma e, finito quello, ne acquistò altri e poi altri ancora, che leggeva la sera seduto in poltrona, spesso a voce alta. Io avevo -e ho ancora-  una spiccata tendenza a ricordare meglio i nomi latini che i nomi comuni, e a Bruno piaceva sfidarmi chiedendomi i nomi delle varie piante che nominava. “Fenomenale” disse una sera, quando gli dissi l’ennesimo nome scientifico di seguito senza incertezze. Era un esercizio che ci divertiva, e nel contempo era utile per fissare quei nomi nella memoria.

                                         CALMA  APPARENTE

Dopo circa un anno di vita tranquilla, babbo, con il ricavato di terreni in città ereditati dal padre (purtroppo senza pensare che col tempo avrebbero avuto un enorme valore) comprò 5 ettari di terreno a Marreri, a circa 13 chilometri dalla città. Con la stessa cifra avrebbe potuto avere terreni migliori e meno lontani dalla città, ma preferì così perché, in passato, quel terreno era stato della sua famiglia paterna, e desiderava riconquistarlo anche a caro prezzo. “E non è detto che non ci sia il petrolio” diceva spesso, con un tono che lo faceva apparire davvero convinto.

Mi portò a vedere quel terreno appena acquistato; dopo circa 13 chilometri dalla città verso Marreri, fermò la macchina a bordo strada e ci incamminammo tra lentischi e rose canine, percorremmo la collina verso il basso e, arrivati vicino a una grossa quercia, mi indicò dove voleva far passare la strada e dove erano i confini del “nostro” terreno. Nei giorni successivi, iniziammo a tracciare il cammino secondo le sue indicazioni, mentre lui camminava e mi indicava i punti da contrassegnare per poi  poter iniziare a decespugliare.

Gli feci compagnia quasi ogni giorno per mesi, finché gran parte della strada non fu completata.

Un giorno, per gioco e scherzosamente, gli dissi che avevo sempre sognato di fare una casa nell’albero come la vedevo nei fumetti; babbo mi prese sul serio e disse “che ci vuole.. la facciamo!”

E così fu, tornammo con delle grosse tavole e facemmo una vedetta nella grossa quercia che faceva ombra alle nostre soste dal lavoro. 

Di lì a poco, a rovinare quel nostro idillio familiare ci pensò colui che già aveva giurato di essere figlio unico di Bruno Piredda. Intanto, babbo andò in pensione a primavera e,  durante l’estate, ebbe un infarto.

Ecco che venne all’attacco Figliounico, battendo cassa per tentare di avere 5 milioni di lire per acquistare un apparecchio per la dialisi al suocero - questa, almeno, era la motivazione che lui e la moglie adducevano-  ed ecco che a casa ricominciarono le beghe di vecchia memoria…  Vivevamo da ciò che rimaneva della pensione tolte le spese per la macchina di babbo,  per tutto ciò che gli serviva per fare i lavori a Marreri, e le spese condominiali.  Le pressanti richieste di denaro gettarono Maddalena nello sconforto e Bruno nell’inquietudine.

Maddalena, ogni tanto, si faceva accompagnare da Bruno a Ozieri per trovare l’anziana madre; questa era vedova e viveva della pensione lasciatagli dal marito, ma una volta all’anno incassava qualcosa dagli affitti di un terreno e, ogni certo numero di anni, dalla vendita del sughero che se ne ricavava; ciò le consentiva di dare alla figlia dei piccoli ma preziosi aiuti in denaro.  Ma, di punto in bianco, nonna non volle più sentire sua figlia Maddalena.

Mamma ne rimase sconvolta, non riusciva a spiegarsi il perché di quell’atteggiamento da parte di sua madre, sempre affettuosa con lei oltre che con noi tutti. Quando andavamo a trovarla, lasciava che io passassi ore e ore a sintonizzare le onde corte sulla sua  bellissima radio a valvole, mi dava sempre dei biscotti buoni e, prima di andar via per tornare a Nuoro, mi regalava un bel biglietto da 500 lire.

Ci vollero parecchi mesi per scoprire, attraverso l’interessamento di una sorella di mamma, che quel certo Figliounico andava a chiedere soldi alla nonna a nome di mamma, e con tale assiduità che, alla fine, nonna ne fu stanca e se la prese con Maddalena, del tutto inconsapevole di quel “traffico”.

Nulla demotivava quel soggetto avido di denaro dal continuare ad attaccarsi al padre e alla madre come un vampiro; ritornò all’attacco.

Fu la volta delle continue visite serali sue e della degna consorte in casa, con azzardati e sfacciati tentativi di farsi cedere la casa di viale Repubblica con le scuse più assurde. Provarono in tutti i modi di convincerli di andare ad abitare in una casa per la quale avrebbero pagato loro l’affitto.. (sic..!), provarono persino a convincere mamma che stavano per prendere il potere i comunisti e quella casa era destinata a essere espropriata, provarono veramente di tutto e di più, sfidando ogni limite del buon senso e sforando nel ridicolo.  Finalmente ben salda nei suoi NO, mamma divenne il principale bersaglio del loro odio.

Raccontare degli aiuti economici che già babbo e mamma gli davano da sempre, richiederebbe un intero libro. Per ora soprassediamo…

Nonna morì senza aver potuto far pace con la figlia Maddalena. Lasciò alle figlie il ricavato della rendita e della vendita delle sugherete.

A mamma spettarono 18 milioni, e la prima cosa che pensò fu di farmi aggiustare tutti i denti,  già da tempo quasi totalmente deturpati  a causa delle carenze alimentari e della trascuratezza.

Ecco che, percepito il profumo del denaro, si ripresentò il Vampiro! avanzando le sue pretese convinse mamma di aver diritto quanto me di farsi curare a sue spese e, inoltre, che era necessaria la sua presenza per aiutarmi nel viaggio verso Bologna, dove mamma mi consigliò di andare perché,  a quel tempo, c’era un dentista diventato famoso per la rapidità nel lavoro e l’accuratezza delle protesi che metteva.

Diede nove milioni a lui e nove a me, dietro precisa promessa che, pagato il conto al dentista e le spese di albergo, ognuno le avrebbe restituito il resto rimanente.

In cuor mio speravo che stavolta, riempitegli le tasche di denaro, Figliounico trovasse un freno alle sue bramosie.

                                    VAMPIRISMO ESTREMO

No, fu una speranza del tutto vana.

Durante quei quattro giorni a Bologna, presi fin da subito le distanze da lui e misi in chiaro che doveva lasciarmi tranquillo e non cercarmi:  ognuno per conto suo.  Non rimase di certo da solo per questo;  fin dall’arrivo nell’albergo “Tre Poeti” si trovò “ottime” compagnie locali di suo gradimento. 

Già dalle prime ore di soggiorno capii  che, ancora una volta,  aveva tutta l’intenzione di divertirsi a spese della madre.

E dato lo “stile di vita” che si permise durante i giorni successivi, ebbi le conferme definitive che aridi di cuore si nasce e si muore.

 Alla quarta sera, vigilia della ripartenza verso casa e finito il lavoro del dentista,  mi chiese di dargli i soldi che mi erano rimasti, cercando di convincermi di averne avuto l’ordine da mamma dopo averla sentita al telefono. Non ci cascai. Dopo i suoi numerosi ma inutili tentativi di portarmi via il denaro, si infuriò e andò via dall’albergo senza pagarsi la camera, cosa che dovetti fare  io per evitare discussioni, mentre lui fuori imprecava e mi giurava vendetta.

Spese di più in - chiamiamole così -  specialità tipiche del centro di Bologna che per il dentista, ma spese qualcosina anche per un gentile romantico pensiero da regalare alla mogliettina: una sottile catenina d’oro con appesa una piccola lametta in oro.

Alla madre nemmeno una lira di resto!

Appena tornai a casa chiesi a mamma se era vero che si era sentita al telefono con Figliounico; naturalmente mi confermò di no. Le restituii i miei 6 milioni e mezzo di resto e le raccontai tutto quello che era successo, e di quanto avrebbe fatto meglio a non far sapere del suo gruzzoletto ereditato da nonna.

Mamma si infuriò veramente, per la prima volta, come una belva, memore anche degli altri tiri bassi avuti da quel figlio.  Lo chiamò a casa scoprendogli tutte le carte e urlandogli peste e corna. Soprattutto corna.

Invece di ritirarsi in buon ordine e farsi finalmente una vita “sua” senza danneggiarci, il buon “figlio unico” di Bruno volteggiò in quel di Marreri e, con la scusa di costruire qualcosa di utile per babbo, iniziò a occupare ampi spazi con mattoni e cemento. Nel frattempo iniziarono, inesorabili, ad aleggiare attorno alla figura di babbo le leggende che ancora oggi “ci tocca” sentire, che culminarono nel 1988 con l’articolo di Agosto di Selezione dal Reader’s  Digest dal titolo “Sardegna: l’uomo che si curò con la natura” e dal quale attingono ancora in continuazione i tanti “giornalisti” che, su richiesta, fanno ancor oggi articoletti qua e la prendendolo come spunto, come se fosse un pozzo di Verità Pura, senza mai essersi presi la briga di sentire se qualcuno di noi in famiglia, soprattutto la moglie, avesse da dire qualcosa in proposito. Ci sono tanti altri erboristi che fanno né più né meno quello che faceva quest’uomo, che leggeva ingredienti e dosi nei libri e li proponeva, senza inventare o scoprire niente di suo, senza alcun che di “miracoloso”. Anzi, potrei citare qualche eclatante caso di reazioni avverse anche piuttosto serie, ma mi astengo..

                            SELEZIONE DAL READER’S  INDIGEST

La “casetta sull’albero” divenne il primo eremo di Bruno. FALSO.

Nel periodo di quella casetta, se proprio avesse voluto dormire in campagna, aveva a disposizione la sua Simca 1301 familiare che poteva trasformarsi, tra ampio portabagagli e sedili posteriori reclinati, in un comodo lettone matrimoniale. Quella casetta sull’albero fu completata, alla fine, solo e unicamente per poter dare l’idea che potesse essere davvero servita come dormitorio.

La successiva casetta di legno fu il suo dormitorio per 4 anni. FALSO. Servì principalmente come ripostiglio per gli attrezzi da lavoro e qualche nottata fuori casa.

Basta chiedere ai condomini anziani che ancora abitano nella palazzina di viale Repubblica 3, chiedete loro se ricordano assenze di babbo durate addirittura anni. Vi risponderanno di NO.

Babbo mancava -e di tanto in tanto-  perché, dopo il lavoro in campagna e dopo i numerosi ospiti che vi si attardavano,  spesso trattenuti a cena, era troppo stanco per guidare fino a Nuoro. Non ci nascondeva che gli piaceva ricoprire quel ruolo di “eremita” che lo affascinava e gli faceva compiacimento nel sentire l’ammirazione se non addirittura l’adorazione di chi andava a trovarlo. Era una recita che gli piaceva e che veniva alimentata da chi lo assecondava senza alcun spirito critico e da quei parenti arrivati dalla penisola che, andando a trovarlo, lo vedevano come era dipinto ma non come era davvero.

Qualche vampiro già odorava altro abbondante sangue da succhiare.

A volte, letteralmente costretto a dover far credere agli ospiti che quello era un eremo, sgattaiolava appena questi se ne andavano  e tornava a casa anche all’una o più, per passare la notte assieme alla moglie. Sentivamo la porta aprirsi e lui, con vocina quasi implorante, chiedeva “Maddalè me ne dai ospitalità?”  Naturalmente la risposta era sì, tranne il no di qualche rara eccezione.

Si era costruito attorno un personaggio che gli sarebbe stato scomodo per tutto il resto della vita, ma che fu molto comodo per chi ne seppe approfittare.

L’aquila reale che curò per tre mesi.. FALSO,  altra assurdità: Graziano era fin da ragazzo appassionato di falconeria, e alcuni amici del Corpo Forestale, conoscendolo, gli affidarono il rapace, trovato legato in un ovile e incapace a volare. Lo portarono a Marreri perché c’era spazio per fargli una voliera adatta. Bruno prese anche quell’occasione al volo per farsene motivo di vanto e ammirazione, Graziano, dopo alcuni contrasti col padre che non perdeva occasione per fare la “primadonna” con quel rapace,  gli cedette il compito e, come fu già da noi previsto, finì male per l’innocente rapace, affidato alle “cure” di un uomo senza alcuna competenza in merito, che si limitava a dargli da mangiare e usarla per farsi fotografare. Dopo mesi di inutili esibizioni con quel povero rapace, Bruno fece arrivare una troupe del TG Regionale per liberare l’aquila, convinto di farne un ulteriore scoop utile ad alimentare la sua immagine pubblica: gli andò buca. L’aquila, restia a prendere un volo che non poteva fisicamente attuare, fu lanciata verso la vallata e si posò, inabile e più malata che mai, nelle fronde di un albero 40 metri più sotto. Finalmente fu ripresa dalla Forestale e affidata alle cure serie di un centro di recupero rapaci. La troupe del TG3 andò via delusa dopo un inutile viaggio da Cagliari  e senza alcun servizio da proporre in redazione. Nessun giornalista scrisse di questo clamoroso fallimento, non c’era nessuna lode da fare. L’articolo di Selezione recita: “Nel 1978, le cure prestate da Piredda a un’aquila reale diventarono una leggenda e gli valsero il soprannome di Eremita Buono.. .. Piredda la curò e nutrì per tre mesi, finché non fu rimessa.. .. Salvare l’aquila fu solo naturale disse Piredda”.   Salvare?

Si legge ancora che, prima di andare a fare l’ ”eremita”, i “suoi” sarebbero vissuti senza problemi, grazie anche alla pensione che Piredda aveva devoluto a loro beneficio quasi per intero..

BALLE, ancora una volta BALLE; ammesso che non ritirasse la sua pensione lui stesso, non abbiamo mai avuto idea di chi delegò per lui; a casa lasciava sempre meno soldi e mamma dovette far togliere il telefono per non avere più bollette da pagare. Si accumularono persino le quote condominiali, per pagare le quali dovemmo intervenire noi figli, escluso, ovviamente, Figliounico.

Selezione scrive ancora “Si sentiva talmente migliorato che dimezzò le medicine e poi le eliminò del tutto”: FALSO, non saltò mai le pillole cardiache di colore rosso che gli ritiravamo puntualmente nella farmacia Canargiu, allora la più vicina a casa; ne teneva sempre una scatola a Marreri e una a casa.

Ancora: “Gradualmente, Piredda cominciò a vedere qualche familiare e qualche amico”.. BALLE, non si privò MAI per più qualche ora o, al massimo qualche giorno, della presenza di familiari e amici!

La guarigione di Bruno Piredda fu spettacolare” si legge ancora. Di spettacolare c’è solo una cosa ed è tutta la montatura che quest’uomo si è lasciato creare attorno, fino a ritrovarsene in gabbia. Spettacolare è la faccia di bronzo di certi giornalisti ai quali furono dettate immane cazzate da trasformare in articolo, senza alcuna verifica che ci fossero corrispondenze reali.

     IL VIAGGIO DELL’ILLUSIONE E IL RITORNO DELLA DELUSIONE

Spettacolare è l’assenza di palle di tutti coloro che, ben sapendo le assurdità che venivano riportate, non hanno mai avuto il coraggio di apporre nemmeno un piccolo accenno di contrarietà, se non in ambiti ristretti e mai pubblicamente.

Dopo aver letto questo articolo di Selezione, una anziana donna del Sudafrica, ammalata di tumore e convinta di aver trovato un autentico Mago, fece enormi sacrifici per racimolare i denari necessari a raggiungere l’ ”eremo del buon vecchio saggio mago delle erbe e guaritore”. Non so quanti voli dovette affrontare quella povera donna, quanto le costò quel suo “viaggio della speranza” che si trasformò in “viaggio dell’ illusione”, Babbo, per una volta assenti giornalisti e testimoni scomodi, le disse la verità; “Mi dispiace molto, ma non posso fare niente per te, non sono mai riuscito nemmeno a guarire una psoriasi a mio figlio, figurati cosa posso fare per il tuo tumore”. Lei andò via distrutta, dopo aver versato tutte o quasi  le sue lacrime.

Ecco a cosa serve prestarsi acriticamente a certe forme di “giornalismo”, nemmeno ci si rende bene conto di quanti e quali danni possa creare, direttamente o meno, un articolo di giornale o di rivista nato su chiacchiere e fantasie.

Bruno non si perse certo d’animo dopo questo fatto penoso, continuò come sempre ad accogliere amici, giornalisti, ammiratori, parenti e adoratori che, attraverso la stampa e le chiacchiere, avevano di lui l’idea dell’uomo geniale da complimentare con sperticata ammirazione.

                        UN GENERATORE DI BORIA GRATUITA

Una delle attrazioni che Bruno fece in quel suo (..o nostro?) fazzoletto di terra, fu una grande ruota di legno disposta sulla riva del fiumiciattolo che al tempo scorreva lungo il confine a valle della campagna. La debole spinta dell’acqua la faceva ruotare, seppure molto lentamente, al ritmo di pochi giri al minuto. Le attaccò una puleggia con cinghia che andò a far passare sulla ruota di un vecchio alternatore di automobile. Io e Graziano lo aiutammo a costruire quel meccanismo, ma non riuscimmo a fargli capire che, dato il basso numero di giri, l’alternatore non avrebbe mai e poi mai potuto generare corrente. Nemmeno un po’! Tentammo di farlo ragionare: “Babbo, lo sai bene che un alternatore ha bisogno di fare almeno qualche centinaio di giri al minuto, per iniziare a fornire tensione e corrente necessaria a ricaricare la batteria dell’auto”. Fu inutile, voleva farlo e basta. Una volta pronto gli dimostrammo che, anche col fiumiciattolo in piena, non dava nessuna tensione. “Non importa, non importa niente” disse, e ci attaccò lo stesso dei lunghi fili elettrici fittizi.

Tempo poche ore, ed ecco che capimmo il perché di tanta inutile fatica: quell’alternatore attaccato alla ruota in stile Mulino Bianco non doveva servire a fornire corrente, ma ad alimentare il suo già spropositato EGO. Presa sottobraccio una signora che venne a trovarlo, la portò ad ammirare la sua nuova creazione, il “generatore di corrente gratuita!” - “Ooooh zio Brunooo che meravigliaaa!”.

Ecco collaudato un nuovo giocattolo di babbino - dissi a Graziano- il generatore di complimenti! Io e Graziano dovemmo allontanarci parecchio per non far sentire le risate che ci facemmo, dovemmo ormai cominciare a prendere atto che nostro padre stava trasformandosi in una macchietta ridicola.

                                 UN PRANZETTO ESTIVO

Una assolatissima domenica di agosto dei primi anni 80, quando Bruno sapeva che non ci sarebbero state visite a Marreri che potessero rivelare che tanto “eremo” non era, scese con mamma e gli ultimi due figli e invitò me e Graziano e relative famiglie a raggiungerli per pranzare tutti assieme.

Ci portammo appresso viveri, bibite e bottiglie d’acqua in abbondanza; babbo ci trattava con superiorità e decantava le doti e le virtù salutari della “sua” acqua. Questa sua acqua miracolosa proveniva da una lunga tubatura che aveva fatto arrivare fin sotto alla quercia delle Giovani Marmotte, come la chiamavo io. L’inizio di quella tubatura prendeva l’acqua dal fiumiciattolo più a monte, e la faceva cascare, ma sempre più flebilmente poiché ormai quel fiume si stava lentamente prosciugando, fino alla famosa “fontana di zio Bruno”. Era acqua fortemente inquinata dalle già numerose case dei vicini di campagna e i loro scarichi fognari e di vario genere. Cercammo di farglielo capire riempiendone un fiasco e mostrandogli gli ossiuri che ci si dimenavano dentro, ma del tutto inutilmente; non voleva rinunciare a quella sua favola. Chissà quante persone si lasciarono convincere a berla?

Preparammo un lauto pranzetto e ci sedemmo attorno al tavolo, babbo si avvicinò a una grande giara di terracotta nella quale teneva le olive a mollo e ne pescò qualche manciata, poi tolse dall’acqua in mezzo alle olive un topo morto che ci doveva essere caduto dentro; senza scomporsi più di tanto, sotto lo sguardo attonito di noi tutti e mamma che si coprì la bocca tentando di non ridere, si affacciò alla porta e lanciò il ratto giù, verso l’orticello. Tornò dentro e afferrò un’altra manciata di olive, le mise in un piattino e le posò sul tavolo come se non fosse accaduto niente. Cercammo di far finta di nulla anche noi, mangiammo e bevemmo allegramente -tutto meno le olive- e babbo ci raccontò di una signora che lo andò a trovare qualche giorno prima e alla quale, come d’abitudine ormai consolidata, facendogli vedere i suoi fiori le disse “I miei fiori impallidiscono, davanti alla sua bellezza!” e si fece due grosse risate descrivendo quanto fosse racchia. “Che poco ci vuole a far felice una donnina, anche se orribile” disse. Noi ridemmo meno, specialmente a mamma sembrò qualcosa di molto deplorevole. “I miei fiori impallidiscono davanti alla tua bellezza” fu una frase che Bruno fece sua da un fumetto di Topolino letto a casa e preso in prestito dai figli più piccoli, detta da Paperone coltivatore a non ricordo chi. Ritagliammo quella vignetta per ricordo e dovrei averla ancora tra le tante cose che conservo; la sentimmo ripetere a babbo tante di quelle volte da venirci a nausea.

Altra sua abitudine consolidata con le visitatrici era quella di strappare alcuni petali rossi dei suoi fiori e tentare di strofinarglieli sulle labbra… “Questo è un rossetto naturale...” diceva, e così testava - parole sue -  eventuali riluttanze delle donzelle a farsi toccare.

                                         LA TENIA E GLI UFO

Un altro ricordo ributtante riguarda un pomeriggio durante il quale Bruno macellò un cinghiale, sopra il pozzetto davanti alla casa, e ci lasciò cadere dentro una enorme,  lunghissima tenia. A occhio, era lunga circa 8 metri.

Quel pozzetto passava attraverso lo scarico del  water, posto all’interno del minuscolo bagno della casetta, e proseguiva in discesa per scaricare tutti i liquami nel terreno sottostante, dove coltivava lattughe, peperoni e altre verdure. Secondo la sua “filosofia”, era solo un modo per dare nutrimento alle piante, ce lo descriveva come “il suo concime”.

La tenia ovviamente finì, con tutte le sue proglottidi e relative uova, in mezzo a quella coltivazione.

Da quel giorno in poi ci guardammo bene dall’accettare una delle sue tanto decantate insalate; in compenso tante famigliole di suoi visitatori, tanti amici e persino ignari parenti, ne fecero man bassa. Spero per loro che gli sia andata sempre bene.

Una sera, prima che ritornasse in città, fece a me e mia moglie una rivelazione; con voce emozionata ci disse che, la sera prima, erano andati a trovarlo gli extraterrestri: “Calate da poco le tenebre, vidi tre enormi cerchi luminosi che si muovevano in cielo, erano sicuramente extraterrestri che volevano comunicare con me..” Aveva gli occhi accesi della ormai ben conosciuta luce dell’ego e della presunzione, non gli bastavano più le lodi degli umani, nella sua fantasia pretendeva di far sbavare di ammirazione anche gli esseri degli altri mondi.

“Mi dispiace deluderti babbo” gli dissi, “Le luci che hai visto le abbiamo visti tutti ieri notte in città, e altro non erano che le potenti celle fotovoltaiche di una discoteca alla periferia di Nuoro, che proiettano fasci di luce così potenti da formare, appunto, dischi luminosi nel cielo”. La luce nei suoi occhi si spense, aggrottò le sopracciglia e ci lasciò andar via con una fredda buonanotte.

Potevo forse lasciarlo ancora sognare? Potevo lasciare che, ancora una volta, si sentisse al centro dell’universo, anche se era un uomo adulto e per giunta considerato saggio e intelligente?

NO, non avevo nessun favore da rendergli, non mi andava di dargli sempre ragione fino a farne uno scemo, mi aveva fatto passare una intera infanzia senza sogni e senza speranze, benché ne avessi diritto quanto e più di un ultrasettantenne.

                                 GRANDE NATURALISTA?

Per alimentare, agli occhi dei suoi visitatori, il suo presunto sconfinato amore per la natura e gli animali -bada bene, dopo aver fatto il cacciatore per tutta la vita- costruì un paio di casettine di legno e le dispose su dei pali nel terreno al di sopra della sua casetta. Uno sprovveduto assiolo ci fece il nido e mal gliene incolse: durante una notte d’estate passata a dormire li sotto, Bruno, infastidito dal suo richiamo, caricò la doppietta e sparò al nido forando la casettina e impallinando i genitori assioli e la nidiata che avevano dentro. Alla richiesta di spiegazioni da parte nostra, si limitò a dire che non lo lasciavano dormire. Io, da sempre appassionato di rapaci notturni, non potei trattenermi dal dirgli ciò che pensavo: “Andavi a caccia e portavi panieri pieni di beccacce, di pernici,  merli e tordi, tutte cose che poi ti sei lamentato di non vedere più volare numerose come un tempo. Non hai mai capito, nella tua infinita saggezza, che non hai ucciso solo quelli che impallinavi, ma è stato come ucciderne altrettanti ogni giorno della tua vita, e il perché è facilissimo da capire: assieme a ognuno di quegli uccelli, hai ucciso tutta la sua prole, la prole della sua prole e così via. Hai privato migliaia di pernici, beccacce e tutto il resto, ora persino di assioli, di fare la loro utile vita. Sei un coglione”.

Rimase perplesso come lo vidi ben poche volte in vita sua, e piano mi disse “Sai che a questo non ci avevo mai pensato?”.

                                ...E LA VITA CONTINUA

Ormai consolidatasi la fama di grande erborista, a Bruno vennero affidate alcune ore di insegnamento di botanica presso un  istituto scolastico cittadino, ed ecco che un altro evento si apprestava ad affacciarsi prepotentemente nelle nostre vite!

L’ arzillo vecchietto si infatuò di una sua alunna che, quanto a età, avrebbe potuto essergli nipote, ma quanto a esperienze di altro genere aveva, evidentemente, qualcosa da insegnarli. Bruno riprese ad assentarsi da casa per diversi giorni e, quando andavamo a trovarlo, lo trovavamo assieme a lei e ci diceva che era tanto interessata allo studio delle piante che preferiva vivere l’esperienza botanica direttamente sul campo, direttamente dal “suo Maestro”. In quel periodo infastidito dalle visite, geloso del suo nuovo giocattolo,  il babbo iniziò precipitosamente la sua decadenza morale e intellettiva. Era talmente abituato a ricevere lodi e approvazioni, che tardò a rendersi conto di quanto fosse ridicolo in quel suo nuovo ruolo di “Conquistador”. Probabilmente pensava, dall’alto della sua torre costruita in cartone e presunzione, che avrebbe attinto nuove lodi e nuovi complimenti. Ma così non fu. Tutti, amici compresi, iniziarono a diradare le visite a quell’uomo ormai giunto ai limiti della ridicolaggine; mamma, dopo un primo periodo di amaro stupore, se ne fece una ragione e, senza fare scandali, assisteva muta agli eventi. Anzi, diceva a me e a Graziano di scendere ancor più spesso per controllarlo, per dargli attenzione e vedere che non avesse bisogno di qualcosa. Ma quell’uomo era davvero “cotto” a puntino, a tal punto che, dopo che la sua nuova “fiamma” osò gettare uno sguardo -giudicato da Bruno troppo malizioso- su Graziano, gli fece una ridicola scenata di gelosia. Come era ovvio fin dall’inizio di quella Love Story, la pulzella si stancò di prestare le sue attenzioni morbose al vecchietto e lo mollò, per tornare alla ricerca di nuove emozionanti avventure come era d’abitudine. Bruno non si voleva arrendere, una mattina ci chiamò per dargli una mano a rimettere in sesto la sua Peugeot bianca che non andava bene e, una volta messa in moto, partì a razzo verso il paese dove viveva quella ragazza. Ancora una volta, non riuscimmo a farlo ragionare in alcun modo, era come impazzito, ci disse di farci i cazzi nostri, che lui non era uomo da lasciarsi mollare così. Tornò il tardo pomeriggio più incazzato che mai, letteralmente furioso, e fu comunque un sollievo vederlo ancora vivo dopo quei tanti chilometri di  pessima strada percorsi a chissà quale velocità e con che stato d’animo. Venimmo a sapere che diede un penoso spettacolo per strada davanti all’abitazione di quella “signorina”, dovettero scendere i fratelli per mandarlo via. Rischiò seriamente di essere menato per bene.

Non volle ancora arrendersi all’evidenza e tramò vendetta contro quella donnetta che tanto lo aveva illuso; prese da casa la sua vecchia macchina da scrivere, tornò in campagna e iniziò il racconto di quella sua storia, col titolo “E la vita continua...”. Era il racconto, oltremodo scabroso, di quello che accadeva tra lui e quella sua alunna, con riferimenti precisi e ben dettagliati dei molti aspetti della loro relazione. In un passo descriveva, tanto per avere una piccola idea del tenore narrativo, “il fetore emesso dalle sue perdite vaginali”. E mi fermo qui perché, a questo punto, si capisce bene che ci trovavamo davanti a un uomo ormai incapace di intendere e di volere. Lesse quel racconto quasi a chiunque andasse a trovarlo, e pregò alcuni dei suoi tanti amici giornalisti di pubblicarglielo, a titolo gratuito e anche a episodi, sui quotidiani locali o in qualsiasi altro modo. Pensava che così facendo si sarebbe vendicato, che avrebbe distrutto quella donna.

Nessuno ebbe il coraggio (o il permesso) di pubblicarglielo;  per lui fu una ulteriore dura sconfitta.

                                           LA DECADENZA

Sempre più depresso, trascurato e isolato da nuovi e vecchi amici, trovò sempre Maddalena ad accoglierlo a casa, a tentare di distrarlo e farlo sentire a casa sua. Ma babbo aveva sempre un certo non so ché che lo turbava, sentiva la necessità di stare più possibile a Marreri perché, diceva, devo preparare il posto per Figliounico, gli ho promesso di annaffiare, di controllare le sue cose, gli ho promesso che mi avrebbe trovato sempre qui, gli ho promesso questo.. gli ho promesso quello.. Gli aveva promesso tutto.

E lì a Montricos Nieddos lo trovammo, in un rovente pomeriggio estivo, ridotto pelle e ossa. Si affacciò alla porta di ferro tinto di verde con addosso solo un pannolone, con gli occhi pieni di sofferenza e appresso 2 gatti, ridotti anch’essi con le costoline che premevano su uno strato sottile di pelle, non riuscivano più neppure a miagolare, non c’era nulla da mangiare neanche per loro. Moriranno di stenti quello stesso giorno.

La sua “acqua fantastica e leggerissima” come la chiamava lui, aveva già da tempo smesso di scendere, il fiumiciattolo era ormai completamente asciutto. All’interno della casa non aveva più niente che fosse commestibile, il frigo era desolatamente vuoto. Nessun barattolo, nessuna lattina, nessuna forma di pane di qualsiasi genere. Nulla. Nemmeno le “olive in toposalamoia”.

Anzi, nel congelatore aveva un merlo spiumato, solo un misero merlo spiumato che, disse, sarebbe stato la sua cena. La sua auto era ridotta a un catorcio, probabilmente aveva il serbatoio vuoto al pari del frigorifero. “Non mi hanno portato più niente, sono tutti in vacanza” ci disse. “Scusa babbo, ma la tua pensione che fine fa? Chi doveva portarti qualcosa? Si può finalmente sapere cosa ti stanno combinando? “

Assurdo, era tutto così assurdo, non si riusciva a convincerlo di raccontarci le cose, aveva una paura innaturale di qualcosa o qualcuno e sembrava, persino nei movimenti, un vecchio burattino di legno, bisbigliò cose che non capivamo e, forse, nemmeno volevamo credere. Pensammo che fosse ormai definitivamente fuori di sé.

Non riuscimmo a convincerlo di accompagnarlo a Nuoro, ma -era il minimo da farsi- risalii verso la città per portargli dei viveri. Lo lasciai così, quella sera estiva, col pianto nel cuore. Non potevo fare altro, doveva restare lì a controllare chissà quali inquieti spiriti della sua mente e della sua (nostra?) maledetta campagna.

                                                  PLAGIATO

Di lì a breve,  lo riportò a casa suo fratello Italo. Era in condizioni disumane, voleva solo dormire e, con una flebilissima voce, disse “Finalmente, finalmente sono a casa, Maddalena”.

Lei rispose “E cosa aspettavi Bruno, non ti obbligava nessuno a stare via da qui, questa è casa tua”.  Zio Italo, con quel suo garbo gentile ma deciso da antico barbaricino che tanto lo contraddistingueva, guardò tutti noi con l’espressione di chi chiede un attimo di attenzione e, rivolto a mamma, le disse “Maddalè, ascoltami, una cosa dovete fare adesso, possibilmente subito, anzi adesso: chiamate i carabinieri e fate una denunzia, che quest’uomo è stato plagiato, ricattato e ridotto alla fame. Non lasciate passare questa cosa, Maddalè mi raccomando..”.

Ma Maddalena non volle chiamare i carabinieri. “Non voglio scandali” disse. Non diede retta a quelle parole di zio che, noialtri suoi nipoti, prendemmo in seria considerazione. Ma mamma continuava a credere che suo marito non avesse fatto altro che ciò che voleva fare, forse memore del suo ormai noto “IO SONO BRUNO PIREDDA.....ECC. ECC..” Non volle che scomodassimo le forze dell’ordine e alla fine desistemmo dal farlo, nonostante le accorate raccomandazioni di zio. Fu comunque un grosso errore.

Ridotto troppo male per essere curato e accudito in casa, babbo fu ricoverato in ospedale; aveva diversi tumori, i reni a pezzi, un quadro clinico spaventoso. 

Andammo a trovarlo io mamma e Graziano, attendemmo che uscissero certi parenti sgraditi e ci avvicinammo al suo lettino. Graziano gli chiese cosa potevamo fare per la sua (...o nostra?) campagna. Ci disse, lucidamente, che aveva fatto una donazione di metà del terreno (2,5 ettari) al suo caro Figliounico, e che noi altri 4 avremmo dovuto accontentarci della rimanente metà perché, ci spiegò sibillinamente, non aveva potuto fare diversamente, anche se lo avrebbe voluto. E ci chiese, di cuore, di fare in modo che, per motivo di una suddivisione così “sbilanciata”, non si creassero attriti o, peggio, faide tra vicini di terreno. “Perdonatemi e non chiedetemi di dirvi più di questo, non posso dirvi niente altro, siatene contenti comunque perché quella metà ve la ho salvata io”.

Queste furono, anche nei giorni successivi, le sue parole, ripetute con insistenza. Ma qualcuno già vantava l’intera proprietà di quel buco di terra.

                                             ...NOSTRA?

Andai dal notaio Serra per prendere copia di tutti gli atti riguardanti Bruno Piredda e Marreri, e facemmo una scoperta molto interessante: l’acquisto iniziale dei 5 ettari da parte di babbo, l’atto di donazione dei 2,5 ettari al Figliounico e, dulcis in fundo, un secondo atto di vendita farlocco, con la firma palesemente FALSA di babbo. La sua particolarissima firma è sempre stata una e quella sola, figurarsi in un atto ufficiale. Babbo firmava così: brunpiredda , tutto minuscolo, attaccando nome e cognome e facendo della o una p. Non avrebbe mai firmato con quel banale Bruno Piredda a calce di un atto importante, di quell’atto fasullo ottenuto chissà come, anche se qualche idea in proposito ci fu suggerita, anzi rivelata.

Tornammo in visita da babbo, ormai moribondo, e gli chiedemmo delucidazioni: “No, non è possibile, io non ho firmato proprio niente, quella metà è vostra, è VOSTRA, credetemi.. Io non ho firmato niente del genere, MAI”.

Non potevamo insistere, era ormai un lumicino, e vederlo agitarsi per quella questione ci straziò il cuore. Lo lasciammo così, con i suoi misteri, con le cose mai dette, con tante cose in sospeso.

Ci riunimmo in famiglia con mamma e noi 4 fratelli non-unici. Avremmo potuto e anzi dovuto andare da un avvocato ma mamma, come al suo solito, odiava le prese di posizione forti e decise. Sapeva bene che un reato così eclatante avrebbe portato a qualche arresto e ad acuire attriti già difficilmente sanabili.

Ci meditò sopra e ci disse “Cosa ce ne facciamo di un pezzetto di terra scoscesa, lontana da casa, per giunta con dirimpettaia gente come quella? Con noi, che siamo sempre stati troppo buoni, quei culi di cane hanno sempre alzato la coda. Ma figli miei fregatevene, tanto quei Montricos Nieddos  prima o poi restituiranno loro tutti quei frutti che hanno piantato. Ho versato tante lacrime a causa di quel posto maledetto, che non potrà che portare male a chiunque se ne sia approfittato. Farina del Diavolo che finirà in crusca.” 

Crusca che odorerà sempre più di merda.

Parlammo di quel marito e padre malato, affetto soprattutto da protagonismo in forma grave, tradito da chi ne fece e ne fa ancora un mito.

Maddalena Saba morì, accudita dai 4 figli, relative mogli e relativi nipotini, quasi tre anni dopo il suo sempre amato Bruno. “Nonostante il male che ci ha fatto, mi manca” diceva sempre.

Una mattina d’agosto del 97, serenamente distesa sul suo letto a leggere il giornale, mamma Maddalena chiamò i sue due figli più piccoli e un nipote, diede ad ognuno 10.000 lire e li mandò a “Comprare le cose buone, che ci facciamo un bel pranzetto tutti insieme oggi”. Uno comprò delle fettine, l’altro frutta e verdura, l’altro ancora spaghetti e bibite.

Al ritorno a casa la trovarono col giornale aperto tra le mani, pensavano che si fosse addormentata leggendo.  Sì, si era addormentata leggendo, ma per sempre; il suo cuore si era fermato, il suo viso era rilassato, senza alcuna smorfia, senza alcuna espressione di dolore. Era la fine che lei stessa avrebbe voluto fare, meritava di smettere di soffrire così, senza dolore. E’ la fine che si augura solo alle persone migliori.

                                          VAMPIRI MAI SAZI

Nella tomba della famiglia Piredda mamma non fu ben accetta; qualcuno e qualcuna, tra cui le sue cognate, avevano remore in proposito. “Non era una Piredda” fu la sentenza di qualcuno. Stranamente però, di signore “non Piredda” ne verranno accolte eccome, in quella tomba,  spero ci sia ancora spazio per eventuali altre “non Piredda”, ovviamente per il loro bene; che possano glorificarsi di essere sepolte in quel luogo tanto blasonato. 

Nella opinione pubblica doveva rimanere viva la credenza, anche questa del tutto inventata ad arte, che babbo e mamma erano separati o addirittura divorziati.

Nel corso della mia vita ho dovuto spesso contraddire le molte persone che erano del tutto convinte di una loro separazione! E con quale convinzione; trovavo persino umiliante dover insistere su cose che, ovviamente, dovevo sapere meglio di loro.

Non ci scomponemmo più di tanto, anzi, comprammo un loculo tutto per lei in una parete assolata che lei avrebbe sicuramente approvato, innamorata com’era della luce solare, e lasciammo che la tomba di quei Piredda si riempisse di quei Piredda e affini.

Maddalena Saba era di un altro impasto, di un altro forno, era un buon pane da non mischiare con certi fermenti. Non sentiva il bisogno ossessivo di cercare araldiche nobili origini e non si vantò mai di niente, era Nobile nell’animo e basta. Pensava, come lo penso io da sempre e per sempre, che vanagloriarsi di eventuali origini “nobili” abbia un valore pari a zero. Qualcuno evidentemente la pensa diversamente e ama glorificarsi di qualcosa che, tra l’altro, può essere solo frutto di personali interpretazioni non prive di “acrobazie” storico-anagrafiche. Ma anche se fosse vero? Dovremmo forse impressionarci, pensare che “nobil discendenza” abbia una qualche valenza  pratica che ci eleva al di sopra degli altri?  ….Ma vaffanculo!

Nonostante tutto e tutti, noi sopravvissuti cercammo di non creare situazioni spiacevoli. Un giorno, Figliounico mi fermò per strada e mi chiese di ascoltarlo; ci sedemmo a prendere un caffè e mi disse che aveva un tumore e anche un grande timore. Credeva che Graziano avrebbe potuto far del male alla sua famiglia e non sopportava di sentirsi morire con quel peso. Mi chiese di perdonarlo per il male che mi aveva procurato e, se potevo, di fare da tramite  e fargli sapere se poteva permettersi di stare tranquillo. Gli feci questo favore, ancora una volta illudendomi che qualcosa in lui fosse cambiato in meglio. Ma una sera che mi chiese di accompagnarlo al mare per farci una pescata, capii dai suoi discorsi che il detto del lupo che perde il pelo ma non il vizio era ancora maledettamente attuale. Preferisco sorvolare sulla natura delle sue dissertazioni.

Avrei potuto rendergli pan per focaccia riguardo ciò che fece nell’agosto del 1980, quando mi trovai in ospedale in fin di vita dopo un terribile shock anafilattico da reazioni allergiche molto potenti, sempre a causa di quella antica psoriasi che, in quel periodo, mi riaffiorò con rabbia e soprattutto nella schiena, là dove “Che bravoo ziooo Brunoooo” aveva sperimentato i suoi medicinali. La sera che i medici mi dichiararono destinato a morire entro la nottata, dopo il cerimoniale di una suora e un prete per la cosiddetta estrema unzione, vidi entrare Figliounico che mi si avvicinò per bisbigliarmi all’orecchio queste parole: “Hai visto Marcello, stai crepando, adesso me le paghi tutte, specialmente quello che mi hai fatto a Bologna, addio bastardo, vai all’inferno.” E se ne andò incontro alla mogliettina che lo attendeva sulla porta.

Non risposi nemmeno, avevo la pressione a zero e la temperatura a 42, ma una lucida e incredibile certezza: che non me ne sarei andato. Non gli avrei dato quella soddisfazione.

E così fu.

No, avrei potuto ma non gli resi pan per focaccia.

Non ho autorità per mandare nessuno all’inferno, questo è un compito che spetta ad altri, a Ragionieri che sanno fare bene i conti e non tralasciano nulla, poco propensi a lasciarsi affascinare da facili miti o a farsi corrompere da denari o donnette senza alcuna morale.

Ma adesso basta, sinceramente, non sopporto più le favole, le enormi falsità che ancora circolano su un uomo che non è mai stato quello che voleva (e che altri volevano) far apparire. Niente da dire sulle grotte, alle quali ha dedicato molto della sua vita sottraendolo a tutti noi, merito al merito, ha saputo godersi fino in fondo le “sue” grotte.

La vera, unica pioniera dell’erboristeria, nella nostra famiglia, è stata Maddalena Saba.

La vera, autentica “vecchia saggia” è stata lei, e lei sola.

Spero che, tra coloro che sanno queste verità, ci sia qualche coscienzioso che non abbia più remore per esternare ciò che ha realmente visto e sentito, che non tema a contraddire i soliti luoghi comuni che certi “giornalisti piccoli piccoli” hanno ormai preso a cliché, che si smetta di divinizzare ciò che fu tutt’altro che divino. Spero che certe gentili parenti, che per decenni hanno evitato Maddalena per rintronarsi ascoltando sempre e solo il solito rintocco della solita campana fino a rintronarsi il cervelletto,  la smettano di starnazzare “Zioo Brunoooo che bravoooo che buonooo, che grande uomooo”. Peccato che non lo abbiate avuto voi come padre o come marito, peccato che non abbiate mai voluto approfondire certi argomenti, che abbiate seguito ciecamente il pifferaio che suonava più forte. Capisco il vostro punto di vista, come parenti lontane che vedevano uno zio “adorabile” per qualche giornata estiva. State tranquille, la soluzione c’è e consiste nel continuare a fare come avete sempre fatto.  In fondo, credere alle favole non è un reato, e qualche seratina ad ammirar le stelle, per voi in Sardegna è sempre garantita.

Provo un notevole disgusto quando mi capita di vedervi in qualche modo “impegnate nel femminismo” dopo aver passato la vita a disprezzare e gettar disprezzo su quella grande donna che fu vostra zia. Non l’avete mai meritata.

 

Se ho detto qualcosa che non corrisponde a Verità, che mi si secchi la lingua.

Altrimenti, che gli si secchi a chi continua a dire falsità.

 Addio Maddalena, che il tuo volto sia sempre sorridente al sole.

Amen.

 

    Marcello Gabriele Piredda

 

 


 



LA STORIA CONTINUA

       Quel piccolo cortile della nostra casa, che occupavamo benché fosse una proprietà di tutti gli eredi di nonno Pietro,  a me pareva enorme e ci trovavano posto molte piante, compresi alcuni alberi: un olivo, un melo, un nespolo, un grande alloro che spuntava al di sopra dei muri che ci tenevano al di fuori di sguardi indiscreti, un sambuco, una vite rampicante che formava un largo pergolato, e una grande edera che si arrampicava sulla parete a ridosso dell'ulivo e offriva un ottimo riparo per i passeri che, all’imbrunire, si infilavano sotto le foglie per passare la notte al riparo.  Le ortensie, i gerani, la menta e tante altre piante erano curate da Maddalena e io mi offrivo volentieri alle operazioni di annaffiatura quotidiana.  Nei primissimi anni cicciottello, divenni in seguito, progressivamente, sottile come un fuscello e seriamente denutrito, e  venivo spesso nominato come "Marcellino pane vino e pelle e ossa".

                                                   GIOCHI E VELENI 

                                                                      A quei tempi tutt'altro che apprensiva, mia madre mi lasciava ore e ore totalmente libero di giocare nel cortile,  anche se non credo fosse del tutto ignara dei rischi legati alla presenza, nel magazzino adiacente, di una notevole quantità di arnesi infernali: polveri da sparo conservate in vari barattoli, due fucili da caccia con relative cartucce, bottiglioni contenenti acidi e una gran varietà di  veleni , come il grande sacco colmo di DDT che babbo teneva fin dal 1950, anno in cui terminò il mandato presso l’Ente per la disinfestazione dalla malarica zanzara anofele.   Un altro sacco conteneva chili di pietre di carburo, usate per caricare le lampade con le quali si intrufolava negli anfratti e nelle grotte.  La casa era anche la prima sede del  sodalizio di grottaroli e quindi, buttati alla rinfusa nell’andito, vi erano spesso montagne di tute sporche che Maddalena avrebbe lavato, caschi, lampade, scalette avvolgibili in cavo di acciaio. Un altro stanzone in quel piano terra (che in realtà era al di sotto del piano stradale di circa un metro  e, perciò,  ci si scendeva attraverso una scalinata di granito,  era riservato da una parte alla catasta di legna da ardere per il caminetto, unica fonte di calore della casa, e dal lato opposto a una notevole quantità di libri di vario genere, dai quali pescavo ogni giorno qualcosa da leggere. Adiacente, vi era una ulteriore grande stanza  riservata ad attrezzi di vario genere, un tavolone di legno con una grossa morsa, decine di barattoli di vernici e mille altre cose buttate alla rinfusa. Un’ultima stanza in fondo a quell’andito era la cameretta di Angelo il figliounico che,  in realtà,  veniva a casa solo in rarissime occasioni. Probabilmente si voleva del tutto indipendente fin da ragazzo, insofferente verso i due fratelli che gli toglievano il primato di figlio unico, come rivelatomi da un foglio che trovai scritto di suo pugno nel quale si lamentava delle attenzioni che ci venivano rivolte, a suo dire discriminanti nei suoi confronti.  Le sue rare apparizioni sfociavano quasi sempre in richieste di denaro e, inevitabilmente, finivano col generare grossi litigi e malumori familiari, specialmente tra Bruno e Maddalena.  La sua forte inimicizia con Graziano, che si diceva nata il giorno che quest’ultimo ne scoprì un segreto inconfessabile del quale  trovo saggio tacere poiché non ne fui testimone diretto, e del quale venni a conoscenza solo molti anni dopo,  era al tempo per me incomprensibile, ma sentivo mamma dire spesso che era un bene tenerli lontani l’uno dall’altro;  questo mi bastava e mi doveva bastare, dato che le domande non erano mai ben accette in famiglia, specialmente se a farle era un bambino.   Quella piccola stanza conteneva solo un lettino, qualche sedia e una antica cassapanca di legno intagliato a mano, tanto grande da poter contenere al suo interno una persona adulta sdraiata, e la si poteva richiudere al di sopra col suo  massiccio coperchio ligneo, normalmente tenuto aperto da una stecca basculante che si imperniava in una tacca del coperchio stesso per reggerne il notevole peso. 

                                                                     GRAZIANO IL CHIRURGO     

Dato che quella camera quasi mai era occupata da Angelo, veniva spesso sfruttata da Graziano per le più svariate attività; proprio sopra la cassa antica lo vidi impegnato, un pomeriggio, a far qualcosa di impegnativo mentre stava chino sotto la luce di una potente lampada. Naturalmente mi ci avvicinai incuriosito e, incredulo e anche impaurito, vidi quel qualcosa di raccapricciante che mai potrei dimenticare: stesi e tenuti fermi da strisce di nastro adesivo c’erano, uno a fianco all’altro, un passerotto e un topolino che invano si agitavano nel tentativo di liberarsi. Graziano, che teneva tra le dita una lametta da barba, praticò un’apertura nei loro petti e, in un marasma di sangue che zampillava, tolse i cuoricini dai due sfortunati animaletti. Naturalmente - e per fortuna- sia il topo che il passero smisero di vivere e soffrire, mentre Graziano non la prese bene perché il suo intervento chirurgico non riuscì. Cosa voleva fare lo disse lui stesso non tanto rivolto a me quanto, invece,  a se stesso; scambiare i loro cuori, insomma mettere il cuore del topo al passero e viceversa. Che Graziano non fosse del tutto a posto di testa ne eravamo già consapevoli, e d’altronde gli fu certificato quando lo riformarono dal servizio militare a causa di evidenti problemi mentali, manifestati anche da reazioni violente.                                                                                                                                                                     Davanti alla “nostra” casa c’era una stradina di ciottoli di pietra che proseguiva, da un lato, verso il basso, formando quindi una lunga discesa che, avanzando, proseguiva con una salita.   Assurda beffa del destino volle che fossimo considerati benestanti, e solo perché tutti ricordavano il padre di Bruno, Pietro, un tempo proprietario di enormi territori della nostra provincia e di case come quella che abitavamo, allora considerata signorile ma, negli anni 60, ormai ridotta a poco più che un vecchio rudere. Le pareti gonfie di umidità, l'impianto elettrico che scorreva sopra i muri, attraverso fili di rame intrecciati e malamente isolati da uno strato di tessuto, diventato marrone dal tempo e dalla fuliggine, dal fumo delle sigarette di Maddalena e della pipa di Bruno, e in vari punti col conduttore ormai scoperto e, quindi,  ad alto rischio di corto circuiti e scosse.  Anche i vecchi interruttori in bakelite nera erano volanti e,  durante le forti piogge, quando dal tetto la cui armatura era di canne penetrava l'acqua, avvenivano fenomeni di dispersione e scariche che lasciavano macchie nere nei muri. Forse Tesla avrebbe gradito vivere in una casa del genere e trarre ispirazione per la sua creazione di fulmini artificiali, io imparai le prime rudimentali regole dell’elettricità attraverso esperienze dirette, beccandomi più di una scossa.  Le tegole sul tetto, maculate di verde muschio, erano già tanto vecchie che si rompevano con facilità; quando ne cadeva qualcuna le paragonavo alle tavole di argilla nelle quali i Sumeri imprimevano i loro caratteri cuneiformi.  In origine del tutto sprovvista di una stanza da bagno, ci fu costruito un soppalco di legno sopra la porta d'ingresso, simile a una piccionaia, nel quale si accedeva attraverso una malferma e scricchiolante scala di legno. Una volta giunti lassù bisognava entrarci col capo chino e persino rimanerci, tanto era basso il soffitto e per giunta spiovente, e altro non vi era che un vecchio cesso, così mal ridotto che non avrebbe sfigurato in una discarica, e un treppiede di ferro che reggeva una bacinella di metallo laccato, posta sotto a un rubinetto dal quale non poteva che uscire  acqua rigorosamente fredda. Sempre che i tubi, che passavano anch’essi all’esterno delle mura, non gelassero, come spesso accadeva durante le peggiori giornate invernali.  Un grosso chiodo infilzato nel muro di fianco al cesso serviva da portarotolo, ma non nel senso che si intende oggi; i rotoli di carta igienica ci furono del tutto sconosciuti per diverso tempo e, per pulirci, usavamo strisce di carta di giornale infilzate appunto nel chiodo. Trovare un giornale  significava ricavarne una riserva di “fogli da culo” come li definiva Graziano, ma riciclavamo anche quei fogli -sempre ben intrisi di caratteri di stampa al piombo- che i negozianti usavano per avvolgere la frutta, il pesce, e persino la carne. Nel cortile c'era un'antica vasca di granito nella quale Maddalena lavava  vestiti, tute e  lenzuola; mentre passava e ripassava un grosso sapone di Marsiglia  sui capi da lavare, sotto l’acqua gelida, se era di buon umore canticchiava, altrimenti malediceva la vita e parlava a se stessa nel suo bel dialetto logudorese, del quale poco capivo, ma  le mani livide, e specialmente le eventuali lacrime che le scorrevano sulle guance, parlavano una lingua universale.   Passati i brutti momenti, quando capitava che qualche sua amica veniva a trovarla o quando usciva e ne incontrava, era sempre sorridente e curata,  e ben se ne guardava dal lamentarsi. D’altronde, dava a se stessa la colpa di aver creduto a un uomo che - col tempo è sempre stato più evidente- la aveva sposata solo per avere una serva e, al tempo stesso, qualcuna che gli sfornasse dei figli, nel tradizionale rispetto di quei luoghi comuni che imponevano usi e costumi che rientrassero nella cosiddetta "normalità" di un uomo, altrimenti considerato impotente o chissà che. Inoltre, Maddalena credeva nella filosofia del "non lamentarsi per non dare soddisfazioni a certa gente" e non aveva certo tutti i torti, specialmente riportandoci a quei tempi e a quell’ambiente composto, anche, da  persone tanto pettegole e maligne da potersi paragonare alle vipere. Insomma, un principio che è ancora valido, in molti casi, anche ai giorni attuali.  

                                                                 UN NONNO RICCHISSIMO                                                                                                                                                                                           Le persone anziane che conobbero quel mio facoltoso nonno, un tempo padrone della casa, si dividevano in due categorie; una era quella di coloro che lo esaltavano con ammirazione e invidia, descrivendolo come un grande e generoso uomo,  valido cacciatore e non solo di cinghiali, ma anche -anzi soprattutto- di giovani donzelle; la seconda categoria apparteneva, invece, a quelli che erano stati  vittime delle prepotenze di quello che definivano un despota e, quando lo si nominava, facevano  gesti scaramantici e di disprezzo, mimando l’atto di sputargli in faccia. Tra questi ultimi c'erano anche coloro che assistettero impotenti a uno dei divertimenti preferiti dai figli di quel "prinzipale", quando coi loro eleganti vestitini alla marinara uscivano di casa e facevano rotolare giù nella stradina, divertiti, alcune forme di formaggio, noncuranti dei poveri del vicinato che stavano a guardare. Pietro commerciava il formaggio e il carbone persino con l'America, trasportando grossi carichi su carrozze a cavallo che, periodicamente, viaggiavano verso i porti per farne imbarcare il contenuto. Uno dei punti di maggior carico delle sue merci era situato nella vallata di Lanaitto, nei monti di Oliena (paese a circa 14 chilometri da Nuoro) e, proprio perché vi sostavano i carri, quel punto fu chiamato "Sa sedda 'e sos carros", appunto "punto di sosta dei carri". A Bruno, che spesso raggiungeva il padre cavalcando da Nuoro fino a quella splendida vallata, non sfuggì la presenza delle interessanti strutture di epoca antica che spuntavano tra l’erba, rivelatrici di antichi villaggi (tra questi c’era anche Tiscali), e alcune altrettanto invitanti grotte nelle quali non vedeva l’ora di infilarsi. Ci tornerà con calma molto più avanti quando, non più al centro del commercio della legna e del carbone, la zona tornò nell'oblio, frequentata solo da qualche pastore. Le sue prime esplorazioni riguardarono alcune grotte della zona, finché l’attrazione verso quelle rovine non prese il sopravvento. Erano i primi anni 60 e, dopo i primi scavi, rendendosi conto di quanto quel villaggio fosse grande e complesso, arrivò al punto di costruire  un tratto di  binario metallico lungo diversi metri, ideato per poter svuotare più rapidamente dai grossi massi e dalla terra il villaggio, scaricandoli nella valle sottostante tramite un capiente carrello su ruote dove lui, qualche complice e Figliounico caricavano anche grandi quantità di residui di bronzo, rivelatori dell’esistenza in loco di una fonderia e, in seguito, anche di un importante sito di produzione e lavorazione di preziosi reperti. Qualche volta ci portò anche me e mamma, ma prima, e anche durante e dopo,  mi "raccomandava", con le minacce più convincenti, di non dire assolutamente mai nulla di ciò a cui assistevo in quelle giornate.  Per me, nonostante le intimidazioni, quelle ore sono state molto divertenti, amavo stare a contatto con la natura selvaggia e integra di quei posti. Vederli scaricare tonnellate di materiale giù a valle, per poi scavare con foga e recuperare bronzetti e tanto altro, non mi dava da pensare più di tanto; ero un ingenuo bambino e davo per scontato che mio padre sapesse quel che faceva e non ci fosse niente di illegale, e che non se ne dovesse parlare per non rivelare ad altri il “nostro” posto segreto, nel quale si trovavano i tesori.

                                                                              OH OH OOOH

Solo più avanti potei realizzare che quel che facevano non fosse proprio del tutto lecito; il suo viavai da quella vallata fu, per mesi, quasi quotidiano.  Al suo ritorno, babbo parcheggiava l'auto nel  cortile prima dell'alba,  e vi scaricava pesanti sacchi di juta, dai quali poi  tirava fuori decine di bronzetti in diverse pose e di varie misure, oltre che barchette votive di bronzo,  alcune delle quali di notevoli dimensioni e con a bordo numerose figure umane e taurine, ma anche una notevole quantità di reperti di chiara origine egizia: numerosi scarabei sacri in pietra verde della dimensione di un piccolo fagiolo ma anche altri bronzi e statuette non certo di origine nuragica, con figure ritte e dalle inconfondibili fattezze egizie. In un altro pesante sacco conservava anche numerosi residui informi di bronzo, forse destinati, nelle intenzioni, alla produzione di copie. Sicuramente quel sito non fu il solo a subire la depredazione del notevole patrimonio storico e culturale, ma ne visitarono diversi nella stessa vallata e in qualcuno di questi, stufi della presenza dei tombaroli nuoresi, alcuni pastori del posto devastarono gli scavi, lasciando il chiaro messaggio che non erano i benvenuti. Ricordo un suo ritorno a casa prima del previsto; scaricate vanghe e picconi dal portabagagli, livido dalla rabbia, lanciò colorati strali verso coloro che pascolavano le loro greggi nella vallata di Lanaitto.  Il  futuro "vecchio saggio", col tempo, prese sempre più in odio gli abitanti di Oliena, fino a definirli discendenti dei figli "bastardi" lasciati nella zona dai centurioni romani, e quando lo diceva gli si illuminava una particolare lucina negli occhi che per noi, che lo conoscevamo bene, era un chiaro segno di autocompiacimento per ciò che diceva. L'odio raggiunse il picco massimo quando un ristoratore del paese, dal quale si aspettava enorme riconoscenza per avergli indirizzato molti turisti, gli presentò il conto del ristorante dopo una cena, benché in realtà fosse piuttosto scontato. Lo aspettò al varco quando si costruì la fama di "Mago delle Erbe" e finalmente, presentatosi nel suo finto eremo quel ristoratore con qualche problema di salute, gli fece pagare caro l'intruglio di erbe che gli preparò. Una vendetta che lo riempì di orgoglio e che non mancò di raccontarci divertito, naturalmente dopo la premessa del suo gutturale "OH OH OOOH".                                                                                                                                                                    Ecco, una delle sue particolarità era proprio questa urticante risata cupa che faceva prima di esternare qualche pensiero da se stesso considerato di grande valore; "OH OH OOOH", un verso che esprimeva tutta la sua boria e lo rendeva piuttosto antipatico perlomeno agli occhi di noi familiari ma, certamente, anche a qualcuno di quei suoi amici che però mai e poi mai avrebbero osato esternarlo. Bruno andava adulato e assecondato, e quegli amici lo sapevano fare magistralmente, indotti dal pensiero unico del gregge dal quale, se ti discosti, diventi malvisto. La facilità con la quale il loro mito apriva il portafogli quando c’era da pagare era, certamente, un altro punto a favore del gregge. Se non vi avessi assistito personalmente, non avrei mai creduto che si potesse arrivare a punti così elevati di adulazione, non così tanto da sperticare complimenti, abbracci e tanti ossequi  da passarci intere mezz’ore.

                                                 LA SERVA DEL NONNO 

                                                                          A proposito di nonno Pietro, i suoi stessi figli raccontavano spesso, con compiacimento, un aneddoto che ben ne definiva il personaggio; prese a far complimenti piuttosto espliciti alla serva che avevano in casa, molto più giovane di lui, senza alcuna remora di farlo davanti a sua moglie che, una sera, gli disse con severità di lasciarla tranquilla; ”Smettila di importunarla Pietro, è solo una ragazza, molto più giovane di te!”.  Nonno Pietro, evidentemente non arreso agli anni in più e anzi, forse ancor più invogliato da quel "consiglio" non voluto e  ritenuto offensivo per l'aver messo in gioco i suoi anni e sminuito la sua autorità,  mentre la moglie dormiva si infilò nel letto della serva e si fece volutamente sentire mentre la usava  a suo piacimento. Nonna  irruppe nella camera della serva e trovò suo marito che, in tutta tranquillità e sorridente, le disse in dialetto nuorese  "Lo vedi che ha "ricevuto" bene, la giovinetta?". Peccato, dispiace non riuscire a rendere bene la volgarità insita in questa sua allegra risposta, invece ben espressa nel dialetto.  Morta la moglie, alla quale fece partorire in tutto 6 figli, nonno si risposò con quella ormai ex serva, con la quale fece altri sei figli dopo essersi trasferiti nella penisola.                                                                                   Seppur ricchissimo, questo nonno che non ho mai conosciuto finì col perdere tutto, inizialmente perché "rimediava" alle sue numerose avventure con giovani donne -specialmente quelle che rimasero incinte- con denaro, proprietà immobili come case e terreni, e ,successivamente, perché uno dei suoi figli (quindi mio zio) fu accusato di far parte di una banda di rapinatori che fecero una strage e condannato all'ergastolo; nonno per tentare di tirarlo fuori dai guai mise in moto un certo numero di avvocati che, come avidi avvoltoi, non ci misero molto a decimare il suo patrimonio e, comunque, non evitarono 25 anni di carcere a quel mio zio che tutto sembrava fuorché un delinquente e, probabilmente, portò con se nella tomba alcune verità mai dichiarate ma qualche volta solo accennate attraverso sfumature di sguardi e di parole. Appena uscito dal carcere, venne a casa per conoscermi e mi regalò una fantastica scatolona di legno con dentro tutto l’occorrente per dipingere a olio, un omaggio che porto ancora nel cuore assieme alla pacata figura di quell’uomo, fino alla fine dei suoi giorni pacioccone e gentile, tanto intelligente da essersi sempre tenuto isolato dai luoghi comuni , dalla tv e dai giornali.

                                                                           PALLE DI NATALE

Attendevo le sere di Natale pur sapendo che nessun bimbo dotato di magici poteri fosse nato il 25 dicembre, ma auspicavo comunque una serata tranquilla con, magari, qualcosa di buono da mettere sotto i denti. A volte il mio desiderio si realizzava. Bruno, se non altro perché i suoi amiconi di avventura stavano in casa, probabilmente dotati di un diverso senso del dovere e della famiglia, anche se a mala voglia accettava l'idea di passare una intera serata a casa e non in grotta, a pesca o a caccia o negli scavi clandestini alla ricerca di reperti. A volte, invece,  anche la serata di festa si trasformava in tragicommedia e lo si poteva già preannunciare dalla tarda mattinata, quando babbo tornava dai suoi numerosi "giri" di bar per scambiare auguri con chi capitava, accompagnato da un forte e fastidiosissimo odore di vino nero e chissà quali e quanti alcolici. Un giorno, oltre l'odore di bettola, portò con se del pesce secco tipo baccalà e, posandone l'incarto sul tavolo di cucina con orgoglio assieme a una bottiglia di vino, disse a Maddalena " questo è il mio pranzo oggi, per me un vero elisir di giovinezza!". Osai dire una battuta, per me del tutto innocente e che, anzi, credevo essere foriera di una risata e dissi "l'importante è che non diventi un elisir di stitichezza". Ecco, Bruno non perse l'occasione per mollarmi un sonoro ceffone e, dall’alto del suo scranno di giudice, sentenziò che l’imputato incorse nel reato di “mancanza di rispetto verso l’autorità”, meritevole quindi della pena di un ceffone, chiusura nella sua stanza e rinuncia al pranzo. Nonostante avessi  scontato la pena,  la serata finì comunque nel sangue per me perché quel giudice, come sempre accadeva, mentre la sbornia scemava nella sua fase euforica ed entrava in quella violenta,  trovò chissà quale ulteriore spunto per sfogare i suoi nervi contro la moglie ed i figli (escludendo ovviamente quello unico, l’originale, l’inimitabile) per ore e ore fino all'epilogo della distruzione dell'abete natalizio e il lancio delle fragilissime palle di vetro, una delle quali, grande, rossa con belle decorazioni di colore bianco fatte a mano come si usava a quei tempi, si frantumò addosso a me mentre stavo seduto per terra angosciato dalle sue urla. Mi ritrovai pieno di schegge e sangue  in volto e nelle mani, nell'indifferenza di quei genitori troppo  impegnati a discutere.  Per fortuna, richiamato dal frastuono e dal mio pianto, bussò alla porta il medico che abitava di fronte a noi,  che si preoccupò di  togliermi le schegge di vetro con delle pinzette e medicarmi. Mezzo fasciato e incerottato, andai a letto a tentare il non facile scopo di dormire e superare, ancora una volta, il trauma subito.

                                                                       INSETTI E VELENI

 Il mio lettino era una semplice branda di metallo con la rete di fil di ferro intrecciato su se stesso e tenuto insieme dalla ruggine, con sopra un materasso di tela riempita di crini, piume di gallina e chissà che altro, ottimo albergo per le cimici che, assieme alle pulci, alle blatte e ai topi, formavano una presenza fissa e considerata del tutto normale nell’abitazione. Spesso le piume -o meglio, le loro acuminate punte chiamate calamo- sporgevano tra le trame del tessuto formando fitte reti di duri spuntoni che mi provocavano -ovviamente assieme alle punture delle cimici- dolorosi sfoghi che  impedivano di stare e dormire bene, perlomeno quelle volte che il Dottor Chirurgo Graziano non mi somministrava la dose di sonnifero.  Le blatte, che si manifestavano specialmente di notte quando veniva accesa  una luce,  le si vedeva  correre rapidissime per infilarsi sotto i mobili. I topi, che entravano con molta facilità dal cortile, spesso schizzavano via da dentro la dispensa della cucina dove erano riposte le cibarie, ma li si poteva incrociare in ogni angolo della casa, mentre scorrazzavano allegramente. Ogni tanto babbo spargeva il suo puzzolente DDT negli angoli delle stanze, nel tentativo di rendere difficile la vita alle blatte, ma la rendeva un poì più difficile anche a noi. L’odore di quella polvere biancastra rimarrà per sempre nelle mie narici come vivido ricordo olfattivo, un odore pungente che si potrebbe riconoscere tra altri mille e il cui effetto tutt’altro che benefico si sommava ad altri veleni, come i sonniferi che Graziano, con insolita gentilezza, mi propinava prima di dormire, sciolti in una tazza di camomilla che io, ingenuamente, accettavo riconoscente. Così come accettavo e svuotavo rapidamente i tubetti in alluminio delle pastiglie Formitrol, che mamma mi portava dalla farmacia e che, a quel tempo, contenevano formaldeide.  Preferisco pensare – sperando in una sorta di effetto placebo- che tutte quelle sostanze mi abbiano in qualche modo irrobustito, insomma come diciamo qui “vaccinato”, così come, forse, mi hanno vaccinato i veleni dell’animo, dei dispiaceri e dei momenti più bui.  Le nere pulci che alcune volte  babbo portava con se dopo le sue scampagnate e specialmente al ritorno dalle battute di caccia, le trovavo nel letto così spesso che le consideravo una presenza del tutto normale, e mi divertivo a vederle saltare quasi fossero un gioco, finché non riuscivo a schiacciarle e vederne il rosso contenuto di sangue che avevano bevuto.  Mi stupivo di quei bambini che dicevano di non sapere neppure cosa fossero e pensavo “ma come, tu non giochi con le pulci?”. Ma era soprattutto l'angoscia a ferirmi, sempre più grande, la paura di ciò che poteva accadere all'interno di quella famiglia così malmessa,  che mi raffiguravo come una zattera instabile nella quale dovevo tentare di sopravvivere senza lasciarmi uccidere dagli eventi. Per un certo tempo e per attimi che mi sembravano infiniti, finivo con il dover stare fermo su quella antica sedia nera - che si sarebbe intonata benissimo nell’arredamento di un castello medievale- dove subivo gli esperimenti “medici” di babbo, che altro effetto non hanno avuto se non quello di crearmi molte sofferenze ed estendere una patologia che, se presa in tempo e nei modi giusti, avrebbe potuto sparire, e invece si allargò dalla schiena agli arti. Passavo ore a piangere, specialmente la notte, troppo spesso coi morsi della fame e con le piaghe sanguinanti nella schiena - nella quale avrò per sempre alcune cicatrici- dopo aver subito angherie da un fratello folle e da un padre che aveva sposato una donna solo per farle partorire figli che lui avrebbe lasciato al mondo senza alcuna protezione, con l’eccezione di quell'unico che considerava, o forse è più corretto dire “che si faceva considerare con prepotenza” un vero figlio, quello che ha saputo sfruttare molto astutamente ogni debolezza di quella famiglia e, soprattutto, l'ego smisurato di nostro padre e la sua fama di gran brava ed erudita persona.                                                                                                                                                                Per me, è stata una piccola fortuna la presenza di quei libri e delle enciclopedie, accatastati nello stanzone del piano di sotto assieme alla legna,  che leggevo quanto più potevo, nell’intimo desiderio di riuscire a capire il senso dell'esistenza. Mi estraniavo -o almeno ci provavo-  cercando spiegazioni sul perché il sole, la luna e i pianeti erano lì a danzare precisi passi di un ritmo misterioso, su cosa c'era prima e cosa ci sarebbe stato dopo ogni cosa, da quello che sembra il vuoto attorno a noi a ciò che compone il tangibile della nostra esistenza. Sognavo di poter andare oltre e avrei tanto voluto avere un microscopio,  osservare direttamente quel microcosmo di cui leggevo, ma rimase per molti anni quello che era: un sogno.

                                                        PENSIERINI DELLA NOTTE                                                                                                                                                                                  La notte era fatta di pensieri  spesso assurdi e domande curiose, nei quali si imponevano con prepotenza pessimismi e timori ma anche, per fortuna, qualche speranza.  Non era facile alleggerire quei pensieri;  viaggiavano su un treno alle cui fermate ne salivano tanti altri in fila, mentre ben pochi ne scendevano. Un treno con sempre più vagoni appresso.  Stavo perennemente in ansia aspettando un rumore, un urlo, un doloroso scherzo di Graziano,  o un padre che si metteva la pistola in tasca e andava via sbattendo la porta dopo avermi detto “addio, vado a uccidermi”.  Lessi anche molti libri di fiabe e storie per ragazzi ma -solo dopo me ne resi pienamente conto- non mi facevano fantasticare con la mente e li vedevo per quello che erano realmente, curiose storielle  inventate che comunque, spesso, contenevano interessanti lezioni morali.                                                                                                                                                                     Ammiravo l'arte e  cercavo di interpretarne le diverse trame ispiratrici e mi era facile, anche perché a quei tempi  la si distingueva dalla merda con facilità. Non mi soffermavo all’aspetto esteriore delle cose (oggi lo stesso, e alle cose ho aggiunto anche gli esseri viventi), e ho sempre voluto conoscere il funzionamento degli oggetti; iniziai smontando tutto ciò che potevo per vederne i meccanismi e interpretarne la funzione. Macchinette a molla che trovavo buttate, radio, oggetti meccanici di vario genere;  dovevo capire come erano “animati” e li smontavo per poi rimontarli. Naturalmente mi ci potevo dedicare solo quando vi era un minimo di serenità, cosa impossibile se Graziano stava in casa; uno dei suoi passatempi preferiti era farmi ogni possibile dispetto, come quando si sedeva davanti a me e mi imponeva di stare assolutamente immobile finché non resistevo e battevo le ciglia; era quello che aspettava per prendermi a schiaffi o darmi forti pizzichi finché non mi vedeva piangere di dolore e, a quel punto, mi imponeva il silenzio minacciando rappresaglie ancor peggiori. Sadicamente, faceva squagliare nel camino ogni cosa con la quale giocavo, mentre i regali “importanti” che ricevevo, a esempio una bussola, me li rubava e li teneva per se. Mamma non assisteva mai a queste manifestazioni di “affetto” fraterno, di solito era impegnata in cucina, dove passava gran parte del suo tempo, e il sentirmi piangere non la preoccupava minimamente. 

                                                                GRAZIANO DE SADE

Quando il sadismo di Graziano raggiungeva i suoi apici, arrivava al punto di chiudermi dentro quella maledetta cassapanca, dal cui interno mi era impossibile aprirne il pesante coperchio, e lui decideva di riaprirla solo quando ormai ero sconvolto dal timore di non uscirne più e mezzo asfissiato dalla mancanza d’aria. Per rendere questo suo gioco ancora più divertente, naturalmente dal suo punto di vista, metteva dentro la cassa anche un teschio che portò a casa durante una sua visita assieme a babbo in qualche anfratto. Era un vero teschio umano e spesso, quando calavano le tenebre, gli disponeva due candeline accese dentro le orbite e lo posava sopra la cassettiera, davanti ai nostri letti. Dopo un breve periodo di “apprendistato” con questo suo lugubre feticcio, non ne provai più alcun timore e Graziano non ne ebbe più soddisfazione. Naturalmente non si perdeva d’animo e inventava cento altre cose per spaventarmi o provocarmi dolore. Più di una volta mise pezzi di carburo acceso sotto il mio letto mentre dormivo, col rischio che non mi risvegliassi più. Quel carburo serviva ad alimentare le vecchie lampade che babbo e i suoi partner grottaroli usavano per farsi luce negli anfratti, assieme alle torce alimentate da numerose batterie. Erano accessori che non potavano mancare,  babbo spendeva grosse cifre per le sue avventure fuori casa; pazienza se la tavola in cucina rimaneva vuota o quasi, le priorità erano altre. Sotto la prima rampata di scale che scendeva dal primo piano della casa verso il portone, vi era una nicchia nel muro con un vecchio contatore della luce e relativo interruttore; una sera Graziano provocò volutamente un corto circuito che fece scattare la levetta, e mi ordinò di scendere a riattivarla; feci le scale al buio e, sempre a tentoni, sollevai con forza quella per me dura levetta per riattivare il contatore. Un dolore acuto al dito e le sue risate sadiche mi fecero tardivamente capire che quel buio non era stato per niente accidentale; con nel dito alcuni tagli sanguinanti, vidi che nella levetta aveva incollato delle schegge di vetro sottile, da lui in seguito rimosse per “game over”.  Quando nostro padre tornava a casa la sera, finito l’effetto euforico del vino bevuto assieme ai suoi accomodanti amici, lo assaliva uno stato d’animo piuttosto critico; bastava una parola fuori luogo, un lamento, un nulla insomma, per scatenargli il nervoso e fare di me il capro espiatorio perfetto per sfogarsi, qualunque fosse l’argomento scatenante. Vigliaccamente, se ne guardava bene dal confrontarsi con Graziano e tantomeno col figliounico, sapeva bene che questi avrebbero reagito con forza e determinazione. Insomma, tra urla,  punizioni e malumori, finivo piuttosto spesso col saltare la cena ma d’altronde anche il pranzo.  Devo dire che, anche nei momenti “migliori”, non era per niente piacevole stare a tavola con loro, essere continuamente ripresi per aver appoggiato un gomito al tavolo, stare troppo chino, dimenticarsi di ringraziare se chiedevi il sale, fare un minimo rumore masticando erano solo alcuni dei motivi di contrarietà. Certi ricordi non ti lasciano mai, sono conservati in un album che nessun altro può aprire e, dato che si parla della tavola, ecco che trovo un’altra foto molto definita: eravamo a pranzo e tenevo in mano un coltello, intento a tagliare un pezzo di pagnotta che, restia, non cedeva ai miei tentativi. I coltelli di allora, perlomeno quelli che avevamo noi in cucina, avevano una forma tale che difficilmente se ne distingueva il taglio dal dorso, avevano identico profilo, manico compreso. Babbo, seduto di fronte a me, mi riprese con la consueta affabilità che mi riservava sempre: “solo un idiota può tentare di tagliare qualcosa col coltello al rovescio!”. Mentre lo diceva, fenomenale combinazione, tentava di tagliare qualcosa con il coltello tenuto rovesciato! Mamma gli diede un colpetto col gomito per fargli notare l’errore e lui, stizzito, sbatté il coltello sul piatto e se ne andò furioso, stranamente senza picchiarmi, giustificando la sua svista con la scusa che ero stato io a distrarlo.  

                                                               FORMAGGIO E NEMESI

Chiedere un pezzo di formaggio, quando c’era, poteva essere motivo di contrasti tra me e lui e tra lui e mamma e, insomma, tra tutti e me. Quando seppi che babbo, da ragazzo, giocava facendo rotolare intere forme di formaggio, ci rimasi doppiamente male al ricordo di quando mi sentivo costretto a non chiederne proprio. La quasi totale assenza di calcio nel mio sangue si rivelerà più avanti.  Ancora oggi mi chiedo: perché fare figli se non hai la certezza di poterli e saperli campare, perché quell’uomo non si è fermato al primo ed eterno figlio unico, forse perché quando si cede troppo spesso alla tentazione del vino si perde totalmente il controllo di se e della propria ragione? Questa è l’ipotesi che trovo più plausibile. Ho sovente pensato che, se mi avessero abbandonato da qualche parte, dentro un cestino per strada o da qualsiasi altra parte, magari non avrei avuto i tanti problemi di salute che mi hanno causato, ma mi starei chiedendo “chissà chi erano i miei genitori?”, con tutte le relative conseguenze che, nell’animo, una tale domanda impone.  Però  so anche che la vita, durante ogni giorno dell’esistenza, non è altro che il curioso susseguirsi di incontrollabili coincidenze, e se solo un piccolo tassello non fosse stato nel punto e nell’attimo in cui si trovava, si trova e si troverà, tutto sarebbe diverso al punto che, molto probabilmente, ora non sarei qui a scrivere e nemmeno  essere in vita, così come potrei, piuttosto,  essere un ricco turista in giro per il mondo.  E invece, sono qui e - forse qualcuno lo troverà strano- sto bene e ho imparato un sacco di cose, sia da fare che da non fare, specialmente prendendo esempio dai miei familiari riguardo le cose da non fare. Ho smontato e riparato molte radio e tante altre cose, ho smontato anche qualche mito fasullo, riesco a vedere l’interno dei gusci che ricoprono e celano le persone, riesco a non credere ai miti e ai luoghi comuni, scavo ovunque non alla ricerca di remunerativi reperti archeologici, ma alla scoperta di verità che non riempiono le tasche ma arricchiscono la conoscenza. Forse i miei pianti notturni di bambino hanno risvegliato la dea Nemesi ed ella volle regalarmi un lumicino di curiosità verso la Giustizia e la Verità, un lumicino che durante la vita ha rischiato di spegnersi spesso per arrendevolezza, ma poi si è finalmente riacceso con forza fino a diventare il falò che è ora.                                                                                                                                                     Fortunatamente- e finalmente- Graziano si sposò e andò a vivere in un’altra casa, e questo mi permise di riacquistare un po’ di serenità e terminare l’ultimo anno delle elementari. La scuola distava solo due o trecento metri da casa e ci andavo sempre da solo qualunque fossero le condizioni meteo - anzi se c’era la neve andavo ancor più volentieri- con in mano una borsa che conteneva giusto il libro di testo, un quadernetto, penna e matita.  Andavo contento  anche se il maestro aveva l’aspetto e il portamento di un gerarca nazista ma, in realtà, era persino peggio. Bé insomma, diciamo che era molto severo e spesso, con una piccola dose di sadismo, entrava in classe mentre tirava via da un flessibile ramo, strappato dagli alberi davanti alla scuola, le ultime foglioline; noi capivamo benissimo che uso intendesse farne e, se non obbedivamo come soldatini, ci menava coi rametti o, nei casi più ostinati, con una robusta stecca di legno. Fantasioso maestro, a volte ci costringeva a stare in piedi nel limitato perimetro di una piastrella, e se una volta stanchi ci spostavamo, giù con le botte. I ceci duri sui quali ci faceva stare con le ginocchia variegavano le punizioni corporali, naturalmente sempre ben viste dai genitori, coi quali noi alunni evitavamo di parlarne per non essere ulteriormente umiliati anche a casa. Quell’insegnante ci ha tirati su e preparati alla vita con la giusta severità, insegnandoci di tutto, educazione compresa. Non ebbi mai particolari problemi alle elementari, imparare era persino divertente e il maestro non risparmiava nemmeno gli elogi, se meritati. 

                                                      REGALI  IMMATERIALI                                                                                                  

L’unico ricordo spiacevole riguarda la mattina che, andando a scuola, venni aggredito da un ragazzo più grande di me, vicino di casa, che aveva qualche conto in sospeso con Graziano e, visto che io ero una più facile vittima, scaricò la sua rabbia prendendomi a calci senza pietà. Tornai a casa indolenzito e zoppicante ma, come al solito, non ne feci parola con nessuno, sapendo che avrei potuto peggiorare il clima di depressione che già abbondava tra le pareti domestiche. Ho rivisto solo recentemente quell’individuo che mi menò senza che io avessi alcuna colpa, ed è curioso come, a distanza di così tanto tempo, i ruoli si possano invertire; piccoletto e mal messo com’era, lo avrei potuto  scaricare dentro un bidone della mondezza, ma dato che il cosiddetto Karma aveva già fatto il suo dovere, ovviamente lasciai perdere. Fa parte di quella schiera di persone alle quali ho fatto grandi regali dei quali sono del tutto inconsapevoli, a lui l’omaggio di non rendergli pan per focaccia dopo tanto tempo, o di farglielo rendere da Graziano a tempo debito, a tanti altri in altro vario modo. Penso di aver ormai esaurito i pacchetti e i fiocchetti per fare ulteriori regali;  il tempo dei doni senza averne nemmeno un briciolo di gratitudine è probabilmente finito. Sorridevo sempre nonostante tutto, apparendo così un “normale” bambino sereno, ma in seguito, analizzando il mio stato mentale di allora, capii che era una reazione logica e naturale, conseguente allo spirito di sopravvivenza: ogni seppur piccolo momento di  “normalità” mi faceva star bene ed ero pronto a dimenticare i torti subiti poco prima, e nessuno avrebbe mai detto che quel bimbo sorridente patisse malanni e tormenti.   Una delle rare apparizioni in casa di Angelo figliounico fu un pomeriggio, mezz’ora dopo che mamma mi raccomandò di non scendere giù al pianterreno;  il prediletto di papà aveva organizzato una sorta di sfilata di ragazze alla fine della quale -lo so è incredibile, almeno al di fuori di certi ambienti sociali mondani ben diversi dal nostro- avrebbe scelto la sua “femmina” preferita. Sentii il vocio delle ragazze che passavano nell’andito sottostante per raggiungere la cameretta in fondo, la musica diffusa da un giradischi, il suono dei bicchieri coi quali si brindava, risate e balletti che durarono tutta la sera. Infine, tutti andarono via e io, del tutto indifferente alla cosa, non feci neppure domande alle quali non avrebbero, probabilmente, avuto seguito risposte. Rimarrà per sempre, nei miei ricordi, come una arcana carnevalata fuori luogo.

                                                            VINO FUCILATE E CASU MARZU

Finite le elementari, mi iscrissero alle scuole medie e  mamma, nel frattempo che si avvicinavano i suoi cinquanta anni di età, partorì  -in casa come da tradizione- altri due maschietti, quasi uno appresso all’altro, che posero fine al suo desiderio di avere almeno una figlia femmina.  Cantava loro le ninne nanne più varie in dialetto e in italiano, spesso la notte era sveglia e si sentivano le ruote di quella grande culla di legno che cigolavano avanti e indietro nel pavimento di travi della sua stanza da letto. Durante il giorno mi chiedeva spesso di dondolarli e io mi ci dedicavo con piacere; vedevo con tenerezza quei piccoli fratellini e speravo che il destino riservasse loro una vita serena nonostante tutto. Ma qualche momento di atmosfera non proprio salubre  toccò, anche a loro, di respirarla comunque.                                                                                                                                                     Una tarda sera tornò, Bruno, reggendosi a mala pena sulle sue gambe, lo sentii dalla mia stanza mentre vomitava e si lamentava dei dolori. Mamma era già avvezza a vederlo sbronzo, ma quella notte si preoccupò più del solito perché quella  chiazza di vomito, rossastra dal vino e accompagnata ai violenti dolori addominali  era più preoccupante del solito, quindi  chiamò l’ambulanza e lo ricoverarono in stato di forte ubriachezza e intossicato da una esagerata abbuffata di “casu marzu”, il noto formaggio sardo coi vermi.  Rimesso a nuovo o quasi , dalle cure e qualche giorno di convalescenza, riprese le sue solite innumerevoli attività.                                                                                                                                                                        Passò non molto tempo e una sera, rincasando da una battuta di caccia ai volatili con un suo amico di avventura e di massoneria,  questo lo aiutò a salire le scale di casa mentre lui, curvo e dolente, con il volto contratto dal dolore, faceva un lento passettino dopo l’altro. L’amico lo adagiò nel  letto con l’aiuto di mamma e raccontò di averlo colpito con una fucilata caricata a pallini; Bruno, per non metterlo nei guai, rifiutò di farsi ricoverare. Mamma gli tolse il maglione, i pantaloni e la camicia intrisi di sangue e costellati da centinaia di piccoli fori, lo pulì dal sangue e ne rivelò lo stato pietoso; aveva centinaia di pallini specialmente nella schiena, nel sedere, nelle braccia, qualcuno nel collo e persino nel volto. I pallini meno profondi se li fece estrarre da Maddalena armata di pinzette e abbondante alcol e cotone, lei con enorme abnegazione si dedicò a quel lavoro per ore e ore, notte e giorno, fino a liberarlo dapprima dei pallini più superficiali e, in seguito, di quelli un po’ più profondi, che si intravvedevano appena al di sotto della cute. I pallini che penetrarono più in fondo rimasero lì nelle sue carni, come subdoli distributori di piombo nel suo sangue.

                                                                 RISOTTO CON FUNGHI E...

 Neanche questa disavventura calmò la smania di quell’uomo di riempirsi le  giornate di amici e bevute, di grotte e di caccia, di pesca e di tutto ciò che gli andava di fare. Un’estate, e se ne vantò con noi in famiglia per lungo tempo, andò verso il mare a Cala Gonone assieme ad altri grottaroli per dare il benvenuto a una compagnia di turisti olandesi, presso un camping nel quale si attendarono. Erano alcune coppie di giovani e Bruno, con quella cordialità tipica dei sardi, si propose di preparare loro un risotto ai funghi mostrando un sacchetto contenente i funghi secchi che, diceva, teneva da parte da tempo  per gli eventi speciali. Con allegria e sempre accompagnati da bicchieri di vino rosso che erano prontamente riempiti nel rispetto del detto “vuota il bicchier che è pieno e riempi il bicchier che è vuoto”, tra risate e battute spinte che gli ospiti forestieri non capivano ma delle quali ridevano divertiti comunque, il risotto ai funghi fu pronto, e gli olandesi ci si gettarono affamati. Mangiarono e bevettero di gusto del tutto ignari che Bruno, nelle loro porzioni, aveva messo assieme ai neri pezzetti di funghetti secchi anche diverse blatte, essiccate al sole il giorno prima e fatte a pezzetti. La serata proseguì insegnando loro alcune frasi in sardo, dove si usavano termini sconci al posto di quelli reali; sentir pronunciare, specialmente da quelle giovani donne, “cazzu” anziché “grazie”, “in culu” invece di “buongiorno”,  faceva scompisciare l’allegra compagnia e, anche in seguito, al ricordo, ne ridevano di gusto.   In altre occasioni furono cucinati gatti e presentati come conigli, scherzo molto diffuso a quei tempi.  Quello delle blatte però, rimase a lungo un loro “pezzo forte”. Le serate in casa condite invece col veleno continuavano, ed ebbero un’ulteriore evento triste quando babbo volò dalla scaletta da speleologo, facendo un volo di 30 e più metri  in una voragine, spaccandosi il cranio. I soccorsi riuscirono a recuperarlo e farlo ricoverare in ospedale, giusto in tempo per salvarlo. Fu riportato a casa dopo parecchi giorni con il volto e la testa fasciati, e così rimase, nel letto, per qualche tempo, servito in tutto e per tutto da Maddalena.  Dopo questo evento ci sembrò cambiato, dava l’impressione di essere meno propenso all’avventura ma non abbandonò comunque del tutto le sue amate grotte e nemmeno, nonostante i consigli medici, i bicchieri di vino. Dopo le successive, ennesime e potenti sbornie, fu colto da un  infarto, e questo lo portò, finalmente, a decimare le tazze di Cannonau. Raggiunti i 50 anni e poco più andò in pensione, svendette dei terreni in città che aveva ereditato da suo padre e che gli rendevano molto grazie agli affitti di alcuni capannoni, e acquistò un appartamento in un dispendioso condominio alla periferia della città, nel quale si pagavano notevoli spese condominiali.  Nel frattempo chi aveva comprato da lui quei terreni si fece ricco, ma lui era del tutto indifferente alla cosa. Per una cifra esagerata e ben al di sopra dell’effettivo valore,  comprò il terreno di Marreri che distava circa 13 chilometri dalla città, disse che un tempo apparteneva anche quello a suo padre e lo volle riavere pur essendo così lontano, scosceso e considerato non idoneo nemmeno per il pascolo. Abbandonata la vecchia casa col cortile, che prontamente figliounico occupò fino a farla diventare sua, ci ritrovammo in un appartamento dove, finalmente, c’era un vero bagno completo di scaldabagno, i termosifoni e, insomma, tutto ciò che ne faceva un’abitazione definibile “civile”. Bruno comprò anche un’altra macchina, questa volta familiare, in sostituzione della vecchia Simca rossa che Graziano demolì facendola capottare, naturalmente senza alcuna conseguenza nei suoi confronti. La mattina babbo mi chiedeva di scendere con lui in campagna e io accettavo ben volentieri, finalmente avevo un padre col quale parlare dei più svariati argomenti e, come di mia abitudine, dimenticai le angherie subite, le torture, le botte e le notti insonni. Avevamo grandi progetti finalmente e questo mi bastava per andare avanti con ottimismo.    

                                                             CASA NUOVA VITA NUOVA?                                                                                                                              Scoprii troppo tardi  di essere stato, ancora una vota, troppo ingenuo e  remissivo,  e quando si fa tardi non si recupera più ciò che si è perduto.                                                                                                                                                                   Tagliammo cespugli ed erbacce laddove doveva passare la stradina, successivamente tracciata dalla ruspa per la quale babbo sborsò il giusto compenso, comprò cemento e blocchetti per fare la piccola casetta e dei tavoloni di legno per iniziare a edificare quella piccola baracca sulla quercia sulla quale salire attraverso una scaletta speleologica, fece spianare il luogo dove sarebbe nata la casetta, e in quelle giornate, per noi belle anche in autunno e in inverno, mangiavamo pane e salsiccia e tornavamo a casa stanchi ma contenti. Bruno e Maddalena, la sera, stavano davanti alla tv a ridere, parlare, o leggere e, persino, giocare a carte o studiare i libri di erboristeria che mamma aveva comprato, incuriosita dagli articoli e programmi televisivi che parlavano di Mességué, al tempo famoso pioniere dell’erboristeria. Nel mentre io, chiuso nella mia cameretta,  studiavo i primi accordi di musica classica con una vecchia chitarra che mi procurai in cambio di qualche riparazione elettronica,  studiavo da vecchi testi che mi prestarono e mi dedicai a quella che sentivo come la mia musica ancestrale “naturale”, la classica e il flamenco. La notte, quando i segnali sulle onde medie arrivavano forti, mi sintonizzavo sulle stazioni spagnole e, sentendo certe melodie, me ne sentivo attratto, le riconoscevo come mie al contrario delle per me poco gradevoli ballate tipiche della nostra isola. Avevamo anche un bel gattone tigrato che regalarono a mamma, era molto docile e amava stare in casa a farsi coccolare e correre da una stanza all’altra. A pensarci ora, il gatto Moustache era l’ultimo tassello che perfezionava l’immagine di una famiglia serena.  Finita la casetta in campagna, salivamo tutti –io mamma e i due fratellini- nella familiare di babbo per passare la giornata, specialmente la domenica, in quel piccolo angolo lontano dai rumori della città, dove poco alla volta piantammo alberi da frutto e fiori di vario genere. Spesso ci raggiungeva Graziano con la sua famiglia e formavamo una allegra tavolata a pranzo, sempre ben attenti a non rivangare mai i passati malumori, dimentichi di ciò che era il passato e disposti a vivere quell’oggi come se potesse essere anche il domani. Non era poi così raro sentir dire a babbo “non è detto che, qui sotto di noi, non ci sia il petrolio!”. Lo diceva con soddisfazione, probabilmente ci credeva davvero, ma una frase del genere, a parte il fatto che è del tutto illogica, ci lasciava un po’ così, senza parole. La dea Sorte, insensibile ai nostri attimi di ottimismo e infaticabile tessitrice, tramava nell’ombra del suo segreto rifugio qualcosa dai colori inizialmente poco definiti, poi col tempo sempre più chiari; figliounico si ripresentò con prepotenza nelle nostre esistenze e tentò in tutti i modi , questa volta per fortuna inutilmente, di farci lasciare la nuova casa in città e farla sua. Una volta tanto le sue mire non ebbero successo, ma i malumori ripresero forma e, nuovamente, avremmo passato anni di amarezze, litigi e carestie. Fece scaricare camion di mattoni e cemento poco più in la della nostra casetta in campagna e, in qualche modo, fece sentire in babbo l’obbligo di aiutarlo. Quando con Graziano e mamma scendemmo da lui, a babbo chiedemmo il perché di quel cantiere, e ci spiegò che Angelo voleva costruire una stalla. Già avremmo dovuto subodorare il fine di cotanta occupazione di suolo che, fin dall’inizio, Bruno definiva la “nostra” campagna, invece ci limitammo, passivamente, a osservare gli sviluppi della vicenda. Babbo si sentì sempre più costretto a controllare quei lavori e a prenderne parte, si assentò di nuovo spesso da casa e, la sera, tornava nero dal malumore e, qualche volta, nuovamente alticcio. I litigi tra lui e mamma ripresero, le sue urla vennero così conosciute anche ai nuovi vicini di casa. Non aveva il coraggio di pronunciare un “no” a quel figlio che riusciva, chissà con quali e quanti mezzi, a piegarlo totalmente al suo volere e spingerlo ad allontanarsi dalla moglie e dal resto della famiglia. In quel contesto di sottomissione, figliounico e chi lo appoggiava riuscirono, con costanza e metodica scaltrezza, a gettare fango su mamma e renderla del tutto ininfluente sulle volontà di Bruno. Si diffusero voci di una separazione tra i due, indispensabile per arrivare ai loro fini. Più gente crede alle falsità e più si ha possibilità di successo, come ben sanno i politici, i venditori di sogni, i maghi e tutti i truffatori in genere, e quelle maldicenze diventarono realtà nelle convinzioni di molti. Finita la scuderia, ecco che si allargava ancora costruendo poco più in la anche una grande cucina rustica; altre colate di cemento e altri mattoni per mettere le mani laddove la parola “nostro” suonava assai stonata alle orecchie di colui che si è sempre ritenuto un figlio unico. Chiedemmo nuovamente spiegazioni a babbo e lui, benché esprimesse contrarietà a quei progetti di occupazione della “nostra” campagna, ammetteva di sentirsi impossibilitato a negargli la sua piena disponibilità, ma evitava di approfondire il perché.

                                                                       UN SALTO ALL’INDIETRO

 In casa ritornò la miseria e sempre più spesso, al posto della pasta col mitico sugo di mamma, riapparve la minestrina e non certo col brodo di carne ma, al massimo, con la più economica merca e le patate. L’unico mezzo di contatto di mamma con le sorelle e la madre, che vivevano tutte lontane, era il telefono, ma fu presto costretta a farlo staccare per l’impossibilità di pagare le bollette. Io dovetti ritirarmi da scuola perché non avevo i necessari libri, ritenuti da Bruno troppo costosi, né tutto il resto che si richiedeva a scuola per poter studiare. Non avevo neppure vestiti decenti e, per quanto cercassimo di risparmiare, la quota condominiale portava via una gran fetta di quel poco che babbo lasciava a mamma. Non potevo pretendere nulla e niente chiesi, ritornai in uno stato psicofisico  penoso, presi a trattare male persino Moustache e, ancora adesso, ne provo  i rimorsi. Mamma non poté più chiedere aiuto economico a sua madre perché, guarda che combinazione, ci litigò grazie alle ennesime astute mosse di figliounico, stavolta finalizzate al suo poter andare periodicamente a Ozieri per chiedere soldi alla nonna a nome di mamma, naturalmente per poi tenerseli ben stretti. Lo scoprimmo solo molto tempo dopo, quando Maddalena andò a Ozieri e parlò con la madre ormai moribonda. Non voglio estrarre dalla mia anima tutti i particolari di quel nuovo lungo periodo di miseria e rabbia, di rassegnazione e di eccessivo “lasciar perdere”.  Avremmo dovuto reagire prontamente e duramente ma mille cose, di volta in volta, ce lo impedirono. Quando a diciotto anni arrivai alla visita per la leva militare - che speravo potesse finalmente allontanarmi da quella situazione familiare - i medici rimasero allibiti dalla mia magrezza e mi rispedirono a casa. Finii in ospedale dove, ancora una volta con stupore, i medici mi trovarono non solo rachitico ma anche con una osteoporosi che, parole loro, sarebbe stata esagerata anche per un ottantenne. Provo ancora profondo dolore nel vivido ricordo dei volti di babbo, mamma e i miei due cari fratellini che si avvicinarono al letto d’ospedale dove avrei dovuto morire. Un quadro indescrivibile e irriproducibile anche dal  pittore più abile, una scena troppo abrasiva e corrosiva  da descrivere persino per il miglior scrittore, figurarsi per me. Li osservai uno per uno con calma; persino babbo  trattenne le lacrime a stento, mamma era l’immagine della tristezza fatta a persona e mi fu chiaro, dal suo volto mezzo celato dai grandi occhiali, che aveva già pianto tutte le lacrime del profondo oceano di amarezza nel quale annaspava. Quei due piccoli fratellini si tenevano per mano e mi salutavano, tristissimi, come si saluta qualcuno che sale su un treno che non tornerà più. Non riuscii a dire niente, ero come lo spettatore di un film col quale non potevo interagire, avevo la pressione a zero ed ero gonfio come un pupazzo.  Mamma mi prese la mano e strinse la medaglietta che mi legarono al polso dopo l’estrema unzione, mi disse “addio figlio mio” e  tutti insieme andarono verso l’uscita, facendomi ciao con la mano e mandandomi un bacio prima di richiudere la porta. Provai un profondo dolore nel vederli così, passai ore a dispiacermi di averli lasciati con un dolore così e che l’indomani, alla mia dipartita, avrebbero forse provato ancor più grande. Ma in fondo no,  non ero per niente convinto  di dover morire. Qualcosa di profondo in me diceva che non era giunta l’ora, non ancora, di restituire le targhe. Quando entrò Angelo ad augurarmi di finire all’inferno, lo vidi come quello che era, un essere indegno persino di uno sputo che, comunque, non sarei stato in grado di lanciargli. Ancora una volta, dal profondo del mio animo affiorò la vocina che mi tranquillizzava col suo dolce bisbiglio: “Non morirai”. Rimediai alla tristezza di mamma e dei fratellini ripresentandomi vivo a loro e fui tanto felice di vederli raggianti. Tornai a casa ancora molto gonfio e debole, ma abbastanza vivo da aver dato, almeno così pensavo, una bella lezione a quel figliounico tanto sicuro che sarei andato all’ inferno. Peccato non potergli dire -  ormai non può più sentirmi - che l’inferno non è chissà dove in un ipotetico aldilà, ma ben aldiquà, nel mondo dei vivi,  ovunque ci siano persone false e traditrici, avide e perfide. 

                                                                   EDIFICARE UN MITO

Mi ripresi lentamente, ricominciai a studiare musica e fare qualche dipinto, mi innamorai di una ragazza conosciuta via radio con quel ricetrasmettitore sui 27 MHz che chiamavamo “baracchino”, babbo era momentaneamente presente in famiglia ma si lasciava condizionare ancora dal suo ego e da chi voleva, per proprio tornaconto, contribuire a farne un “personaggio”. Ci vuole poco a mitizzare una persona, inizialmente basta un amico giornalista che ti fa un primo articoletto sul quotidiano locale, e da lì si sale sul primo scalino della popolarità, da lui scalato poco a poco fino ad arrivare a quel beffardo articolo su “Selezione dal Reader ‘s Digest” di agosto 1988. La presunzione di babbo era il miglior fulcro sul quale poggiare la leva, e chi la manovrava sapeva bene come condurre il gioco. La miglior lezione che si può trarre da un articolo del genere -e al mondo ci saranno milioni di articoli come quello- dovrebbe essere imparare a non crederci, almeno non del tutto, a porsi delle domande e avere una sana quantità di dubbi. Perché quei giornalisti che tanto hanno ruotato attorno alla figura di babbo, fino a farlo diventare un gigantesco pallone gonfiato, non si sono mai nemmeno una volta presi il disturbo di andare a casa di mamma per intervistare anche lei? Lo so, ottenemmo la risposta anche a questo dubbio; qualcuno di loro avrebbe persino e ovviamente voluto, ma chi manovrava le leve mise in conto anche questo eventuale intoppo e, infangando la figura di mamma, riusciva a evitarlo. Mamma venne così isolata che non fu più visitata da tante delle sue nipoti e dalle cognate. Attore di quel se stesso impegnativo che si era creato -e ben volentieri  lasciato creare-, babbo cominciava  a sentirne la stanchezza e,  lasciata la sua maschera a Marreri, la notte tornava a casa a farsi coccolare da mamma, lamentandosi del viavai di gente che passava le giornate nel suo “eremo” a lodarlo, a impegnarlo in pranzi e cene che spesso, data l’ora, si sentiva obbligato a preparare per gli ospiti. Tra i suoi obblighi teatrali c’era quello di essere sempre galante con le donne; le prendeva a braccetto per condurle giù verso il fiumiciattolo presso un alberello di cachi, e con fare che esse parevano gradire prendeva un cachi  per offrirglielo, mentre, con un lumino di sottile libidine nello sguardo, diceva loro “guarda che bei cachi, perfetti, tondi e sodi come le poppe di Venere”. Era una delle tante battute -ormai  scontate-che ripeteva ogni qual volta gli si offriva l’occasione, e se la donzella gradiva le battutine, strada facendo bruno strappava un rosso petalo di geranio e glielo passava sulle labbra:  “questo è un ottimo rossetto naturale” diceva. “I miei fiori impallidiscono davanti alla tua bellezza era un’altra battuta preimpostata e abbondantemente collaudata, ispiratagli da un fumetto,  che contribuiva alla sua affabilità. Ogni tanto però,  andate via le meravigliate bellezze femminili, Bruno  alzava gli occhi al cielo, scuoteva la testa  e sghignazzava “ohohooh,  che poco basta per far contenta una donnina, anche se orrenda!”.  Tornava a essere la versione originale di se stesso insomma, ma solo quando era con noi familiari. Gettava la maschera ma non troppo lontano,  la teneva sempre a portata di occasione uso per accogliere le successive visitatrici del suo “eremo”.  Nel frattempo mi sposai con Giovanna; mamma e babbo vennero al matrimonio cercando di nascondere i non pochi contrasti tra loro, babbo non contribuì minimamente alle spese del ristorante ma questo  lo aveva già anticipato con un laconico “ah, se ti sposi sappi che io non ho niente, e non metto nemmeno una lira “. Una volta uscito dall’ambiente opprimente della loro casa, iniziai una lenta ma decisa ripresa dai malanni fisici e riuscii persino a far calare, e di molto, la osteoporosi, recuperando  anche peso e serenità.  

 


                                                          CHI DISTRUGGE E CHI COSTRUISCE                                                                                                                          Lasciai così mamma e babbo coi miei due fratellini in casa e il coccoloso gattone Moustache,  ma andavamo spesso a trovarli e lei veniva spesso a trovarci nella nostra casa, anche per aiutarci col bimbo nato in seguito. Attraversava camminando gran parte della città e saliva fino al quarto piano a piedi, portando sempre qualcosa da regalare a noi e al suo nuovo nipotino. Certi ricordi li rivivi e li senti come se qualcosa ti stringesse il cuore, quel qualcosa che si chiama “legame”, che mi fa lacrimare nel ripensare a quella donna che tanto si sacrificava per tutti noi senza mai chiedere nulla, che non ho mai ringraziato abbastanza, che a furia di “metterci una pietra sopra” poteva costruire un intero villaggio nuragico, contrariamente a chi, invece, li demoliva. Lei passava oltre, accomodava le cose, era fin troppo arrendevole ma era così, era il suo carattere, non ha mai reagito con la determinazione che sarebbe stata, invece, doverosa. D’altronde, non posso dire di aver avuto reazioni più decise delle sue e, come un cretino, ho voluto bene persino ai miei “carnefici” per lungo – direi persino troppo- tempo. Credo di non dovermi vergognare per questo;  lascio che la vergogna, sempre che rientri tra le loro virtù (ma ne dubito fortemente) la provino coloro che hanno approfittato del mio affetto e della mia pacatezza, nonché della bontà di Maddalena e, al contempo, della presunzione di Bruno.  Tra le numerose pompate di aria che contribuivano a costruire vacua fama attorno alla figura di quell’ uomo, c'era anche quella che lo vantava come dotato violinista (!), proprio lui che odiava la musica e non perdeva occasione per far spegnere la radio a Maddalena che, invece, amava ascoltare i cantautori, i complessi e  le musiche classiche. In realtà, il violino lo imbracciò sì qualche volta, ma giusto a scuola quando era ragazzo e unicamente  perché faceva parte del piano scolastico e quindi vi era obbligato; ma tanto bastò per aggiungere al suo ego anche la fama di musicista. I decenni trascorsi tra gli anni 60 e i 90 sono stati un calderone di eventi che ruotavano, come pianeti attorno al sole, intorno a una figura sempre più egocentrica e piena di sé.   Per quanto un pallone possa essere robusto però, si sa, c'è un limite di aria comprimibile al suo interno oltre il quale il pallone scoppia, e la boria infine raggiungerà livelli così grandi da farlo sgonfiare del  tutto nel volgere di poco tempo, quei mesi finali della sua esistenza quando, lui stesso, si renderà conto di essere stato usato e, una volta spremuto, ritornerà a casa con la sola buccia consunta.

                                                  LUCERTOLE E PRIMEDONNE

Un giorno d’estate che andammo con babbo e mamma nel Gennargentu, dove i parenti di mia moglie organizzarono un pranzo all’aperto, feci salire sulla mia mano una lucertolina tipica di quei monti, caratterizzata dal bel colore smeraldino, che adocchiai mentre si esponeva al sole su un muretto di pietre. Conoscevo il trucco fin da bambino; basta avvicinare il palmo della mano molto lentamente davanti al suo musetto, e lei ci sale sopra con fiducia, per avere calore. Come babbo mi vide mentre la facevo andare sulla mano di mia moglie, inizialmente stupito, si fece passare la lucertolina nel suo braccio e prese la palla al balzo per attirare l’attenzione dei numerosi presenti  dicendo “guardate questa lucertolina come si diverte a scaldarsi sul mio braccio”, ovviamente omettendo di dire che aveva appena imparato quel piccolo trucco da me e confermando, ancora una volta, che il ruolo di “primadonna” gli si addiceva in pieno. Lo faceva a ogni occasione che gli si presentava, ti rubava l’idea e la presentava come frutto del suo sapere, proprio così, senza alcuna vergogna. Chi non proverebbe una certa stizza nei confronti delle persone che agiscono in questo modo? Adorava attorniarsi di amici influenti o comunque utili al suo ego, in modo speciale i giornalisti. Li incantava col suo carismatico modo di parlare, accogliendoli in quella casetta che lui stesso definiva “il mio eremo” e nel quale ogni cosa  era disposta ad arte per suggestionare i visitatori; bottigliette piene di liquami di vario genere e colore  con etichette scritte a penna e un velo di sottile polvere attorno, anch’essa suggestiva. Un alambicco e una serpentina per produrre distillati e acquaviti , libri di erboristeria a suo tempo in gran parte acquistati da Maddalena e riempiti di appunti, mazzi di erbe aromatiche molto comuni in Sardegna e appese a essiccare; tutto contribuiva a magnificare il padrone di casa, anzi di “eremo”. Offriva agli ospiti una tisana o un bicchierino di liquore alle erbe e si aspettava i complimenti di rito. Proprio a un giornalista, che poi ne scrisse l’incontro “magico” in un quotidiano locale, offrì un bicchierino di limoncello fatto da mia moglie Giovanna e del quale  gli portammo una bottiglia qualche giorno prima dell’intervista; naturalmente si guardò bene dal rivelarne la vera provenienza e lo presentò come un suo distillato. Nell’articolo quel giornalista scrisse che aveva bevuto un liquore fatto dal “vecchio saggio” e nel quale sentì un “misterioso sapore di limone”!  Quando leggemmo siffatta frase io e mia moglie, dopo un iniziale momento di stupore e incredulità, non potemmo fare a meno di farci grandi risate, sia per la frase in sé poiché il sapore di limone non ha nulla di misterioso, sia perché babbo lo presentò come fatto da lui. Lungi da me aver provato astio verso il giornalista, ha fatto solo il suo lavoro e, come tutti gli altri, suggestionato dall’ambiente e dal personaggio, descrisse quel che sentiva.                                            Prendersi e costruirsi di sana pianta meriti non suoi era, per babbo, un’abitudine che tutti noi familiari conoscevamo e, d’altronde, spesso combinava le sue farse teatrali proprio davanti ai nostri occhi, come quando svuotò due barattoli di confettura di marroni in un suo contenitore, vi appose la solita etichetta di carta e la presentò, a chi andava a trovarlo, come preparata dalle sue sapienti mani. Era così entusiasta di se stesso che, in un grande quaderno, incollò tutti gli articoli di giornale che gli erano dedicati e,  ogni tanto, lo sfogliava con l’entusiasmo del bimbo che ammira il suo album di figurine e non vede l’ora di appiccicarcene di nuove. Si sentiva eterno e, a casa, diceva spesso rivolto alla moglie “après moi le dèluge!” (dopo di me il diluvio!).  Leggere articoli nei quali lui stesso si vittimizzava per aver lavorato troppo, per aver avuto troppe ansie in città e preoccupazioni in famiglia, fino a subire un infarto e sentirsi costretto a farsi un eremo, era piuttosto frustrante per noi,  perché nella lista dimenticava volutamente di accennare alle sue avventure e disavventure fuori casa,  agli incidenti a caccia e in grotta, alle continue ed esagerate sbornie, a tutto ciò che, realmente, potesse avergli creato le condizioni ideali per subire un infarto.                                                                                                                                                                    


            

                                                            IL VECCHIO E LA LOLITA

Gli offrirono per un breve periodo l’insegnamento della materia erboristica presso una scuola in città, e fu così che ebbe occasione di invaghirsi di una ragazza che avrebbe potuto essere sua nipote ma che,  quanto a esperienze sessuali,  poteva fargli  da maestrina. A quel punto , mamma ne ebbe abbastanza e smise di coccolarlo quando, calato il sipario dopo le quotidiane recite in campagna, lui tornava a casa. Una notte trovò la camera da letto chiusa a chiave e le disse “Maddalena,  pensavo di passare la notte qui ma, a quante pare, sono un ospite indesiderato , me ne torno laggiù nel mio eremo allora, scusa il disturbo”  e andò via senza avere risposta, anche perché -come giustamente osservò mamma- le risposte le aveva già dentro di se. La giovane studentessa divenne, da ospite occasionale nell’eremo, una presenza fissa giorno e notte. Per qualche mese Bruno si godette quella “luna di miele” mentre mamma passava le giornate e le notti nella sua “luna di fiele”, si vergognava persino di uscire a comprare il pane o le sigarette tanto si sentiva umiliata; ormai quella tresca tra suo marito e quella allegra tipa era di dominio pubblico o quasi. Nonostante tutto, mamma si preoccupava per lui e, dopo una decina di giorni di totale assenza di Bruno, disse a me e Graziano “andate a trovare vostro padre, non vorrei che stesse male”, ma forse la sua era solo curiosità e voleva sapere come andavano le cose laggiù, se quella tipa era ancora li ad alimentare ulteriore super ego a quel vecchietto. Scendemmo e trovammo lei e babbo mentre parlavano e ridevano, c’era qualcosa di strano nei loro atteggiamenti ma pensammo che fosse solo l’euforia datagli da quella loro avventura amorosa. Ci sedemmo a bere un bicchierino di liquore, un distillato dal …misterioso sapore di mirto, e il mio sguardo cadde su un barattolo di latta messo in una nicchia in alto, sopra la porta che dava alla camera da letto. Era il classico barattolo dove si conserva il caffè, ma mi incuriosì per la sua posizione così elevata, quasi fuori della portata di mano, e l’ innata curiosità di voler vedere il contenuto delle cose. Approfittai di un momento nel quale babbo e la sua amata giovinetta uscirono fuori  seguiti dal fido Puffi, un dolcissimo cane volpino siberiano che stava sempre appresso a Bruno a ogni suo spostamento, per elevarmi sulla punta dei piedi e prendere quel barattolo; fu una grande scoperta vederlo pieno di un’erba che non rientrava nelle solite essenze manipolate dal Mago delle Erbe: erano infiorescenze secche di odorosissima Cannabis, e questo ci diede la spiegazione dell’atteggiamento di quella romantica coppietta.  Lo rimisi a posto e non ne facemmo parola, ma più avanti scoprimmo che la aveva acquistata da un suo amico che anche io e Graziano conoscevamo bene, un ragazzo che viveva in una casa cantoniera dietro la quale aveva una fertile coltivazione di “erba”.  Tornati in città andammo da mamma per informarla che suo marito e quella ragazza formavano ancora coppia fissa,  evitammo però di parlarle della nostra scoperta riguardo la cannabis. Infastidita dalla notizia che non avremmo voluto darle, se la prese con noi perché eravamo scesi  a trovarlo, come se fosse del tutto ignara di avercelo richiesto lei stessa. Discutemmo un po’ e, infine,  la lasciammo col suo pianto e le sue angosce,  troppo nervosa per tentare di  tranquillizzarla e ragionarci. Passò qualche giorno e babbo venne a trovarci a casa mia e di Giovanna, naturalmente con appresso la sua fiamma, con la quale notammo che aveva un diverso atteggiamento, meno sdolcinato e a volte sgarbato (in seguito capimmo che Bruno era vittima di profonda gelosia nei riguardi della sua “pupilla”) e, facendo un involontario sgarbo a mamma, li trattenemmo qui a pranzo. Alla fine del pasto, dopo avergli invitato un digestivo dal misterioso sapore (ormai i liquori li chiamo tutti così...) di genziana, presi la chitarra spagnola artigianale che mi ero regalato con grandi sacrifici già da qualche anno, e suonai un brano classico, caratterizzato dal continuo arpeggio: “Recuerdos de la Alhambra”. L’amichetta di babbo ascoltò con interesse e mostrava di gradire, faceva segni a babbo e già vedevo che lui si stava sulle spine. Alla fine del brano, si complimentò con me mentre babbo era ormai grigio dal malumore e, stizzito come un ragazzetto geloso, cercò di sminuire l’esecuzione del brano e la trattò come una che non capiva niente di musica. In seguito seppi che si comportò così anche con Graziano, mentre si trovavano in campagna; lei ascoltava con troppo interesse quello che Graziano diceva, mentre era intento a nutrire la sua aquila reale, e Bruno temette che la sua giovane amante cercasse già di infilarsi in altri letti. Divenne furioso, ridicolmente furioso. Era il principio della fine del loro rapporto amoroso, una relazione che costò a babbo molte vecchie amicizie, i tanti amici rimasti delusi dopo essersi costruita un’immagine ben diversa di quell’uomo. Forse a quella  definitiva separazione contribuì anche qualche sotterfugio del suo amato figliounico, che a un certo punto vide in quella ragazza una possibile antagonista nella conquista del territorio, o per meglio dire del terreno, intanto sempre più occupato dalle sue opere murarie che proseguirono con un canile, un pozzo, e qua e la da campicelli di verdure che rendevano il “nostro” terreno sempre più ristretto e sempre meno nostro. Scesi a Marreri assieme a Graziano qualche giorno dopo quel “divorzio” e trovammo babbo nervoso come un cane idrofobo, non ci salutò nemmeno e rimase chino sotto il cofano motore della sua vecchia Peugeot ridotta ormai a un rottame,  lo aiutammo a rimetterla in moto e partì deciso nonostante i tentativi di farlo desistere, ai quali  rispose mandandoci al diavolo. Doveva andare al paese della sua morosa e non ci fu modo di farlo ragionare, ci andò, fece una penosa sceneggiata per strada,  e rischiò di essere linciato dai familiari.

                       

                                                  NARCISO TRA I NARCISI   
          

                           ...E LA VITA CONTINUA ...

Quando tornò nel suo eremo, si attaccò a una macchina per scrivere e una risma di fogli per raccontare, a suo dire, di quella ragazza che, ora, chiamava puttana, e di quanto gli facesse ribrezzo. Lo intitolò “...E la vita continua.” Era un racconto così osceno che, persino i suoi più affezionati amici giornalisti, si rifiutarono di pubblicarglielo, e mi rammarico di non aver conservato quei fogli perché, più di ogni altra cosa, ben delineavano il profilo di un uomo ormai totalmente fuori di senno.  Il mito del vecchio saggio, del mago delle erbe, del vecchio della montagna, stava sgretolandosi, ma non tutti lo sapevano, non tutti erano a conoscenza della sua decadenza e c’era ancora -e probabilmente ci sarà sempre, come la storia insegna- qualcuno che vuole continuare a crederci. Babbo fu isolato sempre più dagli amici più cari e dalle sue “fan” abituali e si ritrovò solo, persino senza nemmeno più l’affettuosa compagnia del volpino Puffi, che il solito figliounico gli fece sparire con la scusa di portarlo a una battuta di caccia. Raggiunto lo scopo di farne una figura mitizzata, avendo ottenuto da lui tutto ciò che si poteva e con la proprietà di metà di quel terreno -anzi proprio tutto, si vedrà poi il perché e il come-, lo lasciarono abbandonato a se stesso, al niente. Finirono le lodi, finirono anche i rifornimenti di cibo e gli aiuti di cui poteva aver bisogno, fosse anche solo per farsi un po’ di legna per accendere il camino. Lo trovammo così, cachettico e seminudo, in un giorno afoso, secco nella pelle e nel corpo e con lo sguardo sbalordito, con ai suoi piedi due  dei suoi numerosi gatti, ultimi sopravvissuti alla mancanza di cibo che, ridotti all’osso, tentavano di miagolare, ma dalle loro gole arse usciva solo un cupo lamento. Entrammo nella casetta e aprimmo il frigo e la dispensa, vedendo così che erano desolatamente vuoti. Non riuscendo  a convincerlo a tornare in città con noi, gli lasciammo qualche busta che già avevamo in auto con della spesa, qualcosa da mangiare e da bere, ma nemmeno le guardò,  non gliene importava più nulla, la fame gli era andata via, disse. A malincuore lo lasciammo in quel pietoso stato, per poi rivederlo portare a casa da mamma pochi giorni dopo, accompagnato da un suo fratello che gli voleva molto bene ma del quale non seguì i saggi consigli. Una sua sorella che viveva nella penisola e andò a trovarlo durante quell’estate, trovandolo già sofferente, propose candidamente di far arrivare dall’Abissinia qualche ragazza che lo aiutasse. Sentir fare una proposta del genere ci parve alquanto fuori luogo ed esagerato nonché ridicolo, persino se usciva dalla bocca di una nostalgica.  Messo nel suo letto, col respiro ai minimi termini, Bruno guardò noi e sua moglie e, con flebile voce disse “finalmente a casa, Maddalè” e mamma, tenendogli la mano, gli rispose “potevi starci anche prima, cosa te lo impediva?”.  A questa domanda rispose zio con un lungo discorso del quale conservo ancora un nastro magnetico; quel giorno avevo con me un piccolo registratore a bobina e lo misi in funzione sul comodino di babbo per provarlo. Zio, tra le altre cose, supplicò mamma di chiamare subito i carabinieri e fare una denuncia per plagio e abbandono di incapace da parte del figliounico, e di stare attenti perché lui già sapeva che il terreno di Marreri era stato, con l’inganno, intestato tutto a figliounico. Chiedemmo chiarimenti a babbo che, con voce sempre più debole, disse che non era vero, che gli aveva intestato metà del terreno ma che l’altra metà era nostra. Era inutile insistere, la risposta era sempre la stessa e non insistemmo ulteriormente perché, ormai, babbo non riusciva quasi più a respirare. Lo facemmo portare in ospedale, purtroppo mamma, nel frattempo, non volle dare retta a zio e non chiamò i carabinieri. La mattina seguente la accompagnammo in ospedale a trovare suo marito.



                             E LA VITA FINISCE 

 Neanche a farlo apposta, come ci aspettavamo, accanto al lettino di babbo c’era già la sua nuora preferita a imboccargli un uovo sodo col cucchiaino; mamma si sedette un po’ distante da quella idilliaca scenetta, in attesa di poter salutare quella preda ormai spolpata, che per lei era pur sempre un marito che amò per tutta la vita, nel bene e nel male.  Una dottoressa si avvicinò a Maddalena e le chiese perché non si avvicinava al lettino e mamma, con sottile sarcasmo, le rispose “aspettiamo che la recita in corso abbia fine, grazie dottoressa”, lei si girò verso il lettino a guardare e poi, rivolgendosi nuovamente a mamma le disse “dicono che sia la figlia, non è così?”, “lasciamo perdere dottoressa, lasciamo perdere...” le rispose mamma. Finalmente riuscimmo ad avvicinarci e salutare Babbo, trovandolo in uno stato fisico e mentale da moribondo. Morì così, nel giro di pochi giorni dal ricovero, e calò  il sipario sulle sue ultime recite terrene. Non ci fu nemmeno il diluvio, dopo di lui.                                                                                                                                       Assieme a Graziano andai dal notaio a richiedere gli atti riguardanti il terreno, scoprendo così che la firma di babbo era indubbiamente contraffatta; lo avrebbe capito anche un bambino. Per una volta, le furbizia di figliounico non era stata sufficiente, ma lo aiutò la fortuna. Ci recammo da un avvocato e gli facemmo vedere quegli atti, il primo con la firma inconfondibile di babbo e il secondo ridicolmente contraffatto. Subito resosi conto che aveva a che fare con reati di rilievo, che avrebbero coinvolto anche le due gentili signorine che si prestarono, apponendo la loro firma, come testimoni, sgranò gli occhi e ci disse “questa è roba da galera, è palese che la firma non sia della stessa persona, non ci sarebbe nemmeno bisogno di una perizia grafica” ma, dando un’occhiata al calendario e poi all’atto fasullo, allargò le braccia e poi si mise una mano in fronte e disse “no, non è possibile, ieri, solo ieri, scadeva il termine di legge per aprire una causa”. Ci spiegò, con calma, perché esisteva questo limite di tempo: la legge dà per scontato che i familiari, in casi di compravendita, donazione o altro, si rendano conto entro un certo periodo che il loro congiunto abbia sottoscritto un atto notarile e ceduto un terreno, e il termine vale anche se l’atto è irregolare o, addirittura, totalmente falso come il nostro.   

                                                                                                                                         

                                                                    AMEN

 Scusa babbo se nessuno di noi era presente al tuo funerale, era giusto e dovuto che ti accompagnasse solo quel figliounico che da te aveva ottenuto tutto, anche se tu, mentalmente non del tutto presente,  ne sei stato vittima quanto noi. Chi ha visto e capito le nostre vicende ha non solo giustificato la nostra assenza, ma anche ammesso che non poteva andare diversamente. Gli altri, quelli che hanno creduto a ben altre campane, quelle che suonano  per incantare, possono continuare sereni la loro esistenza credendo ciò che vogliono. Non ho descritto questi episodi della nostra esistenza per creare o demolire convinzioni, ma per amore di verità e rendere un minimo di giustizia, seppur tardiva, specialmente a una donna di nome Maddalena, che ha patito le peggiori brutture del maschilismo più abbietto. Avremmo potuto finirla nel sangue, attraverso quei regolamenti di conti di cui si occupano spesso le cronache familiari e, in molti casi, per cose di minor valore e importanza, ma abbiamo preferito ascoltare i consigli di una donna saggia, che nessuno ha mai definito, in un colorito articolo di giornale, “vecchia saggia”. Lo faccio io adesso anche se, lo so mamma, tu mi diresti ancora una volta di lasciar perdere, di lasciare che il tempo, così come ha sotterrato antichi templi, ricopra anche le vicende umane. Abbiamo discusso insieme del fatto che, se solo ci avessero chiesto quella nostra parte di terreno, gliela avremmo ceduta; ma hanno preferito agire così, con i già collaudati metodi abituali. Maddalena, prima di lasciare questo mondo, prese un foglio e, benché pienamente consapevole che non avesse alcun valore legale, ma sicuramente morale, scrisse di suo pugno la volontà di non voler lasciare niente al primogenito figliounico. Ma questo si intascò comunque i  20 milioni di lire che gli spettavano da parte della madre dalla vendita dell'appartamento, anche se convinse qualcuno di avervi rinunciato a favore del fratello più piccolo tra noi. Bugie, come al solito. Certe persone sembrano comportarsi come se fossero eterne, pensano di lasciare un qualche luminoso segnale del loro passaggio, ma dovrebbero pensare ai tanti boriosi che, già andati via, non hanno lasciato altro che qualche foto sbiadita, che col tempo successivo sparirà del tutto. Persino delle malefatte non rimarrà che sottile polvere, e così sarà tutto ciò che si è avuto con l’inganno. La vanagloria non dura che un soffio di venticello. 

 La Verità è un ciclone che dura nel tempo.

                                                                                         


 

 

 

 

 

 


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