CHE IL TUO VOLTO SIA SEMPRE SORRIDENTE AL SOLE. A Maddalena Saba - Piredda.
RACCONTO PARZIALE E PROVVISORIO, IN FASE DI COMPLETAMENTO PRIMA DELLA PUBBLICAZIONE DEFINITIVA.
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Ho passato tanti anni aspettando il momento giusto per mettere a
posto i miei appunti, in gran parte non scritti ma fin troppo presenti nei
ricordi. Quaderni, fogli volanti sparsi
nel mio tavolo e nei cassetti, ritrovati in mezzo a tante altre cose, nel
comodino a fianco al letto, persino accanto al mio posto in tavola o tra un
foglio e l’altro di un libro. Frutto di tanti ricordi, di sentimenti di vario
genere sgusciati dalle corazze del tempo e dal mio stesso essere restio a far
conoscere una storia che, in fondo, stentavo a credere interessante; ma ora mi
accorgo che si può peccare anche di troppa modestia, di indifferenza verso se
stessi, di quel pessimismo che ti fa fare spallucce e dire “ma in fondo, chi se
ne frega?”. Ebbene, ora qualcosa mi dice che invece ci sono tante ragioni per
scrivere, e pensare che qualcosa possa non essere interessante sia fortemente
presuntuoso, specialmente nei confronti di coloro che, al contrario dei foschi
pensieri dettati a pioggia dalle nuvole del pessimismo, possono invece trovare
la mia o la tua testimonianza interessante e, magari, anche con qualche spunto
istruttivo. Il sole, per qualche misteriosa ragione, stasera si è offerto di
spalancare per me quel sipario di nuvole che mi separava dall’azione, e le pozzanghere
di fredda riluttanza iniziano ad evaporare.
Scrivere
è per me fortemente terapeutico, è come levarmi dai reni, dal fegato e
dallo stomaco - ormai abbastanza vecchi e stanchi - quelle tante ingiustizie
subite, che si sono accumulate tanto da diventare come calcoli dolorosi, pesanti,
pungenti e taglienti, tenuti dentro fin troppo a lungo e che ora ho deciso di
estrarre al di fuori di me stesso. Scrivendo li sto mettendo qui, davanti a me,
li esamino e li osservo, e ogni giorno scopro di averne più di quanti ne ricordassi
il giorno prima. Cerco di capire e persino giustificare, almeno in parte, quel
veleno che ha intossicato la mia esistenza, sperando che si inattivi e possa non
danneggiare mai più. So di non avere particolare abilità nello scrivere e nel
raccontare e d’altronde non ho aspirazione a diventare un famoso e ricco
scrittore, ma il mio secondo intento, dopo l’alleggerimento dai “calcoli”
suddetti, è di rendere giustizia a mia madre e a chi, come lei, non ha avuto la
forza di denunciare il proprio annullamento da parte di certi parenti e di un
marito che si considerava - e veniva
considerato - “intoccabile”. Spero di
concludere questa operazione prima di dover restituire le mie targhe al grande
motorista che mi ha registrato nel suo nutrito parco di macchine umane. Finché
il mio libretto di circolazione sarà valido, dedicherò qualche minuto al giorno
in nome della verità e della giustizia, pur non potendo decidere quanto potrò,
dal momento che, attualmente, sono caregiver
ormai da 30 anni, di un
figliolone gravemente autistico e molto, molto esigente, e del quale spero di
poter raccontare qualcosa alla fine.
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Maddalena Saba nacque a Ozieri, in provincia di Sassari, il 3 novembre del 1922 e, almeno da un certo momento in poi della sua vita ha dimostrato di avere un pregio che, visto da altre prospettive, può al contempo essere un gran difetto, specialmente per se stessi; la troppa mitezza. Un eccessiva arrendevolezza del quale hanno approfittato coloro che hanno mirato a distruggerla nell’animo e depredarla di tutto, rendendole la vita un continuo tormento, privandola degli affetti e dei beni necessari ad una vita serena e dignitosa.
LA VITA COME UN FILM: CIAK, SI GIRA
Maddalena Saba incontrò Bruno e, come lei stessa ricordava tra un
sospiro e l’altro (e non parlo del buon Sospiro, tipico dolce di mandorle e
zucchero prodotto a Ozieri), si innamorarono al primo incrocio dei loro giovani
sguardi e, senza troppo pensarci, mollarono
tutto e tutti per affrontare insieme la classica “fuga d’amore” in voga a quei
tempi.
L’incontro fatale ebbe luogo quando il
più grande amico di Bruno gli chiese di fare da padrino alla sua prima figlia,
e in quella occasione Bruno conobbe la affascinante cognata del suo compare,
sorella di sua moglie.
Bruno era tornato di recente in patria
dopo un forzato intervallo in America
presso il campo di prigionia di guerra a Camp Como, nello Stato di Mississippi,
nel quale fu mandato dopo la sua cattura in Libia da parte dell’esercito
inglese. Come testimoniato dai suoi racconti in prima persona e dagli appunti
scritti in un suo “diario di prigionia” che custodiva assieme ad altri
“souvenir”, subì un trattamento tutt’altro che ostile da parte dei soldati americani,
anzi divenne amico degli
ufficiali ed altri graduati, a tal punto che, durante le loro numerose scorribande
serali, lo volevano con se per mostrargli le meraviglie delle grandi città
americane. Nel diario annotava i nomi delle città visitate a bordo delle
macchinone americane tipiche degli anni 50, e delle soste nei locali dove già
poteva, spavaldamente, gareggiare su chi resisteva più a lungo nel consumo di
whiskey e birre.
Il primo periodo dell’ unione di Bruno e
Maddalena non fu facile; dopo aver prestato servizio all’
ERLAAS come capo degli operai nella campagna disinfestazione dalla
zanzara Anopheles finanziata da Rockefeller, lui tentò, con scarso successo e anzi
perdendoci il denaro investito, di avviare un piccolo ufficio a Milano per
occuparsi di una propria idea, una invenzione che, nei suoi intenti, avrebbe
potuto dare una svolta alla sua vita.
La sua idea consisteva
nel creare un apparecchio, munito di spazzole e serbatoio per il detersivo, da
collegarsi al rubinetto del lavabo per facilitare il lavaggio di piatti e
posate. Lo chiamò SpumaJet e ne fece costruire
diversi esemplari come prototipo e poterne così acquisire i brevetti. Ebbi
l’opportunità di vederne uno nella sua confezione originale e dotato di tutti
gli accessori, era di plastica dura tipo bachelite color avorio e aveva
all’incirca la forma di un diffusore da doccia, dotato di nere spazzole rigide
adatte per distribuire, attraverso sottili condotti, il detersivo che andava
riposto al suo interno prima dell’utilizzo. L’idea, che di per sé parrebbe valida,
al lato pratico si dimostrò una complicazione inutile e di ingombro eccessivo
nei pochi spazi di una cucina di famiglia e inoltre, col tempo, le spazzole
lasciavano rigature su vetri e ceramiche. Fu un’invenzione bocciata, se non sul
nascere, allo stato larvale; una volta collaudata e provata non ebbe alcuna
dimostrazione di apprezzamento da parte delle casalinghe e, di conseguenza, di
eventuali industrie.
Rientrati a Nuoro, andarono a vivere nella
grande antica casa del rione San Pietro
a Nuoro di proprietà del facoltoso padre di Bruno, grande commerciante di
carbone legname e formaggi che spediva persino in America. Dopo un periodo difficile e a tratti burrascoso,
lui trovò un impiego presso l’Ente per il
Turismo, nel quale fu assunto grazie
all’interessamento diretto di Maddalena che, chiedendo aiuto ad alcuni
conoscenti, riuscì a fargli avere il lavoro. Arrivarono nel frattempo i due
primi figli, con pochi anni di differenza e maschi come lo saranno i successivi
tre.
Maddalena aveva una caratteristica
piuttosto rara e agli antipodi rispetto a suo marito; trattava tutti allo
stesso modo e non si sentiva sminuita né superiore davanti a chicchessia, anche
se ciò era in netto contrasto con l’atteggiamento di Bruno che, in presenza di terzi era sì molto gentile, ma
spesso solo di facciata, per poi esprimere il suo vero pensiero e le sue
critiche una volta fuori dalla portata dell’udito del suo corrispondente. Lei
conservava questo suo temperamento, e il suo atteggiamento non mutava sia che
si trovasse davanti a un mendicante così come a un Re, trattando tutti con lo stesso rispetto
e identica considerazione. Non temeva di
chiedere aiuto se ce ne fosse necessità e fu proprio grazie alla sua umiltà che
riuscì a far assumere Bruno. Non si prostrava dinnanzi a personaggi ritenuti importanti e
non lesinava di aiutare chi si presentava alla porta a chiedere aiuto, come di
tanto in tanto faceva il buon Diego, un mendicante perennemente scalzo molto
conosciuto in città e specialmente nel
nostro vecchio rione, che altro non
chiedeva se non un pezzo di pane, e certamente non necessariamente appena
sfornato. Diego rifiutò più volte l’offerta di un paio di
scarpe; non le sopportava affatto e non cedette mai all’insistenza di quel
regalo che mamma avrebbe voluto vedergli ai piedi, spesso sanguinanti per tutto
ciò che trovavano durante le lunghe camminate su ciottoli di pietra e dentro le
numerose pozzanghere che, in quelle antiche strade, spesso si formavano. Ci si
doveva accontentare che accettasse qualcosa da metter sotto i denti sul momento
o, come di solito faceva, da prendersi appresso dentro la bisaccia che portava
sempre con se. Era una persona buona e
indifesa, molto probabilmente affetto da una leggera forma di autismo che lo
rendeva un personaggio del tutto particolare, schivo, fuggevole, poco incline a
fermarsi per lungo tempo in qualunque posto, pacifico e mai violento neppure
con quei ragazzi di strada che lo sfottevano, che appena ne vedevano la sagoma
nei vicoli del rione San Pietro lo tormentavano e, qualche volta, lo prendevano
persino a sassate. A ripensarci ora, sono felice di non aver mai fatto del male
a quel povero uomo, e di aver provato orrore nel vedere come tanti altri miei
coetanei lo trattavano. Maddalena era così sensibile che gli capitava di
piangere vedendo le persone in difficoltà come Diego, e se passava troppo tempo
senza che questi passasse sotto casa si preoccupava e sperava che non gli fosse
capitato niente di male.
Bruno, dotato di notevole padronanza
della favella e della lingua inglese, non tardò ad adattarsi nel
nuovo ruolo di informatore presso
l’ufficio per il Turismo e farsi tanti amici. Purtroppo, come spesso accadeva in ambienti come il nostro a
quei tempi, avere molte conoscenze significava anche, come effetto collaterale,
frequentare assiduamente i bar, e Bruno Piredda non solo non fece eccezione a
questa regola sociale non scritta eppure molto sentita, ma riuscì a eccellere
persino in questo campo, diventando abilissimo nell’alzare il gomito e
compiacere a colleghi e amici.
Sempre molto disponibile con tutti,
anche nei confronti dei numerosi turisti che lo cercavano per avere
informazioni utili alle loro vacanze in Sardegna, si sperticava in gentilezze e moine che spesso
andavano “bagnate” con un drink al solito bar, un bel locale molto vicino al
suo ufficio che teneva un conto aperto a
suo nome, per non venir meno al luogo
comune che vuole i sardi, specialmente barbaricini, sempre generosi e
disponibili.
Amici parenti e conoscenti che andavano
a trovarlo al lavoro, sapevano che ancor prima di bussare nel suo ufficio
facevano meglio a sbirciare dentro al locale, quasi certi di trovarlo li,
attorniato di persone locali o straniere e col bicchiere in mano.
Tanto era assiduo nel frequentare quel
bar che, in un compito a scuola alle elementari, un mio compagno scrisse “il
babbo di Piredda lavora in un bar del centro...” suscitando l’ilarità del
maestro, anche lui molto amico di babbo e dal quale ottenne pieni poteri
riguardo alla mia educazione. Avrei potuto tornare a casa pieno di ammaccature
senza avere il minimo diritto di lamentarmi insomma, ma per fortuna quel
maestro, benché piuttosto severo e nevrotico, aveva di buono il saper
riconoscere anche i meriti e non si limitava, quindi, a farci stare
inginocchiati sui ceci, in piedi fermi per ore senza spostare i piedi dalla
piastrella, o darci dolorose menate con la bacchetta di legno o i rametti che,
sadicamente, prelevava dagli alberi all’ingresso di scuola per farne fruste artigianali.
Mi viene naturale, quando lo ricordo, vederlo non dentro la sua solita giacca grigia ma con indosso la
nera divisa delle SS. Riconobbe però in me la buona predisposizione
alla conoscenza, dal momento che arrivai al primo giorno di scuola che già
sapevo leggere e scrivere e, soprattutto, disegnare. Centinaia di
libri che mamma portò dalla casa natale mi insegnarono a leggere spontaneamente
e conoscere molti aspetti della natura e delle scienze, libri manuali ed
enciclopedie erano per me un rifugio al quale ricorrevo spesso, tanto che ero
solito persino ignorare il vociare dei miei coetanei che giocavano
spensierati per strada.
IO SONO BRUNO PIREDDA…
Ho avuto la sventura di nascere
terzogenito nel marzo del 1958, mentre mio padre era già da tempo intensamente
impegnato a soddisfare le sue passioni, tra le quali eccelleva quella per le
“sue” grotte, poi c’erano anche la caccia e la pesca o semplici spuntini in
campagna, ma qualsiasi altra eventuale occasione di svago era per lui un
richiamo irresistibile, spesso trascinatovi dal suo nutrito stuolo di amici, che di certo non
avevano bisogno di insistere per convincerlo a unirsi a loro. Non è stato
sempre presente mentre la moglie partoriva in casa, assistita dalla levatrice
di fiducia che la aiutò per tutti e cinque i figli maschi che ebbero; per
niente al mondo avrebbe rinunciato ad una escursione già programmata, ma la
nascita di un figlio era comunque un’ottima scusa per brindare e, tanto per non
smentirsi, tornare a casa sbronzo, collerico e poco propenso alla ragione. Ricordo bene le sue lunghe assenze ma ricordo
ancora meglio, purtroppo, le sue
presenze, troppo spesso caratterizzate dal suo evidente stato di alterazione indotta
dal vizio del bere o, come accadde qualche volta, tremendamente infastidito dal dover rimanere a
casa per una spedizione speleologica o una battuta di caccia rimandata perché
“tradito” dai suoi degni compari che, a suo dire perché uomini senza attributi, capitava che fossero obbligati a stare con le
proprie famiglie. Affabile, gentile e sorridente con tutti, era un vero attore
che, una volta ritrovatosi solo, gettava la maschera teatrale e sputava il
veleno contro i suoi stessi adulatori, contro quelli stessi che ne vantavano la
classe, l’eleganza, la forbita favella. Certo, capiterà un po’ a tutti di non
poter esprimere de visu il proprio reale pensiero, e credo che nessuno faccia
eccezione, ma il suo caso era particolarmente fastidioso; ci chiedevamo come
fosse possibile passare intere giornate a bere, chiacchierare, giocare e
scherzare con qualcuno per poi disprezzarlo e, ancor peggio, chiamarlo il
giorno dopo per uscire di nuovo assieme. E tutti, nessuno escluso, passavano
attraverso questo suo setaccio impietoso, attraverso un meccanismo caratteriale
e mentale non certo misterioso, da
rapportare al suo continuo bisogno fisiologico di sentirsi importante, e questo
era il suo ossigeno vitale. E anche su questo c’è da considerare che ciascun
essere umano apprezza un complimento, se poi i complimenti sono due tanto
meglio, d’accordo, ma lui ne fece una morbosa ragione di vita, entrò in un
tunnel dal quale non si esce più a retromarcia, la recita richiede di andare
avanti fino alla fine e, a quei livelli, diventa una sfida sempre più esigente.
Lo stesso meccanismo che accade quando da una bugia ne seguono,
necessariamente, tante altre, bugie da raccontare in primis a se stessi e, una
volta assimilate, farne verità da esternare a chiunque, quando necessario.
La nostra casa aveva due piani separati da un paio di rampe di scale di granito; il pavimento superiore era composto da travi di legno tranne nella sala dove era presente un caminetto e un pavimento con grandi piastrelle decorative, così vecchie che già allora presentavano crepe e scollamenti che le rendevano traballanti. L’andito del piano inferiore era invaso da zaini, scalette in cavo d’acciaio ripiegabili, funi, lampade ad acetilene, caschi, sacchi di carburo e quant’altro serviva per le spedizioni nelle grotte. A tutti gli effetti, quella fu la prima sede del suo team di amici speleologi e vi avvenivano riunioni, preparativi, partenze e ritorni. Bruno era molto generoso con se stesso, l’appagamento delle sue brame era il principale obiettivo della sua esistenza e un gran numero di amici adulanti e sempre a lui devoti erano il giusto complemento. La famiglia era qualcosa di secondaria importanza e altro non era che una donna sposata per sfornare figli che, specialmente a quei tempi, testimoniavano la sana mascolinità del vero uomo, del cosiddetto “capofamiglia”, insomma di un capobranco dotato di normali capacità riproduttive.
Io ero un gracile e timoroso bambino, eccessivamente magro perché
scarsamente nutrito, abbandonato a se stesso e con una gran paura della vita;
tra quelle persone che passavano per casa ce
n’erano anche a me simpatiche, ravvivavano un ambiente spesso noioso, tornavano dalle loro spedizioni
rallegrati da qualche bicchiere - per
non dire qualche ettolitro - di vino, e mi
davano l’impressione di volermi bene; nei momenti migliori potevo
essere omaggiato di qualche ben accetta caramella o cioccolato, ma a patto che
non mi trattenessi più di qualche minuto, passati i quali venivo elegantemente cacciato
via da mio padre. Rifugiatomi nella mia stanza, li sentivo le raccontare le prodezze vissute durante la loro
giornata, ovviamente senza risparmiarsi in lodi che andavano a dare altro
nutrimento all’ego smisurato del loro capobranco. Passavo ore ed ore a leggere
e chiedermi il senso della mia vita, ma nei libri non trovavo risposte certe,
anzi trovavo tanti spunti per altre domande inusuali per un bambino. Solo dopo
molto tempo capirò perché, in netto contrasto con le mie condizioni fisiche e
psicologiche, sorridevo quasi sempre quando non mi trovavo in mezzo ai perenni litigi
di quei familiari assegnatami dal destino. Ora so con certezza che, nei pochi momenti in
cui tutto sembrava più quieto, si attivava un’autodifesa potente in me; il
voler subito dimenticare i fattacci, una negazione verso me stesso forse molto comune
in coloro che riescono a uscire vivi da situazioni anomale; stavo così bene,
quando stavo solo male anziché malissimo, che sorridevo, sorridevo e qualcosa,
in me, voleva convincermi che quella
fosse una famiglia come tutte, una normalissima famiglia. Peccato che spesso,
anche nei momenti sereni, la brace dell’ira covava sotto la cenere, pronta a infiammare gli animo
alla prima nuova scintilla. Molto in ritardo ho messo assieme i mille tasselli
di un puzzle che alla fine evidenziava, invece, quanto quella situazione
familiare fosse al di fuori di una accettabile sorta di cosiddetta normalità.
Mentre Bruno mangiava e beveva stavo in solitudine e spesso, troppo spesso,
saltavo la cena, persino dopo aver saltato il pranzo. Ero diventato un campione
di salto del pasto e lo testimoniai in un disegno a pastello, fatto a otto
anni, nel quale mi rappresentavo come un sottile scheletro che saltava su una
tavola imbandita al centro della quale spiccava un pollo arrosto. Quella condizione
di mancanza di proteine, vitamine e spesso anche acqua nonché assenza di un
minimo vitale di autostima, condizionerà in seguito gran parte della mia vita a
seguire.
Arrivò un momento, per una Maddalena
stanca di dover fare gli onori di casa a tanta gente, preparare pasti, lavare tute e tanto altro in un vascone di
granito nel cortile rigorosamente con la sola acqua fredda presente, di far
notare al consorte che le sue assenze dall’ufficio (dal quale mandarono diversi
richiami) e da casa erano eccessive,
inoltre cominciavano a mancare i fondi economici per i cibi e le
bollette, sempre più devoluti per nutrire le sacre esigenze del capofamiglia.
Benzina, abiti e tute, tabacco per la
pipa, inviti al bar, accessori e attrezzature varie per caccia pesca e
spedizioni erano il primo capitolo di spesa. Ahinoi, quella sera Maddalena innescò una vera e propria bomba, non un ordigno
qualsiasi, ma quella che si sarebbe rivelata, nel tempo, una vera e propria
atomica; Bruno, attraverso la sua potente
voce cavernosa, alterata dal vino
e dall’ira, dichiarò all’intero vicinato
le parole-chiave di tutta la sua esistenza:
Maddalena, mettiti in testa che...
... IO SONO BRUNO PIREDDA, HO
SEMPRE FATTO QUELLO CHE MI PARE, FACCIO QUELLO CHE MI PARE, E CONTINUERÒ
A FARE QUELLO CHE MI PARE!
Maddalena dovette, lentamente ma
inesorabilmente, abituarsi a fare buon viso a cattiva sorte anche nei momenti
peggiori; la figura di suo marito, ormai lanciata verso un lungo percorso di
mitizzazione doveva essere preservata e non era assolutamente consentito
criticarlo, non in famiglia e ancor meno davanti a chicchessia, e lui lo
scrisse a caratteri cubitali nella mente di tutti noi, anzi non proprio
tutti; un po’ meno nella mente dei due
primogeniti Angelo e Graziano (in realtà questo sono i loro secondi nomi) e più avanti si capirà il perché.
Qualsiasi cosa lui dicesse, fosse anche
la più scontata e banale, anche solo una battuta che non avrebbe fatto ridere
nessuno dotato di almeno due neuroni attivi, suscitava nell’ascoltatore stupore
e meraviglia. Era un’abilità che avrebbe potuto ben sfruttare in teatro, il suo
era un talento sprecato, al di fuori di
un teatro. Risate, ammirazione, vanto
per un uomo che veniva definito “grande” persino per cose di ben poco conto. Forse
erano i tempi e il luogo, forse erano le persone o tutto l’insieme, fatto sta
che vi era in lui questa predisposizione ad attirarsi lodi e ammirazione con
poco, e quel poco riusciva a dirlo con
tale enfasi da farlo apparire molto. Nelle grotte ancora inesplorate della
nostra isola trovò il giusto trampolino di lancio verso la fama, grasso
nutrimento per il suo ego, che una volta esauritosi verrà sostituito da
qualcos’altro, e fu proprio Maddalena, non volendolo, a offrirgli su un piatto
d’argento il secondo cibo iperproteico; l’erboristeria.
Chiunque abbia potuto soffermarsi un
attimo ad osservare Bruno in società si rendeva conto che lodarlo era una sorta
di obbligo sociale al quale non ci si poteva sottrarre, un fenomeno sociale che
si autoalimentava col tempo e col numero progressivo di adulatori, fino a
diventare quella che appariva come vera e propria idolatria. Chi non faceva
parte di quel gregge rischiava di esserne tagliato fuori, di sentirsi bollato
come “non conforme”, era uno che non
capiva niente. Un deficiente insomma, e quei pochi che osavano in qualche modo contraddire
Bruno venivano isolati dalla cerchia delle amicizie e lui, naturalmente, non
mancava di fare apprezzamenti velenosi nei loro confronti, coinvolgendo persino
i familiari di costoro, personaggi tanto
poco intelligenti da non apprezzare le sue eroiche imprese. Ma agli occhi di
noi familiari - e credo non solo di noi figli o della moglie
- apparivano spesso scarsamente dotati d' intelletto coloro che, per
un nonnulla, attribuivano genialità a un uomo che noi conoscevamo fin troppo
bene e in maniera diretta. E qualche volta ci scappava, ovviamente nascostamente, persino da ridere.
Di ritorno dalle sue spedizioni esplorative, quando non era tanto sbronzo da
buttarsi direttamente sul letto a dormire, non mancava di esprimere divertenti
giudizi sui suoi compagni di viaggio e
avventura, come quando parlava del “professore” che, durante i viaggi all’interno
del loro pulmino di gruppo, mollava potenti scoreggi che costringevano alla
sosta forzata per spalancare tutti gli sportelli e far fuoriuscire quella nube
tossica che definiva come “orribile tanfo di uova marce”. Anche questo faceva
parte del loro divertimento.
Per ammissione stessa di qualcuno che
visse quei tempi e li ricorda, la figura di Bruno Piredda era circondata da un
chissà ché di inspiegabile, forse qualcosa di molto interessante come argomento
di studio e ricerca per un buon antropologo, un psichiatra, un neurologo o
tutti questi studiosi insieme. Un suo anziano amico, una volta passati
tanti anni da adulatore ma avendo finalmente preso coscienza delle esagerazioni
del passato, mi disse: “Se tuo padre diceva merda, gli altri
capivano oro, e me ne resi conto solo tardi, troppo tempo dopo
averlo anch’io tanto ammirato e invidiato, come risvegliatomi da uno stato di
torpore mentale, d' ipnosi. Rivalutai la personalità egocentrica di tuo padre troppo
tardi e dopo che rivelò la sua vera essenza con la giovane amante al suo fianco,
tanto più giovane di lui da poterne essere la nipote, ma ora posso dirlo e
spero di non offenderti: tuo padre era un gran coglione.” Per riconoscenza
verso la sua ammissione e per rispetto alla sua età, evitai di fargli osservare
che coglione lo era stato anche lui a suo tempo, ma nelle sue considerazioni e nei
suoi gesti si capiva benissimo che ne aveva ormai preso consapevolezza.
LE
LEGGI DELLA SOPRAVVIVENZA
In un ambiente povero e ostile cercai di
vivere la mia infanzia con la sola dotazione di quelle armi di autodifesa che offre
la natura ai bambini, tra le quali la fantasia e il sapersi accontentare di
poche cose; non era per niente facile riuscire a vivere in un ambiente dove ero
lasciato solo o, peggio ancora, con la corrosiva presenza di due fratelli
maggiori che spesso si impegnavano in una gara senza premi, ma con l’obiettivo
ben preciso di rendermi difficile e sofferta la sopravvivenza.
Un padre spesso assente e del tutto
disinteressato a ciò che accadeva in casa, dava il via libera a situazioni
grottesche che per me si trasformavano in disagi, pericoli e malesseri di vario
genere, anche molto seri. Mamma era spesso troppo impegnata o stanca per badare
a me, si occupava della casa, della cucina e del bucato. Qualche amica vicina di
casa la tratteneva con gradite chiacchierate che in parte compensavano i lunghi
silenzi di un marito assente o disinteressato. Spesso non si accorgeva neppure
delle angherie che dovevo subire dai miei fratelli oppure le sottovalutava, inconsapevole
dei rischi che correvo in quelle ore in cui ero lontano dalla sua vista. Sembrava
dimenticarsi della mia esistenza ma so perché; obbediva alle direttive del
marito che le raccomandava di non darmi troppa importanza perché, secondo la
sua filosofia, i bambini bisogna farli e lasciarli al loro destino. Questo
sarebbe anche condivisibile, entro certi limiti, se si intende che un bambino
forgia il suo carattere anche attraverso le ostilità e le difficoltà, ma nel
mio caso non funzionava così, per il semplice motivo che non avevo alcun
diritto di difendermi, non solo a casa ma anche fuori o a scuola. Se reagivo (e
intendo reagire con piena ragione) venivo comunque redarguito o punito, quindi
il “sistema” elaborato da Bruno era non solo fallimentare poiché non poteva
raggiungere l’obiettivo di rafforzarmi, ma estremamente dannoso per la mia
salute fisica e mentale. I genitori dei
miei coetanei, pur seguendo in molti casi la stessa “filosofia”, insegnavano ai
propri figli a difendersi, non solo con le parole ma, quando necessario, anche
coi pugni. Io no, non potevo. Se tornavo coi lividi da scuola o dalla strada,
evidentemente li avevo meritati, secondo il suo metro di giudizio, e quindi non
faceva altro che rincarare le dosi di menate nei miei riguardi. Di certo non mi invitava a difendermi, anzi,
riteneva che ci dovessimo distinguere dagli altri, e questo soprattutto per
difendere la sua immagine di uomo buono e distinto. Per mia fortuna, in casa era quasi sempre
assente il primogenito Angelo, quello che poi si rivelò essere il “figlio
unico” di babbo, ma Graziano, il secondo, purtroppo era spesso presente e
sentiva continuamente la necessità di farmi del male o intimorirmi, persino con
pesanti minacce. Era affetto da psicosi serie, babbo lo temeva così come temeva
il suo amato primogenito, e dopo aver “assaggiato” per la prima volta, durante
una discussione, le violente reazioni di Graziano sul suo volto, ne prenderà
totalmente le distanze evitando ogni intromissione nei suoi comportamenti,
anche quando rappresentavano un serio pericolo per l’incolumità di noi altri
familiari. Angelo, da sempre furbo calcolatore dei propri interessi, si teneva
alla larga da noi e, probabilmente, Bruno gli pagava qualche dimora dove poter
stare lontano da noi. Quelle poche volte che lo vidi a casa mentre ero bambino,
pregavo perché se ne andasse al più presto, ma non c’era bisogno di richiedere
nessun intervento divino; metteva un po’ di zizzania tra la madre e il padre e
noi altri, si azzuffava violentemente con Graziano, e se ne tornava per la sua
strada. Innervosito per una mia battuta
in una delle sue sgradite visite, mi lanciò un pesante coltello da cucina
interamente in metallo, che mi colpì alla gamba ma, per fortuna, non di punta,
poi, non contento, mi si avvicinò e mi strinse le mani sul viso e sul collo come
per soffocarmi. Ancora una volta, non
potei difendermi da solo, ma per fortuna intervenne Graziano a togliermelo di
dosso. Come eseguendo gli esempi di suo padre, Angelo se ne andò minacciando e
sbattendo la porta. La sua inimicizia
con noi, ma specialmente con Graziano, era nata una sera che quest’ultimo
rivelò qualcosa di Angelo che avrebbe dovuto rimanere un segreto. Si scatenò
una baraonda, volarono schiaffi pugni e urla, babbo assente, mamma con le mani
tra i capelli ed io che, impaurito, non capivo cosa stesse accadendo, chiudevo
gli occhi e mi tappavo le orecchie fino a sentire solo il battito di un
cuoricino che, ancora oggi, risente di questi maledetti ricordi. Il motivo
della violenta discussione, su richiesta di nostra madre, fu riposto in quel
cassetto nel quale l’umana decenza depone con pietà le cose che è meglio
ignorare e dimenticare.
GRAZIANO L’ANESTESISTA
Graziano era più grande di me di 7 anni
e Figliounico Angelo di 10. Graziano,
impulsivo e meno furbo di Angelo, era
fortemente anaffettivo verso qualsiasi forma di vita che non fosse
la sua stessa e lo dimostrava in tante occasioni, Angelo si adorava
allo stesso modo ma cercava, per proprio tornaconto, di non darlo troppo a
vedere. Graziano, purtroppo, condivideva con me la camera nella quale
dormivamo. Quella stanza aveva una finestra che dava sul cortile della casa, e
da quel cortile era facile, scavalcandone il muretto che la separava dal vicolo,
andare in strada. Graziano “evadeva” spesso dopo aver fatto finta di andare a
dormire e, per fare in modo che io non me ne rendessi conto e non rischiare che
potessi fare la spia, mi offriva con inconsueta gentilezza una camomilla prima
di andare a dormire, il che avveniva al massimo alle 9 di sera, qualche minuto
in più in estate. Passarono mesi prima che Maddalena si accorgesse che, in
quella camomilla, ci scioglieva dei sonniferi che gli procurava un suo compagno
di scuola dopo averli sottratti al padre medico e futuro medico lui stesso.
La mattina seguente per me era,
ovviamente, un problema svegliarmi e
stare attento a scuola, mi ammalavo spesso con febbri alte e dolori diffusi,
specialmente allo stomaco e nei fianchi, senza contare i mal di testa e
l’inappetenza. Ricordo ancora molto dettagliatamente gli strani incubi che mi
opprimevano in quelle notti di sonno profondo indotto da quei potenti
sonniferi; visioni di vortici sempre più grandi che, rotolando dal cielo, mi
cadevano addosso e trascinavano verso altri vortici, in un loop infinito. Quando
mia madre si lamentò con Bruno di quel mio stato, ancor prima di scoprire che
ero spesso narcotizzato, le rispose che ero troppo fragile e sicuramente era
colpa sua che non sapeva crescere bene i suoi figli. Ne nacque una delle tante
animate discussioni, a quei tempi ben conosciute da tutti i vicini di quello
stretto vicolo densamente popolato. Mentre i due fratelli grandi erano assenti
o svicolavano da quelle scenate andandosene per fatti loro, io dovevo
obbligatoriamente assistervi e godermi fino in fondo la brutalità di cui era
capace quell’uomo.
Le condizioni sociali erano, perlomeno
in quel nostro vicinato, paragonabili a quelle viste nei documentari su certi
villaggi del cosiddetto “terzo mondo”; già rispetto alla non lontanissima
Cagliari, ad esempio, eravamo decenni indietro. Non era raro vedere bambini
giocare per strada coi piedi scalzi, i negozianti incartavano frutta e pesci
nelle pagine dei quotidiani locali o, quando andava di lusso, nella carta
apposita ma sopra la quale annotavano il conto della spesa con la penna, tenuta
rigorosamente incastrata sul lobo superiore dell’orecchio, spesso facente
coppia con la sigaretta senza filtro nell’altro orecchio.
Gli alimenti non avevano scadenza e non
ci si meravigliava più di tanto, aprendo una latta di pomodori pelati o altro,
di trovarci la ruggine, e, nelle confezioni di riso, vedere dei punti neri che parevano
far parte dei chicchi, per poi scoprire che erano, invece, piccole larve
vermiformi.
Lo scaldabagno era a noi totalmente
sconosciuto, così come erano sconosciuti tutti gli altri elettrodomestici,
tranne un già vecchio frigorifero che rimaneva spesso desolatamente vuoto. Anche
in inverno ci si lavava con la sola acqua fredda ma, quando le temperature
erano particolarmente basse, le tubature che correvano esternamente sui muri
ghiacciavano e non ne usciva nemmeno una goccia. Il “bagno” se così possiamo
chiamarlo, era più appropriatamente chiamato “cesso” e altro non era che,
appunto, un vecchio water disposto in una mensola lignea ricavata poco al di
sotto del soffitto sopra l’ingresso di casa, alla quale si giungeva attraverso
una rumorosa scalinata di tavole di legno traballanti. Bisognava entrare chini
in quella sorta di soppalco, tanto era basso. Della carta igienica, per anni,
ne ignorammo l’esistenza; un grosso chiodo arrugginito piantato a fianco del
water faceva da sostegno per le strisce di carta ricavate dai giornali. Eravamo
considerati, dati l’atteggiamento ed il lavoro di Bruno, benestanti!
Nelle serate estive, al tramonto, le anziane del rione si ritrovavano spesso riunite negli usci delle case o nei cortili, a parlare e sparlare un po' di tutto e di tutti. Uno degli argomenti principe riguardava antiche superstizioni, strani riti e fenomeni paranormali. Anime dei morti, fantasmi, malocchi e possessioni facevano da argomento di quelle donne vestite di nero, quasi tutte con il rosario tenuto per mano o avvolto attorno ad un braccio. Dalla nostra casa, dicevano, la notte si sentiva il rumore di una tavola lignea sulla quale qualcuno lavorava la farina, e la spiegazione ufficiale fu che, ai tempi di nonno Pietro, in effetti c'era un forno nel quale si faceva il pane. Sentita questa teoria prestai attenzione, ed una notte sì, ecco che si sentiva un regolare rumore provenire dal nostro cortile: era il povero Pat, un nero bracco pointer che, legato ad una catena, babbo portava con se a caccia; russava rumorosamente e, a volte, sembrava davvero un rumore meccanico. Non osai dire niente in proposito, lasciai che la leggenda dello spirito panettiere continuasse ad aleggiare nel quartiere. Una di quelle notti Graziano e Angelo prepararono, in un angolo del cortile, un missile alimentato come al solito dalla abbondante polvere pirica di babbo. Era un tubo sopra il quale legarono un pupazzetto peloso di colore verde, e io ero li, nell'uscio del cortile, che li vidi accendere la miccia e tapparsi le orecchie. Una luminosissima fiammata per un attimo mi accecò, seguita da un fischio ed un botto finale, mentre il razzo ed il pupazzo raggiunsero il cielo e illuminarono i tetti delle case. Le vecchiette interruppero spaventate la loro riunione serale, qualcuna scappò via, altre rimasero a invocare le varie divinità della loro fede, definendo quella visione come espressione demoniaca. I due demoni infatti erano li, ridenti, mentre io cercavo di calmare il batticuore che mi procurò l'aver assistito a qualcosa di non molto "normale".
Spesso entravo a curiosare in quell’
antro buio che in casa chiamavamo “magazzino”, uno stanzone disposto al disotto
del piano stradale e nel quale penetrava luce attraverso una finestrella,
protetta da una rete metallica, che dava appunto sulla stradina, a livello del
ciottolato, di fianco ai due scalini di granito che costituivano l’ingresso
principale della casa. Era strapieno di
materiali e oggetti vari tra i più improbabili e inquietanti. Per un certo
tempo ci fu persino un particolare ospite: un magnifico avvoltoio monaco,
legato per una zampa a una catena e costretto a stare quasi immobile, con
un’ala cadente per via di una grossa ferita all’attaccatura. Negli anni 60 questo tipo di avvoltoio era
ancora presente in Sardegna e mi capitava di ammirarlo in volo o vederlo posato
a terra, mentre frugava in una delle numerose discariche di periferia in
compagnia del Nibbio reale ed altri volatili ora scomparsi. Questo esemplare
ferito, che a me gracile bambino appariva enorme, aveva avuto la sventura
di sorvolare la testa di Bruno mentre cacciava nelle campagne poco fuori città.
Babbo lo puntò con la doppietta e gli sparò colpendolo appunto ad una ala, in
un gesto di pura spacconeria nel quale voleva dimostrare la sua infallibile
mira, cosa che fece circa dieci anni prima con un avvoltoio grifone. Portatolo a casa, lo incatenò in quel buio stanzone, condannandolo così a
morte certa.
Tutti i giorni scendevo giù per vederlo
e portargli avanzi di carni di vario genere, specialmente di pollo, che mamma
mi passava in cucina e quei ritagli che chiedevamo in macelleria. Non avevo
affatto timore di quell’enorme ospite, anzi mi faceva molta compassione, aprivo la pesante porta di legno e il nostro
ospite, legato ad una zampa con una pesante e corta catena metallica assicurata
a un grosso ceppo di legno, abbassava la testa come un condannato che chiedeva
pietà. Con la mano gli porgevo quei
ritagli di carne ma non li degnava di attenzione, parlavo con lui ma le mie
suppliche non funzionavano. Seppure
bambino, sapevo già molto del regno animale e attingevo conoscenze in merito
leggendo qualsiasi libro o articolo che parlasse di animali. Sapevo già che
quel raro avvoltoio non poteva continuare a vivere in quelle condizioni.
L’attaccatura della sua ala era
sanguinante, spezzata dal “bel tiro” di un uomo che, più tardi, attirerà
sperticate lodi su di sé spacciandosi, tra l’altro, per grande naturalista.
“bè, lo diventerà dopo” si potrebbe pensare. Vedremo, se e quando
arriverà il “dopo”.
Una mattina fu per me un gran dispiacere ritrovare l’avvoltoio morto. Ricorderò ancora a lungo lo sguardo arreso, gli occhi neri ma lucenti di quel povero volatile che, di lì a poco, si sarebbe totalmente estinto in Sardegna, sterminato da una radicata ignoranza che fa di certe persone distruttori volontari del proprio ambiente.
Come vidi lui legato, così vedo, nel mio
pensare per immagini, certe persone
legate con solide catene alle tradizioni più barbare, condannati a vivere di
luoghi comuni e superstizioni. In quel tetro magazzino vi erano due fucili a
doppietta e relative munizioni, al
centro un grande tavolo di legno con il macchinario a leva che serviva per
costruire cartucce di vario calibro e i relativi contenitori
con pallini e pallettoni di varia misura. Altre lattine, anche di
grosse dimensioni, contenevano in abbondanza polveri da sparo, mentre un sacco
di juta appoggiato a terra era pieno di bianco e odoroso D.D.T. sottile quasi
come borotalco, che babbo aveva conservato e che, evidentemente ignorandone la
tossicità, di tanto in tanto spargeva negli angoli della casa e nel cortile, nel tentativo di eliminare le numerose blatte
che scorrazzavano ovunque, dispensa compresa. L’odore di quella polvere rimarrà per sempre nella mia memoria olfattiva;
è come respirarla ogni volta che si ripresenta nei miei ricordi, uno sgradevole
odore di veleno che, seppure è stato utile nel combattere la zanzara anofele,
non aveva più ragione di trovarsi a portata di mano in quegli anni 60.
Nel tavolone al centro del magazzino
trovava posto anche un lungo binario di forma ellittica con sopra un trenino
elettrico in metallo grigio, con sui fianchi la scritta Santa Fè e sul
tettuccio due luci, una rossa e una verde, e due vagoni al seguito.
Babbo era geloso di questo suo giocattolo e non voleva che lo si toccasse, era
tutto suo e io potevo limitarmi a osservarlo con ammirazione, cosa che facevo
volentieri specialmente quando lo metteva in marcia. In uno dei rari pomeriggi
che lui passò a casa libero dai soliti impegni nei monti o al mare, si dedicò a
costruire una galleria di cartapesta per quel suo prezioso giocattolo, senza
preoccuparsi di coinvolgermi in alcun modo. Potevo guardare e stare in
silenzio, ed era già un gran privilegio. La nuova ferrovia con galleria lo
riempì di orgoglio.
Nei tanti ripiani lignei disposti a
varie altezze alle pareti vi erano le
cose più inaspettate; boccette e barattoli in vetro pieni di
formalina che conservavano, perfettamente integri, rettili e
insetti, come un grosso millepiedi, salamandre di vario genere e colore, rospi
e ranocchi, un insetto stecco, scorpioni, tarantole, piccoli mammiferi e altre
varie bestioline. Per terra, diverse concrezioni minerali dall’aspetto lucente
e grossi pezzi di stalattiti e stalagmiti, ovviamente prelevati dalle
grotte da lui visitate e forse trovate già crollate a causa di eventi naturali.
Posta in alto sopra un mobile, attirava lo sguardo una bella grande cassa
militare chiusa da un grosso lucchetto, con impresso a vernice il nome di babbo
nei tipici caratteri militari.
Era la sua cassaforte personale e
conteneva, oltre a una confezione del fallimentare Spumajet, cose preziose e
ricordi di guerra. L’aveva portata con se di ritorno dalla prigionia in America.
In quel forziere militare, nel quale
ebbi occasione di sbirciare qualche volta, c’era una gran quantità di monete d’oro,
specialmente dollari, e monete d’argento tra le quali diverse decine di monete
da 500 lire con le Caravelle e la bandiera al contrario, molto rare e già
allora molto quotate in numismatica. Vi erano anche mazzette di banconote, soprattutto
dollari di grosso taglio. Tra i documenti, le sue tessere della Massoneria,
qualche manoscritto di chissà quale epoca o valore e dei taccuini nei quali
aveva tenuto un diario della sua avventura americana, scrivendone giorno per
giorno le esperienze e gli indirizzi dei graduati americani, con alcuni dei
quali tenne contatto epistolare. Non mi era concesso di fare domande o
esprimere qualsiasi curiosità sul contenuto di quella cassa; ogni cosa
eventualmente e casualmente vista doveva rimanere in me; tutto ciò che vedevo o sentivo doveva rimanere
li, tra le pareti di casa. Mai Bruno avrebbe tollerato il pur minimo
intaccamento della sua fama di gran gentiluomo, e non si stancava di ripetere
che dovevamo tacere su tutto.
GRAZIANO IL CHIRURGO
In fondo all'andito vi era una cameretta che apparteneva ad Angelo, quasi sempre assente e quindi a disposizione di Graziano per varie attività. Quella piccola stanza conteneva solo un lettino, qualche sedia e una antica cassapanca di legno intagliato a mano, tanto grande da poter contenere al suo interno una persona adulta sdraiata, e la si poteva richiudere al di sopra col proprio massiccio coperchio ligneo, normalmente tenuto aperto da una stecca basculante che si imperniava in una tacca del coperchio stesso per reggerne il notevole peso.
Un pomeriggio, passando davanti a quella stanza per accedere al cortile, vidi Graziano intento a far qualcosa di impegnativo sopra l'antica panca, chino sotto la luce di una potente lampada. Naturalmente mi ci avvicinai incuriosito e, incredulo e anche impaurito, vidi quel qualcosa di raccapricciante che mai potrei dimenticare: stesi e tenuti fermi da strisce di nastro adesivo c’erano, uno a fianco all’altro, un passerotto e un topolino che invano si agitavano nel tentativo di liberarsi. Graziano, che teneva tra le dita una lametta da barba, praticò un’apertura nei loro petti e, in un marasma di sangue che zampillava, tolse i cuoricini dai due sfortunati animaletti. Naturalmente - e per fortuna- sia il topo che il passero smisero di vivere e soffrire, mentre Graziano non la prese bene; il suo intervento chirurgico non riuscì. Cosa voleva fare lo disse lui stesso non tanto rivolto a me quanto, invece, a se stesso; scambiare i loro cuori, insomma mettere il cuore del topo al passero e viceversa. Che Graziano non fosse del tutto a posto di testa ne eravamo ormai già ben consapevoli, e questo evento ne diede ulteriore conferma. Quando il sadismo di Graziano raggiungeva i suoi apici, arrivava al punto di chiudermi dentro quella maledetta cassapanca, dal cui interno mi era impossibile aprirne il pesante coperchio, e lui decideva di riaprirla solo quando ormai ero sconvolto dal timore di non uscirne più, mezzo asfissiato dalla mancanza d’aria. Per rendere questo suo gioco ancora più divertente dal suo punto di vista, metteva dentro la cassa anche un teschio che portò a casa durante una sua visita assieme a babbo in qualche anfratto. Era un vero teschio umano e spesso, quando calavano le tenebre, gli disponeva due candeline accese dentro le orbite e lo posava sopra la cassettiera, davanti ai nostri letti. Dopo un breve periodo di “apprendistato” con questo suo lugubre feticcio, non ne provai più alcun timore e Graziano non ne ebbe più soddisfazione. Naturalmente non si perdeva d’animo e inventava cento altre cose per spaventarmi o provocarmi dolore. Più di una volta mise pezzi di carburo acceso sotto il mio letto mentre dormivo, col rischio che non mi risvegliassi più. Sotto la prima rampata di scale che scendeva dal primo piano della casa verso il portone, vi era una nicchia nel muro con un vecchio contatore della luce e relativo interruttore; una sera Graziano provocò volutamente un corto circuito che fece scattare la levetta, e mi ordinò di scendere a riattivarla; feci le scale al buio e, sempre a tentoni, sollevai con forza quella dura levetta per riattivare il contatore. Un dolore acuto al dito e le sue risate sadiche mi fecero tardivamente capire che quel blackout non era stato per niente accidentale; con nel dito alcuni tagli sanguinanti, vidi che nella levetta aveva incollato delle schegge di vetro sottile, apposta per farmi del male, ben consapevole che non avrei potuto lamentarmene con nessuno.
IL
BOMBAROLO
Un uomo previdente avrebbe avuto
l’accortezza di chiudere bene a chiave la porta di uno stanzone pieno di
sostanze pericolose, Bruno invece lo lasciava aperto e, in sua assenza,
chiunque di noi poteva avere accesso ad armi, esplosivi, sostanze chimiche e
tossiche, attrezzi taglienti e veleni di varia natura. Il secondogenito
Graziano, da sempre attratto dalle sostanze esplosive, ci si riforniva
spesso per costruire ordigni di vario genere e potenza, spesso mettendo in
allarme l’intero quartiere e non solo e, soprattutto, facendoci rischiare di
saltare tutti in aria.
Un bel gattone bianco, forse fuggito al
controllo dei suoi proprietari, un mattino entrò nel nostro cortile per
curiosare e fu trattenuto da Graziano e Angelo; lo coccolarono e, a tarda sera, mentre io erroneamente
credevo che ci si fossero affezionati, gli attaccarono un grosso petardo
artigianale nel ventre, accesero la miccia e lo cacciarono via affinché
corresse nei vicoli dietro il cortile di casa.
Percorsi una ventina di metri, il gatto esplose in mille pezzi riempiendo i muri dei vicini cortili di
brandelli e sangue. Lo scoppio allarmò tutto il vicinato e, assieme ai resti
dello sfortunato gatto, divenne l’argomento di tutto il quartiere per i
successivi giorni, con grande gioia e soddisfazione dei fautori di cotanta
spavalderia, mentre i vicini non seppero mai chi fu il responsabile o,
perlomeno, fecero finta di non saperlo.
Bruno, pubblicamente, fece orecchie da mercante e si mostrò disinteressato delle voci sentite in proposito, ma una volta a casa, come fu nel suo solito agire, anziché affrontare i diretti responsabili sfogò i nervi su chi era presente in casa in quel momento; la moglie e io. Non era che una delle sue tante infinite sfuriate dovute alle malefatte dei due figli grandi, dei quali era palese che ne temesse eventuali reazioni; se ne guardava bene dal rimproverarli direttamente. Molto più comodo e facile alzare le voci e le mani in loro assenza e mettere in croce me e mamma. In presenza dei due figli più grandi il suo atteggiamento diveniva passivo, comprensivo, accomodante. Che ne avesse vera e propria paura lo rivelerà ancor meglio durante il corso della sua vita e, specialmente, nel suo finale. Graziano, così come Angelo, aveva preso dal padre il gene del menefreghismo estremo, quello che traccia il cammino del carattere per tutta la vita e il cui principio è "fare quello che mi pare e mi piace, sempre e comunque". Nessuna empatia verso chiunque, solo egoismo. Come innesco agli ordigni che si divertiva a costruire, usava i bulbi dei flash per le macchine fotografiche, li collegava a due lunghi e sottili fili telefonici e bastava una piccola batteria per farli bruciare, provocando una reazione luminosa e calda. In qualche occasione realizzava dei timer con vecchie sveglie, facendo in modo che il contatto alla batteria venisse dato, per sfregamento, da due contatti incollati al quadrante e alle lancette. Con tutto questo viavai di esplosivi, ancora mi chiedo come sia stato possibile non essere saltati tutti in aria.
Mentre faceva un giro in macchina con un suo amico, Graziano, la cui guida era estremamente spericolata, ebbe uno dei tanti incidenti dai quali uscì sempre intero, mentre il suo amico sbatté violentemente la testa. Anziché portarlo al pronto soccorso lo lasciò, smemorato e intontito, per strada nei pressi della sua abitazione. Quello sfortunato ragazzo non si riprese mai più, perse la memoria e iniziò a vagare per la strada con lo sguardo perso, del tutto inconsapevole di quanto gli era capitato. Graziano rideva quando lo incrociava per strada, rideva divertito e additava quel "povero scemo" così, come se niente fosse, come se non fosse stato lui il principale responsabile di una vita spezzata, resa difficile se non impossibile. Il suo ego non era affatto distante da quello geneticamente trasmessogli dal padre, e per tutta la vita ne seguirà gli stessi principi, tanto che avrà sempre appresso nelle sue avventure al mare (dove pescava di frodo la notte con l'uso delle bombole) la più giovane amante, una stolta ragazza che sfidava persino la moglie dandole da lavare, alla fine delle giornate al mare, i propri indumenti intimi.
MOMENTI RARI
Per fortuna, in mezzo a tante giornate che sarebbe meglio dimenticare, appariva a sorpresa qualche giornata spensierata delle quali è piacevole il ricordo, come quando babbo si degnava di portarci a qualche spuntino per famiglie organizzato dalla sua “elite” di amici speleologi.
In quelle occasioni pubbliche Bruno e Maddalena apparivano, probabilmente, come una normale coppia senza particolari problemi, ma per non far mai sfigurare la sua immagine pubblica di uomo tutto d’un pezzo, era importante - anzi indispensabile e indiscutibile - comportarsi esattamente come lui ordinava e secondo le direttive che ci dettava preventivamente. Io dovevo parlare il meno possibile, non chiedere mai niente a nessuno, non fare domande e rifiutare qualsiasi eventuale dono, anche se questo fosse rappresentato dalle caramelle più buone del mondo. Dovevo dire esattamente “grazie no” anche dopo eventuali insistenze, non usare mai il “ciao” se non espressamente concesso, ma solo buongiorno e buonasera e, ovviamente, col dovuto garbo e compostezza. Guai ad appoggiare il gomito sul bordo di un tavolo, guai a tenere un cucchiaio con la sinistra (sono sempre stato ambidestro, quindi per me era del tutto indifferente), guai a fare un qualsiasi gesto durante i pasti, guai a non obbedire ciecamente a uno qualunque dei sui ordini, spesso impartiti attraverso un solo deciso sguardo minaccioso. Uno dei suoi tanti amici, in occasione di uno di quei spuntini (nei quali, se non altro, riuscivo a mangiare qualcosa di decente), mentre mi divertivo a curiosare tra gli alberi e i cespugli per scoprire forme di vita animale, mi si avvicinò e, con sgradevole alito alcolico, disse “voi figli di Bruno non valete nemmeno un’unghia di vostro padre”. La già carente autostima di un bimbo di 8 anni calò di qualche ulteriore punto, salvo poi, passati circa altri 10 anni, ritrovare il tizio in un momento di sobrietà e sentirgli chiedere scusa per quella frase infelice. Sempre, comunque, erano garantiti viaggi spericolati nei quali ero costretto a chiedere un paio di soste per rimettere, scatenando l'ira di babbo che, nella sua lungimiranza, mi accusava di essere troppo debole di stomaco. Prepotente anche durante la guida, non disdegnava di sfidare altri automobilisti che osavano sorpassarlo; forte degli effetti del vino che immancabilmente trincava, premeva l'acceleratore con rabbia e fu così che, una notte, fece volare in una scarpata uno sfortunato motociclista che guidava una Guzzi rossa. Lo affiancò stringendolo verso il bordo finché lo costrinse a salvarsi gettandosi fuori strada, una scena che vidi molto bene perché avvenne proprio a fianco del finestrino posteriore, dal quale cercavo di respirare un po' di aria che non fosse quella malefica, alcolica e fumosa dell'abitacolo di quella Simca 1300. Non so che fine fece quel centauro, se si salvò o meno, nessuno assistette al fatto e, ancora una volta, Bruno Piredda se la cavò senza intoppi.
UBRIACHEZZE MOLESTE
Ecco, in quello che è il film della vita
che tutti noi recitiamo più o meno consapevolmente, ci sono momenti nei quali
si ha l’impressione che avvenga un cambio di regia, il copione prende una
strada inattesa e ti rimangono impressi per sempre quei terribili fotogrammi che
appaiono come decisi da uno sceneggiatore crudele; fu in una ennesima indimenticabile
occasione che dovetti vedere, e purtroppo non fu l’unica volta, mia madre
piangente e sanguinante, seduta nello scalino che separava la cucina
dall’andito, dopo una violenta discussione tra i due nata dopo che le riferirono di una
gentile signora che, durante una delle solite permanenze in grotta, si era
infilata dentro il sacco a pelo di Bruno. Maddalena, incapace di
accettare uno sgarro del genere e per giunta attuato in presenza di molte
persone, osò pretendere rispetto, scatenando così la violenta reazione di un
uomo pieno di sé e pieno di vino.
Dovette essere molto delusa da quello
che, un tempo impacchettato da buon ufficiale di cavalleria, le
dimostrava ora di essere un qualunque cialtrone, ma di quelli che si presentano
in confezione regalo e ben infiocchettati.
Il crudele sceneggiatore di questa parte
di film mi mise davanti alla mia stanza, in fondo all’andito, svegliatomi dalle
urla di rabbia di lui e da quelle, di dolore, di mia madre. La scena era da
film dell’orrore e la ricorderò sempre in cima a tante altre nottate e giornate
della mia non spensierata fanciullezza. Vedevo lei, il pianto che si mischiava al sangue e le
attraversava le braccia fino a gocciolare nel pavimento di tavole di legno, il
suo singhiozzare, mentre lo spavento mi impietriva. Bruno continuò tirandole i
capelli e la minacciò con la pistola, poi si girò verso le scale che portavano al
cortile e alla sua macchina mentre minacciava di voler andare a suicidarsi
piuttosto che vivere senza poter fare tutto - ma proprio tutto- quello che
voleva. Si girò a guardarmi mentre ero paralizzato dalla paura in fondo
all’andito e mi rivolse queste parole: “addio vado ad ammazzarmi, non tornerò
mai più”.
Piansi per tutta la notte, preoccupato,
nonostante tutto, per un padre che pensavo già morto e una madre che ancora
tremava e piangeva sanguinante. Qualche vicino chiamò l’ambulanza ma Maddalena
non volle essere ricoverata, e neppure parlò di quello che era accaduto, in
qualche modo giustificò le sue ferite e si fece curare a casa. Di denunciare il
marito, come consigliatole più volte da qualche vicina di casa, non ne voleva
sapere, aveva il timore di doversi separare, nutriva la speranza che un giorno
qualcosa potesse cambiare e volgere verso qualcosa di meglio e, inoltre, temeva
di non essere creduta né capita; in fondo, pensava di non poter competere,
quanto a credibilità, con un uomo tanto conosciuto e stimato persino dalle
cosiddette autorità, all’esterno di
quelle mura maledette.
Ho capito per intero e solamente molto
tempo dopo, quanti immani sforzi fece quella donna per tenere una pace
familiare che era flebile, sempre in equilibrio su una tagliente lama, affilata
dalla pietra abrasiva di un destino ignobile.
Involontario partecipante a quella farsa
che era la vita e dopo aver già vissuto situazioni a dir poco spaventose, verso
i 6 anni e mezzo mi ammalai seriamente. Inizialmente passai alcuni giorni a
letto con forti dolori addominali e febbre. Solitamente, dei miei malesseri
importava un bel niente a nessuno; sottopeso per scarsa e impropria alimentazione,
coi denti compromessi ed il fegato già stressato - come si scoprirà più avanti - nessuno si preoccupò mai di farmi fare delle
analisi o visite mediche. Ma quella volta, si aggiunse un terribile prurito
alla schiena che costrinse mia madre a darci uno sguardo e scoprire che avevo
delle macchie rosse.
PSORIASI
E AMOREVOLI CURE
Mamma chiamò, nonostante i “consigli” di
Bruno di non disturbare mai nessuno, un medico che abitava davanti a noi e che
ci era anche imparentato. Visitandomi, non ebbe alcun dubbio; quelle erano
macchie di psoriasi, una malattia molto spesso a forte valenza psicosomatica e
la cui origine è determinata da forti spaventi e stress. Poteva essere diversamente, dato l’ambiente
che mi circondava?
Sarebbe stato meglio per me se nessuno
avesse mai parlato di quelle macchie con mio padre al suo ritorno, molto meglio
se mi avesse totalmente ignorato. Invece seppe della visita del medico e
delle sue raccomandazioni: “cercate di
farlo stare tranquillo e portatelo qualche ora al mare, può trarre beneficio dall’acqua di mare e dalla
luce solare”.
Figuriamoci se Bruno poteva sacrificare
giornate non dedicandole a se stesso, trovò meno impegnativo e più economico improvvisarsi
mago, medico e stregone, e si mise
all’opera per elaborare i suoi rimedi casalinghi; “farò a modo mio!”.
Il “modo suo” ahimè,
consistette nell’usarmi da cavia e nel provare su quelle mie macchie tutto quello che la fantasia gli
poteva suggerire. Mi sistemò a torso nudo a cavalcioni di una medievale lugubre
sedia nera, nella stanza davanti alla
cucina con il caminetto, unica fonte di
calore di tutta la casa. Ordine perentorio: stare fermo e lasciarlo fare. Il
primissimo trattamento consistette nello spalmarmi sulle macchie
abbondanti quantità di dentifricio e attendere che si asciugasse, per poi raschiare via tutto ciò che rimaneva
con una lametta da barba appena tolta dalla sua cartina protettiva. Tutto ciò
ripassando più volte con insistenza, fino non solo a toglier via lo strato di
dentifricio secco, ma far affiorare i
pori sottocutanei sanguinanti, e più avanti nei giorni gli spessi strati
cheratinici creatisi attorno e sopra le macchie; praticamente, rimuoveva
persino lo strato dermico che tentava di ricostruirsi dopo le offese subite dal
passaggio della lametta. Alcuni giorni di quel primo trattamento furono
sufficienti a peggiorare la consistenza ed il numero delle macchie, mentre
difficilmente potrei riuscire a descrivere il peggioramento dei miei dolori
fisici e psicologici.
Stringevo i denti e lacrimavo, il dolore
provocatomi dal dentifricio su quelle ferite era un tormento che non potevo
esternare attraverso le urla che meritava. Con le mani tenevo i due lati della
spalliera di quella maledetta sedia e torcevo come a voler spezzare i legni,
torcevo e stringevo fino a lasciarmi i segni nelle dita, ma il sadico futuro
“buon vecchio della montagna, vecchio saggio, mago delle erbe” continuava
imperterrito nel propinarmi le sue amorevoli cure maledette.
Credo che chiunque, non necessariamente
studioso di medicina, avrebbe potuto
intuire la dannosità del dentifricio sulle macchie psoriasiche. Così sarebbe
stato, almeno, per una persona normale. Bruno Piredda non era tipo da arrendersi
facilmente. Ormai la terapia era iniziata e, cocciutamente, voleva portarla a
termine. Mai arrendersi al primo tentativo fallito, diceva. Le macchie, dopo tante ore di quel trattamento già più
grandi e infiammate, mi fecero passare giorni e notti di dolori e fastidi
indicibili in tutta la schiena e le spalle. Arrivò così una seconda dose di
terapie; il novello Dottor Piredda purtroppo decise, di ritorno da una normalissima
serata al bar, di prestarmi nuovamente la sua amorevole attenzione.
Dovetti nuovamente mettermi cavalcioni
su quella che ormai -per me- era e sarà sempre nella memoria la sedia delle
torture; stavolta Bruno avrebbe utilizzato un altro farmaco sperimentale, il
succo di limone! Nessun termine sarebbe sufficiente a descrivere cosa provavo.
Non potevo oppormi a quei trattamenti, arrivavo al punto di mordere lo
schienale della sedia per non urlare dal dolore e dal bruciore, stringevo le
braccia sul dorso della sedia, speravo
nella caduta di un meteorite e lacrimavo, mentre sentivo il succo del limone
bruciare in quelle che, ormai, erano diventate vere e proprie piaghe. Mia madre, timidamente quanto inutilmente,
tentava di farlo desistere. Guardava di soppiatto e dalla sua espressione
traspariva l’orrore nel vedere come stava diventando la mia schiena a seguito
di quei trattamenti. Imperterrito, lui continuava a spremere limoni, che dopo un paio di giorni
si rivelarono non propriamente indicati, similmente al dentifricio. Insisteva a
voler allisciare quello sfogo condito al limone con la lametta da barba, e io
iniziavo a dimenarmi e lamentarmi; per farmi stare fermo “perché è pericoloso
muoverti quando uso la lametta...”(sic!) iniziò ad assicurarmi alla sedia con
uno spezzone di fune rossa e gialla, lungo qualche metro, prelevato dalle sue
funi di sicurezza usate in speleologia e alpinismo.
Pur non essendo stretta all’eccesso,
quella fune intorno alla vita ed alle braccia, col sudore dovuto al caldo
estivo e alla mia agitazione, corrodeva le parti ancora sane della mia pelle.
Alla terza fase del suo impegno curativo, babbo
passò con abbondante cotone un liquido scuro che emanava un forte odore
alcolico, qualcosa di simile alla trementina. Non so di cosa si trattasse
esattamente, probabilmente un miscuglio casuale delle tante sostanze che teneva
nel maledetto magazzino sottostante alla sala delle torture. So però che, dopo altre ennesime notti passate
alquanto male, mi ritrovai con la schiena che era ormai una unica e spessa
macchia dal colore rosso vivo, che sentivo bruciare e pulsare come se il cuore
ci volesse passare attraverso.
Maddalena non osava intervenire se non
per consigliargli, timidamente, di lasciarmi alle cure del medico o dell’ospedale,
ma come Bruno le raccomandava sempre “non disturbare nessuno, non dobbiamo mai
chiedere niente a nessuno, nemmeno se dovesse sembrarti indispensabile!”. Ecco il difetto dell’essere
troppo arrendevoli, ecco le paure derivanti dalle minacce che arrivano al punto
di vedersi puntare una pistola alla testa, ecco quelli che poi diverranno sensi
di colpa per il resto della vita: non essere riuscita a vincere i suoi timori
in quei momenti nei quali dovresti diventare tigre, anziché restare mite
agnello.
Gli anni 60 erano tempi molto diversi da
questi attuali, almeno da queste parti; una donna non poteva andare tanto
facilmente contro il marito e non aveva nemmeno una parte dei diritti
attualmente riconosciuti. Sapeva che, se avesse chiamato i carabinieri,
probabilmente avrebbero giustificato quel capofamiglia o,
quantomeno, ne sarebbe scaturita una dura reazione da parte di
Bruno, che già aveva dimostrato di saper alzare, oltre alle voci, anche le
mani. Non si poteva fare e basta, Bruno Piredda era un “intoccabile”, troppo
stimato e con conoscenze altolocate che lo avrebbero sicuramente difeso,
giustificato, tirato fuori dai guai. Ed era massone, cosa di non poco conto.
Ennesimo giorno di trattamento; quello
che in futuro sarà conosciuto come “mago
delle erbe” e “vecchio saggio” mi fece di nuovo accomodare sulla sedia delle
torture. Non tentavo nemmeno di sottrarmi ai suoi tormenti, sarebbe stato
inutile. Questa volta preparò, col fuocherello
fatto nel caminetto, un impasto nero a base di sughero bruciato e poi macinato,
mischiato a chissà quale altro ingrediente
liquido rimasto sconosciuto e impastato ancora fumante in un piattino di
cucina. Me lo spalmò ancora molto caldo
su tutta la schiena, mentre morsicavo la già rosicata spalliera della sedia per
non gridare dal dolore, che sembrava indotto da mille diavoli che pungevano con
forconi ardenti. Con le mani continuavo
a torcere i due supporti della spalliera come per volerli spezzare, ma le forze
erano sempre meno e quel legno ben stagionato rimaneva impassibile al mio
dolore. Quando quella robaccia mi si raffreddò addosso e si indurì,
il mio personal trainer la afferrò per i lembi e la tirò via pezzo dopo pezzo,
come quando si stacca una etichetta ben incollata da un barattolo. Vidi la
faccia di mia madre che, guardandone il risultato, sgranò gli occhi e si mise
le mani sulla fronte, osando pronunciare
un “Dio mio... Bruno forse è meglio chiamare l’ambulanza...” Gli bastò
lo sguardo seccato di suo marito per metterla a tacere e allontanare da lei l’idea
malsana di farmi curare da chi, forse più di lui, era in grado di farlo, con
però il rischio elevato di esternare le sue sperimentazioni su di me attraverso
quelle che, ormai erano diventate vere e proprie piaghe. Un rischio che un
grande uomo come lui non avrebbe voluto correre.
Stringere per ore quella sedia, ogni
giorno e per tanti giorni, addirittura mi fece sviluppare un muscolo
all’interno del braccio che spiccava sulle flebili braccine di allora e che ho
ancora adesso, due muscoletti che normalmente sono atrofizzati e molto rari
persino nei culturisti. Li porterò sempre con me come ricordo di qualcosa che
avrei preferito dimenticare, e purtroppo in compagnia di altri segni di quel
passato. La psoriasi non solo era ancora
lì al suo posto e non miracolosamente sparita come Bruno, evidentemente, si
aspettava, ma era ancora notevolmente
peggiorata, variegata da sottili solchi sanguinolenti che parevano ottenuti da
un bisturi. Al mattino tutti quei solchi lasciavano testimonianza nel lenzuolo
sul quale passavo la notte, le piaghe sanguinavano e lentamente tentavano di
richiudersi, finché un minimo movimento o sfregamento le riapriva.
Finalmente arrivò il momento buono e
Bruno smise di torturarmi, forse per sopraggiunta stanchezza. Mai
ammetterà, comunque, di avermi peggiorato una situazione che, già di per sé,
era nata da condizioni familiari quantomeno deleterie che lui stesso avrebbe
dovuto, o quantomeno potuto, evitare.
Capitò dopo qualche tempo che
un medico serio e preparato, tornato a Nuoro dall’estero, mi visitò
casualmente dato che passò a casa a salutare il suo parente Bruno.
“La psoriasi ha degli aspetti spesso
sorprendenti” disse, “può peggiorare notevolmente nel giro di poche ore come
anche sparire spontaneamente. Se aveste evitato di intervenire con prodotti non
appropriati, magari a quest’ora se ne sarebbe andata da sola o, quantomeno, non
sarebbe a questi livelli di estrema gravità”. Naturalmente nessuno gli disse
che ero stato sottoposto a “cure” non convenzionali, di essere stato
letteralmente usato come cavia di laboratorio, dissero solo di avermi spalmato
delle generiche creme per le mani. Di certo
non potevo raccontargli io come in realtà andarono le cose, sembrerà strano, lo
so, ma quello che oggi viene ricordato come il “buon vecchio saggio”
non solo alzava le mani sulla moglie, ma pestava volentieri anche un figlio
ammalato, rachitico e indifeso. E non c’era neppure bisogno che gliene dessi la
scusa.
ERA
UN MAGO ANCHE CON LE CINGHIE
Era un pomeriggio di primavera e,
dovendo fare i compiti scolastici, osai chiedere la mia penna a Graziano, che in quel momento
pasticciava su un fumetto in compagnia di un suo amico; la mia richiesta lo
innervosì e, per tutta risposta, me la
lanciò con forza beccandomi in pieno una vena della mano destra con la punta.
Esattamente, quella grossa vena nel dorso che forma quasi una S e va a
confluire tra l’anulare e il medio. Iniziò a fuoriuscire il sangue
copiosamente, vidi il tavolato sotto di me riempirsi di rosso e pensai, muto
dallo spavento, che sarei morto.
Arrivò mamma, attratta dalle variegate
bestemmie di Graziano, e vide che la mia mano ed il pavimento erano pieni di
sangue. Corse a prendere qualcosa e provò a stringermi attorno alla mano una
enorme quantità di cotone, peggiorando così l’emorragia. Finalmente per una
volta mise da parte i timori e decise di
chiamare l’ambulanza. Al pronto soccorso mi curarono e raccomandarono a
Maddalena di non fare più la fesseria di mettere cotone su una emorragia. E, se
possibile, di farmi mangiare qualche bistecca, dato che ero
spaventosamente pallido e magro. Delle piaghe nessuno ne accennò e passarono
inosservate.
Tornati a casa, tutto sembrava
finalmente tranquillo finché non ritornò il capofamiglia dal suo solito giro di
“relazioni sociali”, come amava chiamare le soste nei bar. Alterato,
sbronzo e innervosito da chissà cosa, fortemente convinto che quello da punire fossi
io, colpevole di aver scatenato i malumori per aver osato chiedere di riavere
la mia penna. Mi lanciò contro un divano
e si sfilò la cinta dai pantaloni, fendendola in mia direzione più volte fino a
non rendersi nemmeno conto che, ad un certo punto, mi batteva nella schiena con
la parte della fibbia metallica. Ricordo ancora quel sopraggiunto nuovo dolore
lancinante, ricordo le sue urla con la vociona impastata dal vino, ricordo di
aver gridato di dolore e, improvvisamente, a seguito di bagliori di mille
stelline nei miei occhi, tutto si fece buio.
Mi ritrovai, evidentemente dopo uno svenimento, steso nel mio lettino, con
mamma a fianco che piangeva e con profonde ferite nella schiena che
affioravano, vistose, in mezzo a quella estesa macchia di psoriasi e le
cicatrici che, ormai, si erano indelebilmente fissate dopo il continuo sfregare
del pezzo di fune. Anche quella volta la
cura fu del tutto casalinga: una spruzzata di abbondante alcool. Ancora
giornate e nottate di dolori, di sensi di colpa, di animo che sprofondava nel
fondo di un pozzo nero.
Mi viene solo questo termine: FOLLIA.
Dovevamo tacere su tutto ciò che
accadeva tra quelle mura e non
lamentarci mai di niente, temevo fratelli e genitori perché tutti
loro erano artefici o perlomeno complici di tanta nefandezza e vivevo un
profondo stato di odio nei confronti della vita. Sarebbe stato molto
meglio se mia madre avesse preso il coraggio di scappare via, meglio ancora se
mi avessero abbandonato in un convento, qualunque cosa sarebbe stata una
alternativa migliore al continuare a vivere quella vita.
Nonostante tutto riuscivo - sempre grazie alla grande autodifesa insita nel cervello di un bambino - a vivere qualche momento di felicità tutta mia. Ho trovato, nel tempo, la spiegazione psicologica al reagire che mi permetteva di essere sempre sorridente quando non assistevo ai soliti drammi familiari, quando ero a scuola o per la strada; ero così ingenuamente bambino da non pensare più alle brutture passate, mi godevo i pochi e rari momenti di serenità facendo finta di essere un qualsiasi bambino spensierato, e come tale mi vedevano le persone che mi guardavano. Passavo ore intere nel cortile, quando tutti erano impegnati in qualcosa che non fosse il farmi del male, io mi dedicavo a osservare gli insetti, le lucertole, qualunque cosa avesse vita lì ai piedi del sambuco, dell’alloro, tra i gerani e la menta o tra le pietre del muretto che separava il cortile dai vicini e dalla strada. Imparai molte cose sulla vita degli animali, del ragnetto che battezzai “pigliamosche” anche se il suo vero nome é quello di ragno saltatore, che tendeva agguati specialmente alle mosche per paralizzarle e svuotarle lentamente per nutrirsene, lasciandone solo l’esile corazza esterna. Nessun insetto o animale mi faceva paura, toccavo qualsiasi ragno, qualsiasi insetto strisciante o volante, e un pomeriggio presi nel palmo della mano persino il piccolo scorpione pallido che trovai sotto una pietra. Era normale persino giocare con le nere pulci, che babbo portava con se in abbondanza dalle sue scampagnate, le trovavo nel mio letto e, allora, mi pareva una cosa del tutto normale. Provavo tristezza quando, di ritorno dalla caccia, babbo deponeva beccacce, tordi e pernici in una capiente cesta. L'odore di quella cacciagione era ancora quello della vita, ma con la sfumatura dell'amara fine. Ne guardavo il piumaggio, mi chiedevo il senso della vita e la sua apoteosi nella fine. Ma pensavo, anche, che ognuna di quelle pernici avrebbe potuto fare e covare più di venti uova, e da ognuna di quelle uova si sarebbe ripetuta la moltiplicazione. Come successe per l'avvoltoio monaco, molti di quei volatili sarebbero diventati rari o estinti, e sono ormai molti decenni che non si vede una beccaccia in questa zona. Nella mia camera ero solito leggere tutto ciò che mi capitava, e ciò che capitava era davvero tanto, avendo a disposizione quel gran numero di libri di proprietà di mamma e di enciclopedie, oltre che di riviste scientifiche di vario genere. Mi piaceva così tanto leggere e usare la penna che, arrivato a scuola alla prima elementare, già sapevo anche scrivere, come testimoniano decine di fogli di quaderno che son riuscito a conservare indenni, diversamente da tanti altri documenti che, purtroppo, sono andati distrutti dalle furie famigliari. Ero un bel bambino, dicevano le anziane del rione, e una in particolare mi si avvicinava quando camminavo solo, per chiedermi un bacio. Era magrissima e col naso adunco, vestita di nero e col "muchadore" attorno alla testa, come usavano le vedove sarde a quei tempi. Io mi allontanavo, la vedevo al pari delle streghe tanto presenti nelle fiabe, ma lei insisteva: "dammelo un bacetto, che io ti regalo un marengo d'oro!". Diffidente, non le diedi mai il bacio e non credetti al marengo doro, ma forse feci male; quando quella "strega" morì, sola e senza parenti, trovarono nel tavolo della sua cucina un cestino pieno di autentici marenghi d'oro!
Maddalena, dal canto suo, continuava a
far di tutto per non far crollare quella baracca che era la nostra famiglia, ma
solo lei sapeva quanto le costasse. Ricordo quello che iniziò come un bel
giorno di primavera, lei che mi teneva per mano mentre tornavamo a casa dopo
aver comprato una grande pagnotta da un negozio di alimentari non lontano da
casa. Ci venne incontro babbo con un cipiglio che non prometteva niente di buono
e, mentre teneva nervosamente la pipa tra le labbra, raccontò a Maddalena che
Figliounico gli aveva sottratto le monete d’oro e argento che custodiva
all’interno della sua cassa militare.
Con le conoscenze che aveva, non
ci mise molto a scoprire che erano state vendute a un orafo per poi pagare un
gioiello in oro che Figliounico regalò a qualcuna delle tante ragazze che
frequentava. Ecco, ancora una volta quella che avrebbe potuto essere una giornata con qualche vaga
parvenza di “normalità” fu compromessa. E fu compromessa anche la giornata
successiva dato che Bruno, come suo solito, anziché prendersela col diretto
responsabile sfogò tutta la sua rabbia sugli anelli più deboli della catena
familiare.
Figliounico e Graziano potevano
elegantemente svicolare dai guai come e quando volevano; io no e nemmeno mamma
Maddalena.
Perennemente sotto stress e in uno stato di continua umiliazione, mangiavo poco e malvolentieri, troppo spesso saltavo il pranzo o la cena, ma anche ambedue. Magrissimo e debole, con le piaghe alla schiena e le piaghe nell’animo, forse ancor peggiori queste ultime. Invidiavo i compagni di scuola e le loro profumate merende, quei loro panini che trasbordavano di salumi o formaggi, invidiavo quelli che potevano rincasare senza timore di trovare una madre piangente e un padre urlante, come quegli amici di strada coi quali giocavo ma con i quali avevo ben poco da condividere. Una volta, nell’ennesimo atto semitragico di una discussione, mi passò a pochi centimetri dalla testa un pesante piatto di ceramica lanciato da Bruno verso la finestra che dava sul cortile; numerose schegge di vetro mi presero in pieno nelle braccia e nel volto. Graziano, con sadismo, distruggeva tutti gli eventuali giochini che mi venivano regalati o che trovavo nelle patatine o nel detersivo, come si usava allora. Erano cose di poco valore ma non per me, che giocando ci passavo qualche minuto di spensieratezza; macchinette, aeroplanini, trenini e soldatini finivano, presi tra le pinze del caminetto, bruciati uno dopo l’altro, mentre lui rideva sadicamente e mi guardava divertito con odioso cipiglio. Nel frattempo, respiravamo il puzzolentissimo fumo nero della plastica fusa. Un altro dei suoi passatempi preferiti era farmi ogni possibile dispetto, come quando si sedeva davanti a me e mi imponeva di stare assolutamente immobile finché non resistevo e battevo le ciglia; era quello che aspettava per prendermi a schiaffi o darmi forti pizzichi finché non mi vedeva piangere di dolore e, a quel punto, mi imponeva il silenzio minacciando rappresaglie ancor peggiori. Mamma troppo impegnata a leccarsi le ferite, babbo troppo impegnato fuori casa, restavo solo e subivo senza intravvedere nessuno che potesse aiutarmi. Figliounico molto raramente presente, impegnato in quel ruolo di cui tanto si vantava: fare il playboy, amava dire a chi lo frequentava di essere figlio unico e nipote di un ricco possidente, e che tale sarebbe diventato anche lui. Col tempo risultò sempre più evidente che lo credesse veramente, e il bello è che il tempo gli diede ragione, grazie ai sotterfugi, alle prepotenze, ai metodi studiati a tavolino dalla sua mente calcolatrice. Un giorno, nella sua carta di identità, alla voce "professione", ci farà scrivere POSSIDENTE.
Una sera Bruno rincasò da una delle sue
diecimila scampagnate con gli amici, aprì la porta di casa con insolita
lentezza e bisbigliando cose incomprensibili, barcollò nell’andito e fece
appena in tempo a buttarsi sul letto, vomitare vino e vermi e chiedere aiuto.
Lo caricarono sull’ambulanza e all’ospedale gli fecero una lavanda gastrica per
attenuare l’intossicazione da formaggio marcio associato alla
potente sbornia.
UN TIPO
IN GAMBA
Dal
punto di vista dei suoi numerosi amici, Bruno era ovviamente considerato un
tipo in gamba; la sua generosità nei bar era proverbiale, la sua
disponibilità a qualsiasi ora anche, qualunque fosse il problema dell’amico,
amico dell’amico, oppure parente di un amico.
Era sempre pronto a preoccuparsene e occuparsene. Sempre disponibile alle bevute, alle
spedizioni in campagne mari e monti, a giornate di pesca e di caccia e chissà
di quanto altro.
Facile
immedesimarsi nel suo amico-tipo; bastava essere un adulatore e contribuire ad
aggiungere aria nel pallone, che più si gonfiava e meglio stava in loro
compagnia.
Difficile,
a quanto pare, immedesimarsi in chi, di tale pallone troppo gonfio, doveva
subirne le prepotenze.
Un
certo periodo lo vedemmo impegnatissimo dopo che lesse, in un quotidiano
locale, che un suo amico era stato arrestato per aver sottratto denaro al suo datore mentre
lavorava come ragioniere. Si agitò e preoccupò come se fosse una questione sua
personale, prese la cornetta del telefono e iniziò un lungo giro di telefonate
e incontri coinvolgendo alcuni suoi fratelli di Massoneria.
Non
solo lo tirò fuori dai guai, ma riuscì persino a farlo studiare e promuovere
per fargli dare un importante impiego ministeriale. Bruno non mancò, in più di
una occasione e in presenza della moglie Maddalena, di malignare - con quel
suo mezzo sorriso ironico e strafottente che noi in famiglia conoscevamo bene -
che il suo amico doveva tutto alla disponibilità della propria moglie. Buono
generoso e comprensivo davanti agli amici, in loro assenza dimostrava la sua
vera natura urticante e umiliante. Mamma stessa, comunque, non credette mai a
quelle affermazioni e le prese con la dovuta ponderatezza, definendole -
ovviamente non in sua presenza - come le “parole di una persona dalla
personalità eccessivamente misogina ed esaltata”. La misoginia di Bruno era, in
effetti, qualcosa che avrebbe destato molto interesse in qualche bravo
studioso. La esprimerà ancora al meglio (o peggio) più tardi, quando diverrà quel “vecchio
saggio” che ad alcuni fa comodo ricordare, dimostrando, almeno a noi familiari
e a chi ha avuto modo di conoscerlo bene veramente, che mai tale nomignolo fu
più immeritato.
UN NONNO RICCHISSIMO
Le persone anziane che conobbero il mio facoltoso nonno, un tempo padrone della casa che abitavamo assieme ai topi e alle blatte, si dividevano in due categorie; una era quella di coloro che lo esaltavano con ammirazione e invidia, descrivendolo come un grande e generoso uomo, valido cacciatore e non solo di cinghiali, ma anche -anzi soprattutto- di giovani donzelle; la seconda categoria apparteneva, invece, a quelli che erano stati vittime delle prepotenze di colui che definivano un despota e, quando lo si nominava, facevano gesti scaramantici e di disprezzo, mimando l’atto di sputargli in faccia. Tra questi ultimi c'erano anche coloro che assistettero impotenti a uno dei divertimenti preferiti dai figli di quel "prinzipale", quando coi loro eleganti vestitini alla marinara uscivano di casa e facevano rotolare giù nella stretta discesa, divertiti, alcune forme di formaggio, noncuranti delle povere persone del vicinato che stavano a guardare. Nonno Pietro commerciava formaggio legname e carbone persino con l'America, trasportando grossi carichi su carrozze a cavallo che, periodicamente, viaggiavano verso i porti per farne imbarcare il contenuto. Uno dei punti di maggior carico delle sue merci era situato nella vallata di Lanaitto, nei monti di Oliena (paese a circa 14 chilometri da Nuoro) e, proprio perché vi sostavano i carri, quel punto fu chiamato "Sa sedda 'e sos carros", "punto di sosta dei carri". A Bruno, che spesso raggiungeva il padre cavalcando da Nuoro fino a quella splendida vallata, non sfuggì la presenza delle interessanti strutture di epoca antica che spuntavano tra l’erba, rivelatrici di antichi villaggi (tra questi c’era anche Tiscali), e alcune altrettanto invitanti grotte nelle quali non vedeva l’ora di infilarsi. Ci tornerà con calma molto più avanti quando, non più al centro del commercio della legna e del carbone, la zona tornò nell'oblio, frequentata solo da qualche pastore. Le sue prime esplorazioni riguardarono alcune grotte della zona, finché l’attrazione verso quelle rovine non prese il sopravvento. Erano i primi anni 60 e, dopo i primi scavi, rendendosi conto di quanto quel villaggio fosse grande e complesso, arrivò al punto di costruire un tratto di binario metallico lungo svariati metri, ideato per poter svuotare più rapidamente dai grossi massi e dalla terra il villaggio, scaricandoli nella valle sottostante tramite un capiente carrello su ruote dove lui, qualche complice e Figliounico caricavano anche grandi quantità di residui di bronzo, rivelatori dell’esistenza in loco di una fonderia e, in seguito, anche di un importante sito di produzione e lavorazione di preziosi reperti. Qualche volta ci portò anche me e mamma ma prima, e anche durante e dopo, mi "raccomandava", con le minacce più convincenti, di non dire assolutamente mai nulla di ciò a cui assistevo in quelle giornate. Per me, nonostante le intimidazioni, quelle ore sono state molto divertenti, amavo stare a contatto con la natura selvaggia e integra di quei posti. Vederli scaricare tonnellate di materiale giù a valle, per poi scavare con foga e recuperare bronzetti e tanto altro, non mi dava da pensare più di tanto; ero un ingenuo bambino e davo per scontato che mio padre sapesse quel che faceva e non ci fosse niente di illegale, e che non se ne dovesse parlare per non rivelare ad altri il “nostro” posto segreto, nel quale si trovavano i tesori.
LA
SERVA DI NONNO
A
proposito di nonno Pietro i suoi stessi figli raccontavano spesso, con
compiacimento, un aneddoto che ben ne definiva il personaggio; si mise a fare complimenti piuttosto espliciti alla serva che avevano in casa, una ragazza molto più
giovane di lui, senza preoccuparsi della presenza di sua moglie che, una
sera, gli disse con severità di lasciarla tranquilla; ”Smettila di importunarla
Pietro, è solo una ragazza ed è molto più giovane di te!”. Nonno Pietro,
evidentemente non arreso agli anni in più e anzi, forse ancor più invogliato da
quel "consiglio" non voluto e ritenuto offensivo per
l'aver messo in gioco i suoi anni e sminuito la sua autorità, mentre
la moglie dormiva si infilò nel letto della serva e si fece volutamente sentire
mentre la "usava" a suo piacimento. Nonna irruppe nella
camera della serva e trovò suo marito che, in tutta tranquillità e sorridente,
le disse in dialetto nuorese "Lo vedi che ha ricevuto bene, la giovinetta?". Peccato, dispiace non riuscire
a rendere bene la volgarità insita in questa sua allegra risposta, invece ben
espressa nel dialetto. Morta la moglie, alla quale fece partorire in
tutto 6 figli, nonno si risposò con quella ex serva, con la quale fece
altri sei figli dopo essersi trasferiti a Milano. Seppur
ricchissimo, questo nonno che non ho mai conosciuto finì col perdere tutto,
inizialmente perché "rimediava" alle sue numerose avventure con
giovani donne -specialmente quelle che rimasero incinte- con denaro, proprietà
immobili come case e terreni e, successivamente, perché uno dei suoi primi figli fu accusato di far parte di una banda di rapinatori che fecero
una strage e condannato all'ergastolo. Nonno, nel tentativo di cacciarlo fuori dai guai, mise in moto un certo numero di avvocati che, come avidi avvoltoi, non tardarono a decimare il suo patrimonio e, comunque, non evitarono 25 anni di
carcere a quel mio zio che tutto sembrava fuorché un delinquente e,
probabilmente, portò con se nella tomba alcune verità mai dichiarate ma qualche
volta solo accennate attraverso sfumature di sguardi e di parole. Appena uscito
dal carcere, venne a casa per conoscermi e mi regalò una fantastica scatolona
di legno con dentro tutto l’occorrente per dipingere, un omaggio che
porto ancora nel cuore assieme alla pacata figura di quell’uomo, fino alla fine
dei suoi giorni pacioccone e gentile, tanto intelligente da essersi sempre
tenuto isolato dai luoghi comuni , dalla tv e dai giornali.
SA SEDDA 'E SOS CARROS
Ecco, arriva un altro periodo particolare nella nostra casa; Bruno che usciva con
uno o più conoscenti la sera e tornava al mattino. Confabulavano tra di loro a
bassa voce, caricavano in auto lampade e torce di vario genere, pale e picconi,
e partivano verso quel villaggio nuragico situato nei monti di
Oliena.
Ogni mattina all’alba tornavano con sacchi e sacchetti pieni che depositavano dentro il magazzino. Questo loro andazzo andò avanti per diverse settimane, finché una notte non rientrarono ben prima della solita ora mattutina, con l’aspetto molto teso e preoccupato. Li udii lamentarsi di “quei maledetti pastori” che gli avevano demolito il “loro” villaggio, facendovi rotolare sopra i grossi massi che lo costituivano e, praticamente, distruggendolo. Le maledizioni si sprecarono quella notte, Bruno tremava dal nervoso e, forse, anche dalla paura; i pastori di quella zona, disturbati dalla loro costante presenza notturna, gli diedero un chiaro avvertimento. Il futuro "vecchio saggio", col tempo, prese sempre più in odio gli abitanti di Oliena, fino a definirli discendenti dei figli "bastardi" lasciati nella zona dai centurioni romani, e quando lo diceva gli si illuminava una particolare lucina negli occhi che per noi, che lo conoscevamo bene, era un chiaro segno di autocompiacimento per ciò che diceva. L'odio raggiunse il picco massimo quando un ristoratore del paese, dal quale si aspettava enorme riconoscenza per avergli indirizzato molti turisti, gli presentò il conto del ristorante dopo una cena, benché in realtà fosse un conto piuttosto scontato. Lo aspettò al varco quando si costruì la fama di "Mago delle Erbe" e finalmente, presentatosi nel suo finto eremo quel ristoratore con qualche problema di salute, gli fece pagare caro l'intruglio di erbe che gli preparò. Una vendetta che lo riempì di orgoglio e che non mancò di raccontarci divertito, naturalmente dopo la premessa del suo gutturale...
..."OH OH OOOH"
Era questo un suo verso caratteristico e molto fastidioso, col quale sottintendeva la sua superiorità, una sorta di risata ironica attraverso la quale smontava l'interlocutore, colui che diceva cose non gradite alle sue orecchie. I pastori gli avevano rotto un giocattolo prezioso, ma i due tombaroli non rimasero del tutto a becco asciutto; c'erano ancora tanti siti nuragici da visitare e, dentro quei grossi sacchi, c’erano molti reperti di elevato valore storico e culturale ma, purtroppo, anche economico. Sono stato spettatore di un enorme danno alla storia della mia isola. Vidi e toccai preziosi manufatti nuragici, delicate ampolle vitree, bronzetti e barchette votive di pregevole fattura, scarabei egizi in pietra verde, perline di vetro. Tenni in mano un bronzetto col cappellino a punta che chiamai Pinocchio, e una grande barca di bronzo scuro finemente lavorata, con a bordo cervi ed altri animali. Una piccola tavoletta bronzea rettangolare riportava, sulla superficie, una figura umana dritta, con un gonnellino in stile egizio e le braccia stese dritte lungo i fianchi, con i pugni chiusi e la capigliatura a caschetto, in una posa che avrei detto -e ancora direi- tipicamente egizia.
Tempo pochi giorni ed eccoli partire verso la Svizzera, dopo un loro continuo viavai di preparativi, accordi, telefonate a un amico massone che aveva il compito di facilitare il passaggio tra i due “archeologi” e gli acquirenti, essendo diplomatico di un paese sudamericano e potendo trasportare ovunque i reperti.
Tornarono
dalla Svizzera raggianti, vestiti a nuovo e pieni di acquisti e regali per
tutti, persino un orologio Tissot per me, uno d’oro per Maddalena, due
fantastiche ricetrasmittenti marca Zodiac e altri oggetti preziosi e, per
allora, tecnologici. E soldi, tanti soldi in banconote di grosso taglio.
Per qualche tempo, finalmente, a casa si respirarono sprazzi di benessere e serenità, finalmente la tavola fu imbandita di cose buone e si poté pranzare e cenare senza urla e rimproveri, senza piatti volanti e sberle. I battibecchi tra Bruno e Maddalena divennero meno frequenti, ogni fine mese Bruno portava in omaggio a Maddalena una scatola di marron glacé e le gite tra noi divennero più frequenti. Finalmente vidi persino il mare. Graziano, rimandato prima del tempo a casa dal servizio militare con la motivazione degli evidenti problemi caratteriali e psichici, dovette sposare la ragazza che lasciò, incinta, prima della chiamata alla leva militare. Finalmente arrivò il momento per lui di andare a vivere con la sua nuova famiglia, e per me di permettermi qualche attimo di serenità in più.
MADDALENA, LA VERA
PRIMA ERBORISTA
Passati quei burrascosi anni nei quali frequentai la scuola elementare, iniziai a conoscere un padre meno propenso alla violenza, forse qualcosa in lui iniziava a farlo ragionare, forse anche qualche giusto consiglio di quelli che erano i pochi amici “veri” che aveva, quelli capaci di dare buoni consigli senza timore di passare per stupidi e capaci di dire “basta” dopo il secondo bicchiere di vino. Forse anche il timore che ormai, cambiati i tempi, avrebbe rischiato grosso nel proseguire coi suoi metodi usuali.
Mamma partorì gli ultimi due figli mentre Bruno continuava a dedicarsi ai suoi passatempi, gloriandosi con orgoglio dei primi articoli di giornale che dedicarono spazio alla sua attività nelle grotte. Una sera rientrò da una battuta di caccia con un suo amico di avventura, che lo aiutò a salire le scale di casa mentre lui, curvo e dolente, con il volto contratto dal dolore, faceva un lento passettino dopo l’altro. L’amico lo adagiò nel letto con l’aiuto di mamma e raccontò di averlo colpito con una fucilata caricata a pallini ma Bruno, per non mettere nei guai il fratello massone, rifiutò di farsi ricoverare. Mamma gli tolse il maglione, i pantaloni e la camicia intrisi di sangue e costellati da centinaia di piccoli fori, lo ripulì dal sangue e ne rivelò lo stato pietoso; aveva centinaia di pallini distribuiti nella schiena, nel sedere, nelle braccia, qualcuno nel collo e persino nel volto. I pallini meno profondi e più raggiungibili se li fece estrarre da Maddalena, armata di pinzette e abbondante alcol e cotone; lei con enorme abnegazione si dedicò a quel lavoro per ore e ore, notte e giorno, fino a liberarlo dapprima dei pallini più superficiali e, in seguito, di quelli un po’ più profondi che si intravvedevano appena al di sotto della cute. I pallini che penetrarono più in fondo rimasero lì nelle sue carni, come subdoli distributori di piombo nel suo sangue. Passò poco tempo, ed ecco un’ulteriore evento che lo colpì fuori casa: durante una esplorazione volò dalla scaletta da speleologo, facendo un volo di 30 e più metri in una voragine che gli provocò una frattura nel cranio e lo svenimento. I soccorsi riuscirono a recuperarlo e farlo ricoverare in ospedale, giusto in tempo per salvarlo. Fu riportato a casa dopo parecchi giorni con il volto e la testa fasciati e rimase così, nel letto, per qualche tempo, servito in tutto e per tutto da Maddalena.
CONIGLI E RISOTTO CON FUNGHI
Neanche questa ultima disavventura calmò la smania di quell’uomo di riempirsi le giornate di amici e bevute, di grotte e di caccia, di pesca e di tutto ciò che gli andava di fare. Un’estate partì verso il mare di Cala Gonone assieme ad altri grottaroli per dare il benvenuto a una compagnia di turisti olandesi, presso un camping nel quale questi si attendarono. Erano alcune coppie di giovani e Bruno, con modi gentili, si propose di preparare loro un risotto ai funghi mostrando un sacchetto contenente gli ottimi funghi secchi che, diceva, teneva da parte per gli eventi speciali. Con allegria e sempre accompagnati da bicchieri di vino rosso che erano prontamente riempiti nel rispetto del detto “vuota il bicchier che è pieno e riempi il bicchier che è vuoto”, tra risate e battute spinte che gli ospiti forestieri non capivano ma delle quali ridevano divertiti comunque, il risotto ai funghi fu pronto, e gli olandesi ci si gettarono affamati. Mangiarono e bevettero di gusto del tutto ignari che Bruno, nelle loro porzioni, aveva messo assieme ai neri pezzetti di funghetti secchi anche diverse blatte, essiccate al sole il giorno prima e fatte a pezzetti. La serata proseguì insegnando loro alcune frasi in sardo, dove si usavano termini sconci al posto di quelli reali; sentir pronunciare, specialmente da quelle giovani donne, “cazzu” anziché “grazie”, “in culu” invece di “buongiorno”, faceva scompisciare l’allegra compagnia e, anche in seguito, al ricordo, ne rideranno di gusto. In altre occasioni di gentile ospitalità verso i forestieri, furono condannati dei gatti prelevati dalla strada, cucinati e presentati come conigli, gustati dagli ignari turisti con tanti complimenti. Una lunga serie di successive potenti sbornie unite alle fatiche negli anfratti, portarono Bruno ad avere un infarto, e questo lo convinse, finalmente, a decimare i bicchieri di alcolici e vino. Raggiunti i 50 anni e poco più andò in pensione, con gran felicità dell'acquirente svendette dei terreni in città che aveva ereditato da suo padre e che gli rendevano molto, grazie agli affitti di alcuni capannoni, e acquistò un appartamento in un dispendioso condominio alla periferia della città, nel quale si pagavano notevoli spese condominiali. Nel frattempo chi aveva comprato da lui quei terreni si fece ricco, ma lui era del tutto indifferente alla cosa. Per una cifra esagerata e ben al di sopra dell’effettivo valore, comprò il terreno di Marreri che distava circa 13 chilometri dalla città, disse che lo voleva, pur essendo così lontano e scosceso, perché un tempo apparteneva a suo padre. Abbandonata la vecchia casa col cortile, che prontamente Angelo figlio unico occuperà fino a farla diventare sua a furia di prepotenza e minacce, ci ritrovammo in un appartamento dove, finalmente, c’era un vero bagno completo di scaldabagno, i termosifoni e, insomma, tutto ciò che ne faceva un’abitazione definibile “civile”. Bruno comprò anche un’altra macchina, questa volta familiare, in sostituzione della vecchia Simca rossa che Graziano demolì facendola capottare, naturalmente senza alcuna conseguenza nei suoi confronti. La mattina babbo mi chiedeva di scendere con lui in campagna e io accettavo ben volentieri, finalmente avevo un padre col quale parlare dei più svariati argomenti e, come di mia abitudine, dimenticai le angherie subite, le torture, le botte e le notti insonni. Avevamo grandi progetti finalmente e questo mi bastava per provare ottimismo.
Una sera, mentre mamma e babbo erano davanti alla tv, parlarono di Maurice Mességué, uno dei primi a diffondere quella che sarebbe diventata la moda dell'erboristeria. Avevano appena tradotto in italiano un suo libro dal titolo “Uomini, erbe e salute” e sentirlo parlare di erbe medicinali interessò mia madre a tal punto da precipitarsi nella fornitissima libreria sotto alla nuova casa per prenotarne il libro. Babbo ne sembrava del tutto indifferente all’inizio ma -non si è mai capito se spinto da gelosia o reale interesse personale- una sera mentre Maddalena leggeva delle proprietà curative delle erbe, sbottò nervosamente che non aveva bisogno di Mességué per curare Marcello dalla psoriasi. Oddio dissi io, lascia perdere, ho fatto già da cavia troppe volte! Ma lui rispose che questa volta sarebbe stato diverso. Si mise a leggere il libro acquistato da mamma e, finito quello, ne acquistò altri e poi altri ancora, che leggeva la sera seduto in poltrona, spesso a voce alta. Io avevo -e ho ancora- una spiccata tendenza a ricordare meglio i nomi latini che i nomi comuni, e a Bruno piaceva sfidarmi chiedendomi i nomi delle varie piante che nominava. “Fenomenale” disse una sera, quando gli dissi l’ennesimo nome scientifico di seguito senza incertezze. Era un esercizio che ci divertiva, e nel contempo era utile per fissare quei nomi nella memoria.
Compiuti 18 anni, andai a fare la obbligatoria visita di leva; i medici militari rimasero allibiti di quanto fossi magro e, vedendomi le cicatrici nella schiena, mi fecero ovviamente delle domande sulla loro origine. Timoroso e impaurito da eventuali possibili segnalazioni che potessero coinvolgere i miei familiari, dissi loro che erano dovute a cure sbagliate per una grave forma di psoriasi, della quale avevo ancora abbondanti macchie addosso. A causa del rachitismo mi rimandarono a casa, ovviamente esonerato dal servizio militare.
CALMA APPARENTE
Dopo
circa un anno di vita tranquilla, babbo, con il ricavato di terreni in città
ereditati dal padre e svenduti (purtroppo senza pensare che col tempo avrebbero avuto un
enorme valore) comprò 5 ettari di terreno a Marreri, a circa 13 chilometri
dalla città. Con la stessa cifra avrebbe potuto avere terreni migliori e meno
lontani dalla città, ma preferì così perché, in passato, quel terreno era stato
della sua famiglia paterna, e desiderava riconquistarlo anche a caro prezzo. “E
non è detto che non ci sia il petrolio” diceva di tanto in tanto, con un tono che lo
faceva apparire davvero convinto.
Mi portò a vedere quel terreno appena acquistato; fermò la macchina a bordo strada e ci incamminammo tra lentischi e rose canine, percorremmo la collina verso il basso e, arrivati vicino a una grossa quercia, mi indicò dove voleva far passare la strada e dove erano i confini del “nostro” terreno. Nei giorni successivi, iniziammo a tracciare il cammino secondo le sue indicazioni, mentre lui camminava e mi indicava i punti da contrassegnare per poi poter iniziare a decespugliare. Gli feci compagnia quasi ogni giorno per mesi, finché gran parte della stradina tra le rose canine non fu completata.
Un giorno, per gioco e scherzosamente, gli dissi che avevo sempre sognato di fare una casa nell’albero come la vedevo nei fumetti; babbo mi prese sul serio e disse “che ci vuole.. la facciamo!” E così fu; tornammo con delle grosse tavole e facemmo una vedetta nella grossa quercia che ci faceva ombra durante le nostre soste dal lavoro.
Di lì a poco, a rovinare quel nostro idillio familiare ci pensò colui che già aveva giurato di essere un figlio unico.
Ecco che venne all’attacco Angelo battendo cassa per tentare di avere 5 milioni di lire per acquistare un apparecchio per la dialisi al suocero - questa, almeno, era la motivazione che lui e la moglie adducevano- ed ecco che a casa ricominciarono le beghe di vecchia memoria… Vivevamo da ciò che rimaneva della pensione. tolte le spese per la macchina di babbo, per tutto ciò che gli serviva per fare i lavori a Marreri e le spese condominiali. Le pressanti richieste di denaro gettarono Maddalena nello sconforto e Bruno nell’inquietudine.
Maddalena,
ogni tanto, si faceva accompagnare da Bruno a Ozieri per trovare l’anziana
madre; questa era vedova e viveva della pensione lasciatagli dal marito, ma una
volta all’anno incassava qualcosa dagli affitti di un terreno e, ogni certo
numero di anni, dalla vendita del sughero che se ne ricavava; ciò le consentiva
di dare alla figlia dei piccoli ma preziosi aiuti in denaro. Ma, di punto in bianco, nonna non volle più
sentire sua figlia Maddalena.
Mamma
ne rimase sconvolta, non riusciva a spiegarsi il perché di quell’atteggiamento
da parte di sua madre, sempre affettuosa con lei oltre che con noi tutti.
Quando andavamo a trovarla, lasciava che io passassi ore e ore a sintonizzare
le onde corte sulla sua bellissima radio
a valvole, mi dava sempre dei biscotti buoni e, prima di andar via per tornare
a Nuoro, mi regalava un bel biglietto da 500 lire.
Ci vollero parecchi mesi per scoprire, attraverso l’intermediazione di una sorella di mamma, che Angelo andava a chiedere soldi alla nonna a nome di mamma, e nel tentativo di non farsi scoprire interruppe i contatti tra madre e figlia con chissà quale stratagemma.
Nulla demotivava quel soggetto avido di denaro dal continuare ad attaccarsi al padre e alla madre ed ora anche alla nonna come un vampiro; ritornò all’attacco sempre più insistente.
Fu
la volta delle continue visite serali sue e della degna consorte in casa, con
azzardati e sfacciati tentativi di farsi cedere la nuova casa di viale Repubblica con
le scuse più assurde. Provarono in tutti i modi di convincerli di andare ad
abitare in una casa più piccola per la quale avrebbero pagato loro l’affitto.. (sic..!), provò persino a convincere mamma che stavano per prendere il potere i
comunisti e quella casa era destinata a essere espropriata, insomma tentarono di tutto e di più sconfinando persino nel ridicolo. Finalmente ben salda nei suoi
NO, mamma divenne il principale bersaglio del loro odio.
Raccontare degli aiuti economici che già babbo e mamma gli davano da sempre, anche portando loro buste colme di alimentari mentre a noi rimaneva ben poco, richiederebbe un intero libro. Per ora soprassediamo… Bruno trovò lavoro al suo figliounico smuovendo le solite amicizie e facendolo assumere in una segreteria scolastica, ma continuava a sentire la necessità di foraggiarlo economicamente, in quello strano gioco della natura nel quale l'aquilotto nato per primo butta dal nido gli ultimi nati, per rimanere solo ed essere sfamato senza avversari.
Nonna
morì senza aver potuto far pace con la figlia Maddalena. Lasciò alle figlie il
ricavato della rendita e della vendita delle sugherete.
A mamma spettarono 18 milioni, e la prima cosa che pensò fu di farmi aggiustare tutti i denti, già da tempo quasi totalmente deturpati a causa delle carenze alimentari perpetrate nel tempo.
Ecco
che, percepito il profumo del denaro, si ripresentò il Vampiro! avanzando pretese convinse mamma di aver diritto quanto me di farsi curare a sue
spese e, inoltre, che era necessaria la sua presenza per aiutarmi nel viaggio
verso Bologna, dove mamma mi consigliò di andare perché, a quel tempo, c’era un dentista diventato
famoso per la rapidità nel lavoro e l’accuratezza delle protesi che metteva.
Diede
nove milioni a lui e nove a me, dietro precisa promessa che, pagato il conto al
dentista e le spese di albergo, ognuno le avrebbe restituito il resto
rimanente.
In
cuor mio speravo che stavolta, riempitegli le tasche di denaro, Figliounico
trovasse un freno alle sue bramosie.
VAMPIRISMO
ESTREMO
No,
fu una speranza del tutto vana.
Durante
quei quattro giorni a Bologna, presi fin da subito le distanze da lui e misi in
chiaro che doveva lasciarmi tranquillo e non cercarmi: ognuno per conto suo. Non rimase di certo da solo per questo; fin dall’arrivo nell’albergo “Tre Poeti” sotto le due torri, trovò “ottime” compagnie locali di suo gradimento.
Già
dalle prime ore di soggiorno si capiva che,
ancora una volta, aveva tutta
l’intenzione di divertirsi a spese della madre.
E
dato lo stile di vita che si permise durante i giorni successivi, sempre festante e accompagnato da prostitute, ebbi le
conferme definitive che aridi di cuore si nasce e si muore.
Alla quarta sera, vigilia della ripartenza
verso casa e finito il lavoro del dentista,
mi chiese prepotentemente di dargli i soldi che mi erano rimasti, cercando di
convincermi di averne avuto l’ordine da mamma dopo averla sentita al telefono.
Non ci cascai. Dopo i suoi numerosi ma inutili tentativi di portarmi via il
denaro, si infuriò e andò via dall’albergo senza pagarsi la camera, cosa che
dovetti fare io per evitare discussioni,
mentre lui fuori imprecava e mi giurava vendetta.
Spese
di più in - chiamiamole così -
specialità tipiche del centro di Bologna che per il dentista, ma spese
qualcosina anche per un gentile romantico pensiero da regalare alla mogliettina:
una sottile catenina d’oro con appesa una piccola lametta in oro.
Alla
madre nemmeno una lira di resto!
Appena
tornai a casa chiesi a mamma se era vero che si era sentita al telefono con
Figliounico; naturalmente mi confermò di no. Le restituii i miei 6 milioni e
mezzo di resto e le raccontai tutto quello che era successo, e di quanto
avrebbe fatto meglio a non far sapere del suo gruzzoletto ereditato da nonna.
Mamma
si infuriò veramente, per la prima volta, come una belva, memore anche degli
altri tiri bassi avuti da quel figlio.
Lo chiamò a casa scoprendogli tutte le carte e urlandogli peste e corna.
Soprattutto corna.
Invece di ritirarsi in buon ordine e farsi finalmente una vita “sua” senza danneggiarci, il buon figlio unico di Bruno volteggiò come un avvoltoio in quel di Marreri e, con la scusa di costruire qualcosa di utile per babbo, iniziò a occupare ampi spazi con mattoni e cemento, insomma cominciava a prendere possesso di ampi spazi di quel territorio vasto 5 ettari. Nel frattempo iniziarono, inesorabili, ad aleggiare attorno alla figura di babbo le leggende che ancora oggi “ci tocca” sentire, che culminarono nel 1988 con l’articolo di Agosto di Selezione dal Reader’s Digest dal titolo “Sardegna: l’uomo che si curò con la natura” e dal quale attingono ancora in continuazione i tanti “giornalisti” che, su richiesta, fanno ancor oggi articoletti qua e la prendendolo come spunto, come se fosse un pozzo di Verità Pura, senza mai essersi presi la briga di sentire se qualcuno di noi in famiglia, soprattutto la moglie, avesse da dire qualcosa in proposito. Ci sono tanti altri erboristi che fanno né più né meno quello che faceva quest’uomo senza inventare o scoprire niente di suo, senza alcun che di “miracoloso”. Anzi, potrei citare qualche eclatante caso di reazioni avverse anche piuttosto serie, come le ustioni riportate da un anziano di un paese vicino che si spalmò un olio di peperoncino Capsicum troppo concentrato preparato dal Mago delle erbe.
SELEZIONE DAL READER’S INDIGEST…
La “casetta sull’albero” divenne il primo eremo di Bruno. FALSO.
Nel
periodo di quella casetta, se proprio avesse voluto dormire in campagna, aveva
a disposizione la sua Simca 1301 familiare che poteva trasformarsi, tra ampio
portabagagli e sedili posteriori reclinati, in un comodo lettone matrimoniale.
Quella casetta sull’albero fu completata, alla fine, solo e unicamente per
poter dare l’idea che potesse essere davvero servita come dormitorio.
La successiva casetta di legno fu il suo dormitorio per 4 anni. FALSO. Servì principalmente come ripostiglio per gli attrezzi da lavoro e qualche nottata fuori casa quando in casa non tirava aria buona.
Basta
chiedere ai condomini anziani che ancora abitano nella palazzina di viale
Repubblica 3, chiedete loro se ricordano assenze di babbo durate addirittura
anni. Vi risponderanno di NO.
Babbo mancava di tanto in tanto perché, dopo il lavoro in campagna e dopo i numerosi ospiti che vi si attardavano, spesso trattenuti a cena, era troppo stanco per guidare fino a Nuoro. Non ci nascondeva che gli piaceva ricoprire quel ruolo di “eremita” che lo affascinava e gli faceva compiacimento nel sentire l’ammirazione (quando non addirittura l’adorazione) di chi andava a trovarlo. Era una recita che gli piaceva e che veniva alimentata da chi lo assecondava senza alcun spirito critico e da quei parenti arrivati dalla penisola che, andando a trovarlo, lo vedevano come era stato dipinto, contrariamente a chi, come noi, lo vedevano per ciò che realmente era.
Qualche
vampiro già odorava altro abbondante sangue da succhiare.
Ormai letteralmente costretto a dover far credere agli ospiti che quello era un eremo, sgattaiolava appena gli ultimi visitatori se ne andavano e tornava a casa anche all’una o più, per passare la notte assieme alla moglie. Sentivamo la porta aprirsi e lui, con vocina quasi implorante, chiedeva “Maddalè me ne date ospitalità?” Naturalmente la risposta era sì, tranne il no di qualche rara eccezione.
Si
era costruito attorno un personaggio che gli sarebbe stato scomodo per tutto il
resto della vita, ma che fu molto comodo per chi ne seppe approfittare.
L’aquila reale che curò per tre mesi.. FALSO, altra assurdità: Graziano era fin da ragazzo appassionato di falconeria, e alcuni amici del Corpo Forestale, conoscendolo, gli affidarono il rapace, trovato legato in un ovile e incapace a volare. Lo portarono a Marreri perché c’era spazio per fargli una voliera adatta. Bruno prese anche quell’occasione al volo per farsene motivo di vanto e ammirazione, Graziano, dopo alcuni contrasti col padre che non perdeva occasione per fare la “primadonna” con quel rapace, gli cedette il compito e, come fu già da noi previsto, finì male per l’innocente rapace, affidato alle “cure” di un uomo senza alcuna competenza in merito, che si limitava a dargli da mangiare e usarla per farsi fotografare. Dopo mesi di inutili esibizioni con quel povero rapace, Bruno fece arrivare una troupe del TG Regionale per liberare l’aquila, convinto di farne un ulteriore scoop utile ad alimentare la sua immagine pubblica: gli andò buca. L’aquila, restia a prendere un volo che non poteva fisicamente attuare, fu lanciata verso la vallata e si posò, inabile e più malata che mai, nelle fronde di un albero 40 metri più sotto. Finalmente fu ripresa dalla Forestale e affidata alle cure serie di un centro di recupero rapaci. La troupe del TG3 andò via delusa dopo un inutile viaggio da Cagliari e senza alcun servizio da proporre in redazione. Nessun giornalista scrisse di questo clamoroso fallimento, non c’era nessuna lode da fare. L’articolo di Selezione recita: “Nel 1978, le cure prestate da Piredda a un’aquila reale diventarono una leggenda e gli valsero il soprannome di Eremita Buono.. .. Piredda la curò e nutrì per tre mesi, finché non fu rimessa.. .. Salvare l’aquila fu solo naturale disse Piredda”. Salvare?
Si legge ancora che, prima di andare a fare l’ ”eremita”, i “suoi” sarebbero vissuti senza problemi, grazie anche alla pensione che Piredda aveva devoluto a loro beneficio quasi per intero..
BALLE, ancora una volta balle; ammesso che non ritirasse la sua pensione lui stesso, non abbiamo mai avuto idea di chi delegò per lui; a casa lasciava sempre meno soldi e mamma dovette far togliere il telefono per non avere più bollette da pagare. Si accumularono persino le quote condominiali, per pagare le quali dovemmo intervenire noi figli, escluso, ovviamente, Figliounico.
In casa ritornò la miseria e sempre più spesso, al posto della pasta col mitico sugo di mamma, riapparve la minestrina e non certo col brodo di carne ma, al massimo, con la più economica merca e le patate. L’unico mezzo di contatto di mamma con le sorelle e la madre, che vivevano tutte lontane, era il telefono, ma fu presto costretta a farlo staccare per l’impossibilità di pagare le bollette. Io dovetti ritirarmi da scuola perché non avevo i necessari libri, ritenuti da Bruno troppo costosi, né tutto il resto che si richiedeva a scuola per poter studiare. Non avevo neppure vestiti decenti e, per quanto cercassimo di risparmiare, la quota condominiale portava via una gran fetta di quel poco che babbo lasciava a mamma. Non potevo pretendere nulla e niente chiesi, ritornai in uno stato psicofisico penoso, presi a trattare male persino il buon gattone di casa, Moustache, e ancora adesso, ne provo i rimorsi. Quel povero gatto, preso in antipatia da Bruno, fu da lui portato in campagna e, di li a poco, gli passò sopra con la macchina, schiacciandolo.Selezione scrive ancora “Si sentiva talmente migliorato che dimezzò le medicine e poi le eliminò del tutto”: FALSO, non saltò mai le pillole cardiache di colore rosso che gli ritiravamo puntualmente nella farmacia Canargiu, allora la più vicina a casa; ne teneva sempre una scatola a Marreri e una a casa. Si vittimizzava facendo passare il suo infarto come conseguente al lavoro ed alle preoccupazioni, ma quali preoccupazioni? Quelle che ha sempre accuratamente evitato? In realtà, il suo infarto era il giusto finale di una vita dissoluta, di innumerevoli sbornie, di incidenti capitatigli non certo al lavoro o in casa, del voler strafare per meravigliare gli spettatori nel suo vivere teatrale.
Ancora: “Gradualmente, Piredda cominciò a vedere qualche familiare e qualche amico”.. BALLE, non si privò mai per più qualche ora o, al massimo qualche giorno, della presenza di familiari e amici!
“La guarigione di Bruno Piredda fu spettacolare” si legge ancora. Di spettacolare c’è solo una cosa ed è tutta la montatura che quest’uomo si è lasciato creare attorno, fino a ritrovarsene in gabbia. Spettacolare è la faccia di bronzo di certi giornalisti ai quali furono dettate immane cazzate da trasformare in articolo, senza alcuna verifica che ci fossero corrispondenze reali.
IL VIAGGIO DELL’ILLUSIONE E IL RITORNO
DELLA DELUSIONE
Spettacolare
è l’assenza di palle di tutti coloro che, ben sapendo le assurdità che venivano
riportate, non hanno mai avuto il coraggio di apporre nemmeno un piccolo
accenno di contrarietà, se non in ambiti ristretti e mai pubblicamente.
Dopo
aver letto questo articolo di Selezione, una anziana donna del Sudafrica,
ammalata di tumore e convinta di aver trovato un autentico Mago, fece enormi
sacrifici per racimolare i denari necessari a raggiungere l’ ”eremo del buon
vecchio saggio mago delle erbe e guaritore”. Non so quanti voli dovette
affrontare quella povera donna, quanto le costò quel suo “viaggio della
speranza” che si trasformò in “viaggio dell’ illusione”, Babbo, per una volta
assenti giornalisti e testimoni scomodi, le disse la verità; “Mi dispiace
molto, ma non posso fare niente per te, non sono mai riuscito nemmeno a guarire
una psoriasi a mio figlio, figurati cosa posso fare per il tuo tumore”. Lei
andò via distrutta, dopo aver versato tutte o quasi le sue lacrime.
Ecco
a cosa serve prestarsi acriticamente a certe forme di “giornalismo”, nemmeno ci
si rende bene conto di quanti e quali danni possa creare, direttamente o meno,
un articolo di giornale o di rivista nato su chiacchiere e fantasie.
Bruno
non si perse certo d’animo dopo questo fatto penoso, continuò come sempre ad
accogliere amici, giornalisti, ammiratori, parenti e adoratori che, attraverso
la stampa e le chiacchiere, avevano di lui l’idea dell’uomo geniale da
complimentare con sperticata ammirazione.
UN GENERATORE DI BORIA
GRATUITA
Una
delle attrazioni che Bruno fece in quel suo fazzoletto di terra,
fu una grande ruota di legno disposta sulla riva del fiumiciattolo che al tempo
scorreva lungo il confine a valle. La debole spinta dell’acqua
la faceva ruotare, seppure molto lentamente, al ritmo di pochi giri al minuto.
Le attaccò una puleggia con cinghia che andò a far passare sulla ruota di un
vecchio alternatore di automobile. Io e Graziano lo aiutammo a costruire quel
meccanismo, ma non riuscimmo a fargli capire che, dato il basso numero di giri,
l’alternatore non avrebbe mai e poi mai potuto generare corrente. Nemmeno un
po’, nemmeno se facesse un diluvio e il fiume fosse in piena! Tentammo di farlo ragionare: “Babbo, dovresti sapere che un alternatore ha
bisogno di fare almeno qualche centinaio di giri al minuto, per iniziare a
fornire tensione e corrente necessaria a ricaricare la batteria dell’auto”. Fu
inutile, voleva farlo e basta. Una volta pronto gli dimostrammo che, anche col
fiumiciattolo in piena, non dava nessuna tensione. “Non importa, non importa
niente” disse scocciato, e ci attaccò lo stesso dei lunghi fili elettrici.
Tempo
poche ore, ed ecco che capimmo il perché di tanta inutile fatica:
quell’alternatore attaccato alla ruota in stile Mulino Bianco non doveva
servire a fornire corrente, ma ad alimentare il suo già spropositato ego. Presa
sottobraccio una signora che venne a trovarlo, la portò ad ammirare la sua
nuova creazione; "guarda cara cosa ho inventato, il generatore di corrente gratuita! - “Ooooh zio Brunooo che
meravigliaaa!”.
Ecco collaudato un nuovo giocattolo di babbino - dissi a Graziano- il generatore di complimenti! Io e Graziano dovemmo allontanarci parecchio per non far sentire le risate che ci facemmo, dovemmo ormai cominciare a prendere atto che nostro padre stava trasformandosi in una macchietta ridicola. Prendemmo in considerazione la quantità di piombo che, presumibilmente, lo intossicava attraverso i numerosi pallini da caccia ancora presenti nelle sue carni, la rovinosa caduta nella voragine e il suo impatto col cranio, gli eccessi di tutta una vita dedicata solo ed esclusivamente a se stesso.
Tra le tante meraviglie decantate da Bruno su quel suo paradiso, c'era il mito delle zanzare che non pungono. Così diceva a chi, sprovvedutamente, si lamentava di qualche puntura: "qui le zanzare non pungono, assolutamente!". Un altro mito estivo, quando il sole diventava infernale in quella depressione del terreno a circa 220 metri sul livello del mare, era che: "qui c'è fresco, perché scende l'aria fresca dal Monte Ortobene". E lo diceva mentre, in mutande, stava all'ombra della quercia, boccheggiando dal caldo terribile e in totale assenza di un filo d'aria.
Giustamente, il miglior attore è quello che riesce, prima di una sceneggiata, a convincere se stesso, e lui era indubbiamente un bravissimo attore.
VAI ALL'INFERNO. O NO?
A vent'anni, nel mese di agosto, ebbi un malessere diffuso e mi ritrovai come un pupazzo gonfiabile; già da tempo prendevo delle pastiglie di cortisone per alleviare i problemi psoriasici, ma non rispettai i dosaggi e feci un grave errore. Mamma andò a telefonare al medico di famiglia e questo, rapidamente, venne a casa nel giro di pochi minuti. Mi vide, risposi alle sue domande, lui aprì la sua valigetta e ne tolse tre flaconcini di liquido cortisone. Disse che dovevo farmene iniettare una al giorno, per poi chiamarlo e fargli sapere. Steso sul divano, col respiro affannoso e la vista che diveniva sempre più nebbiosa, fu come avere un presentimento direttamente da una dimensione sconosciuta: "non farle le iniezioni, non farle..." e rifiutai di farmele fare. Mamma la prese male quando le dissi che non doveva cercare nessuno per farmi le iniezioni, aveva una fiducia cieca in quel medico che, effettivamente, aveva una ottima fama ed era sempre disponibile con tutti i pazienti. Ma la vocina continuava a parlarmi, comunicava senza voce, mentre mamma alzava la sua ma non ci si imponeva. Con me che non riuscivo più a reagire steso nel divano mentre lei mi osservava dalla poltrona, decise di alzarsi e chiamare l'ambulanza. Al pronto soccorso mi mandarono urgentemente nel reparto di dermatologia, avevo innumerevoli punti rossi sulla pelle gonfia, e la prima infermiera che mi vide avanzò l'ipotesi che avessi un tumore della pelle: "ha il pemfigo" disse a una collega. Per ore si agitarono attorno al mio letto facendo svariate ipotesi, finché decisero di sottoporre il mio caso al primario. Telefonarono a quello che considero il mio salvatore, colui che mi donò una seconda vita, mentre era al mare in vacanza. Sentita la situazione, quel buon uomo (che avrebbe meritato ben più di un articolo su Selezione, e senza bisogno di aggiungerci condimenti vari) salì in macchina per tornare in reparto e accorrere a verificare la mia situazione. Shock anafilattico da eccesso di cortisonici, fu la sua precisa diagnosi. Quando gli dissi del medico di famiglia e delle sue prescrizioni riguardanti le tre iniezioni di cortisone, scosse la testa e si meravigliò di tanta pericolosa leggerezza; "hai fatto benissimo a non farle, ti avrebbero sicuramente ucciso", disse, e mi fece attaccare diverse flebo. Quella sera la febbre salì mentre la pressione scendeva, ma ero vivo e vigile. Nei giorni successivi, sempre sotto il vigile controllo di Professor Bonu, la situazione sembrava irrimediabile. Cambiarono almeno tre volte il misuratore di pressione perché non si capacitavano della mia pressione minima, che era praticamente a zero, con battiti cardiaci al minimo e febbre fino a oltre 42. Il primario raccomandò ai suoi collaboratori di non scrivere lo zero nella cartella medica e nel grafico della temperatura, ma di segnarne almeno 30, perché continuare a vivere con la pressione a zero era così improbabile da poter essere considerato un miracolo, e lui non voleva che ci fosse la possibilità di finire nelle pagine dei giornali. Chiamarono i miei genitori per darmi l'estremo saluto e un prete per l'estrema unzione. Era sera ed ero sereno, una serenità profonda, ero del tutto lontano dall'avere la stessa loro consapevolezza, mi sentivo vivo e con la certezza che no, non fosse giunto il mio momento. Lasciai fare il prete che, assieme a una suora, mi mise attorno al polso una medaglietta, mi unsero la fronte e bisbigliarono qualcosa a cui non diedi importanza e se ne andarono mesti. Entrarono babbo e mamma con i due miei fratelli più piccoli e non dimenticherò mai i loro sguardi, gli occhi di chi è certo di vedere una cara persona pronta a morire. Non sono riuscito a tranquillizzarli, non avevo voce, non c'era modo di fermare le lacrime nei loro occhi e così li seguii muto, con lo sguardo fino al loro ultimo cenno di saluto dalla porta, fino al bacio che mamma mi mandò con la mano. Provai un profondo dolore nel vederli così affranti, passai lunghi minuti a dispiacermi di averli lasciati con un dolore così grande e che l’indomani, alla mia dipartita, avrebbero forse provato ancor più grande. Ecco che, quella sera stessa, vidi entrare Angelo, che si avvicinò al mio letto mentre sua moglie rimase sull'uscio della camera. Si chinò verso di me e, a bassa voce, disse: "Stai morendo vero? Finirai all'inferno per aver fatto la spia su Bologna, adesso me le paghi tutte, maledetto, crepa". Andò verso la sua cara degna mogliettina, la prese a braccetto e se ne andarono. lo vidi per quello che era, un omuncolo indegno persino di uno sputo che, comunque, non sarei stato in grado di lanciargli in quel momento . Ancora una volta, dal profondo del mio animo affiorò la vocina che mi tranquillizzava col suo dolce bisbiglio: “Non morirai”. Nel giro di qualche giorno, sempre seguito dal primario che per me rinunciò alle ferie estive, la pressione risalì, mi ripresi e potei tornare a casa.
Rimediai alla tristezza di mamma e dei fratellini ripresentandomi vivo a loro e fui tanto felice di vederli raggianti. Tornai a casa ancora molto gonfio e debole, ma abbastanza vivo da aver dato, almeno così pensavo, una bella lezione a quel figliounico tanto sicuro che sarei andato all’ inferno. Peccato non potergli dire - ormai non può più sentirmi - che l’inferno non è chissà dove in un ipotetico aldilà, ma ben aldiquà, nel mondo dei vivi, ovunque ci siano persone false e traditrici, avide e perfide come lo era stato lui.
EDIFICARE UN MITO
Mi ripresi lentamente, ricominciai a studiare musica e fare qualche dipinto, mi innamorai di una ragazza conosciuta via radio con quel ricetrasmettitore sui 27 MHz che chiamavano “baracchino”, babbo era momentaneamente presente in famiglia ma si lasciava condizionare ancora dal suo ego e da chi voleva, per proprio tornaconto, contribuire a farne un “personaggio”. Ci vuole poco a mitizzare una persona, inizialmente basta un amico giornalista che ti fa un primo articoletto sul quotidiano locale, e da lì si sale sul primo scalino della popolarità, da lui scalato poco a poco fino ad arrivare a quel beffardo articolo su “Selezione dal Reader ‘s Digest” di agosto 1988. La presunzione era il miglior fulcro sul quale poggiare la leva, e chi la manovrava sapeva bene come condurre il gioco. La miglior lezione che si può trarre da un articolo del genere -e al mondo ci saranno milioni di articoli come quello- dovrebbe essere imparare a non crederci, almeno non del tutto, a porsi delle domande e avere una sana quantità di dubbi. Perché quei giornalisti che tanto hanno ruotato attorno alla figura di babbo, fino a farlo diventare un gigantesco pallone gonfiato, non si sono mai nemmeno una volta presi il disturbo di andare a casa di mamma per intervistare anche lei? Lo so, ottenemmo la risposta anche a questo dubbio; qualcuno di loro avrebbe persino e ovviamente voluto, ma chi manovrava le leve, cioè Angelo con l'appoggio dei suoi complici familiari, mise in conto anche questo eventuale intoppo e, infangando la figura di mamma, riusciva a evitarlo. Mamma venne così isolata, non più visitata da tante delle sue nipoti e dalle cognate, ritenuta colpevole di voler sminuire la grandezza di suo marito. Babbo Bruno, attore di quel se stesso impegnativo che si era creato -e ben volentieri lasciato creare-, cominciava a sentirne la stanchezza e, lasciata la sua maschera a Marreri, la notte tornava a casa a farsi coccolare, persino lamentandosi del viavai di gente che passava le giornate nel suo finto eremo a lodarlo, a impegnarlo in pranzi e cene che spesso, data l’ora, si sentiva obbligato a preparare per gli ospiti. Tra i suoi obblighi teatrali c’era quello di essere sempre galante con le donne; le prendeva a braccetto per condurle giù verso il fiumiciattolo presso un alberello di cachi e, con fare che esse parevano gradire, prendeva un cachi per offrirglielo, mentre, con un lumino di sottile libidine nello sguardo, diceva loro “guarda che bei cachi, perfetti, tondi e sodi come le poppe di Venere”. Era una delle tante battute -ormai scontate-che ripeteva ogni qual volta gli si offriva l’occasione, e se la donzella gradiva le battutine, strada facendo bruno strappava un rosso petalo di geranio e glielo passava sulle labbra: “questo è un ottimo rossetto naturale” diceva, testando così l'eventuale arrendevolezza della "signora" ospitata. Ogni tanto però, andate via le meravigliate bellezze femminili, Bruno alzava gli occhi al cielo, scuoteva la testa e sghignazzava “ohohooh, che poco basta per far contenta una donnina, anche se orrenda!”. Una sua nipote che andò a trovarlo fu trattata allo stesso modo; la prese a braccetto, la riempì di complimenti che furono abbondantemente ricambiati e, una volta andata via, la definì "la mia amata nipote che viene dal continente impellicciata come una troia di alto rango, povera brutta troddiona...". Tornava a essere la versione originale di se stesso insomma, ma solo quando era con noi familiari. Gettava la maschera ma non troppo lontano, la teneva sempre a portata di viso per accogliere le successive visitatrici del suo “eremo”. Nel frattempo mi sposai con Giovanna; mamma e babbo vennero al matrimonio cercando di nascondere i non pochi contrasti tra loro, babbo non contribuì minimamente alle spese del matrimonio, ma questo lo aveva già anticipato con un laconico “ah, se ti sposi sappi che io non ho niente e non metto nemmeno una lira “, facendomi così capire, ancora una volta, che per lui contavano solo Angelo e Graziano, che aiutò sempre economicamente anche in occasione dei loro matrimoni.
Una volta uscito dall’ambiente opprimente della loro casa, iniziai una
lenta ma decisa ripresa dai malanni fisici e riuscii persino a far calare, e di
molto, il rachitismo e la psoriasi, recuperando salute e serenità.
CHI DISTRUGGE E CHI COSTRUISCE Lasciai
così mamma e babbo coi miei due fratellini in casa e il grigio coccoloso gattone
Moustache, ma andavamo spesso a trovarli e lei veniva spesso a trovarci
nella nostra casa, anche per aiutarci col bimbo nato in seguito. Attraversava
camminando gran parte della città e saliva fino al quarto piano portando sempre qualcosa da regalare a noi e al suo nuovo nipotino. Certi
ricordi li rivivi e li senti come se qualcosa ti stringesse il cuore, quel
qualcosa che si chiama “legame”, che mi fa lacrimare nel ripensare a quella
donna che tanto si sacrificava per tutti noi senza mai chiedere nulla, che non
ho mai ringraziato abbastanza, che a furia di “metterci una pietra sopra”
poteva costruire un intero villaggio nuragico, contrariamente a chi, invece, li
demoliva. Lei passava oltre, accomodava le cose, era fin troppo arrendevole ma
era così, era il suo carattere, non ha mai reagito con la determinazione che
sarebbe stata, invece, doverosa. D’altronde, non posso dire di aver avuto
reazioni più decise delle sue e, come un cretino, ho voluto bene persino ai
miei “carnefici” per lungo – direi persino troppo- tempo. Credo di non dovermi
vergognare per questo; lascio che la vergogna, sempre che rientri
tra le loro virtù (ma ne dubito fortemente) la provino coloro che hanno
approfittato del mio affetto e della mia pacatezza, nonché della bontà di
Maddalena e, al contempo, della presunzione di Bruno. Tra le
numerose pompate di aria che contribuivano a costruire vacua fama attorno alla
figura di quell’ uomo, c'era anche quella che lo vantava come dotato violinista
(!), proprio lui che odiava la musica e non perdeva occasione per far spegnere
la radio a Maddalena che, invece, amava ascoltare i cantautori, i complessi
e le musiche classiche. In realtà, il violino lo imbracciò sì
qualche volta, ma giusto a scuola quando era ragazzo e
unicamente perché faceva parte del piano scolastico e quindi vi era
obbligato; ma tanto bastò per aggiungere al suo ego anche la fama di musicista.
I decenni trascorsi tra gli anni 60 e i 90 sono stati un calderone di eventi
che ruotavano, come pianeti attorno al sole, intorno a una figura sempre più
egocentrica e piena di sé. Per quanto un pallone possa essere
robusto però, si sa, c'è un limite di aria comprimibile al suo interno oltre il
quale il pallone scoppia, e la boria infine raggiungerà livelli così grandi da
farlo sgonfiare del tutto nel volgere di poco tempo, quei mesi
finali della sua esistenza quando, lui stesso, si renderà conto di essere stato
usato e, una volta spremuto, ritornerà a casa con la sola buccia consunta.
LUCERTOLE
E PRIMEDONNE
Un giorno d’estate che andammo con babbo e mamma nel Gennargentu, dove i parenti di mia moglie organizzarono un pranzo all’aperto, feci salire sulla mia mano una lucertolina tipica di quei monti, caratterizzata dal bel colore smeraldino, che adocchiai mentre si esponeva al sole su un muretto di pietre. Conoscevo il trucco fin da bambino; basta avvicinare il palmo della mano molto lentamente davanti al suo musetto, e lei ci sale sopra con fiducia per avere calore. Come babbo mi vide mentre la facevo andare sulla mano di mia moglie, inizialmente stupito, si fece passare la lucertolina nel suo braccio e prese la palla al balzo per attirare l’attenzione dei numerosi presenti dicendo “guardate questa lucertolina come si diverte a scaldarsi sul mio braccio”, ovviamente omettendo di dire che aveva appena imparato quel piccolo trucco da me e confermando, ancora una volta, che il ruolo di “primadonna” gli si addiceva in pieno. Lo faceva a ogni occasione che gli si presentava, ti rubava l’idea e la presentava come frutto del suo sapere, proprio così, senza alcuna vergogna. Chi non proverebbe una certa stizza nei confronti delle persone che agiscono in questo modo? Adorava le visite dei giornalisti che lo cercavano, li incantava col suo carismatico modo di parlare, accogliendoli in quella casetta che lui stesso definiva “il mio eremo” e nel quale ogni cosa era disposta ad arte per suggestionare i visitatori; bottigliette piene di liquami di vario genere e colore con etichette scritte a penna e un velo di sottile polvere attorno, anch’essa suggestiva. Un alambicco e una serpentina per produrre distillati e acquaviti , libri di erboristeria a suo tempo in gran parte acquistati da Maddalena e riempiti di appunti, alcuni mazzi di erbe aromatiche molto comuni in Sardegna e appese a essiccare; tutto contribuiva a magnificare il padrone di casa, anzi di eremo. Offriva agli ospiti una tisana o un bicchierino di liquore alle erbe e si aspettava i complimenti di rito. A un giornalista, che poi ne scrisse l’incontro “magico” in un quotidiano locale, offrì un bicchierino di limoncello fatto da mia moglie Giovanna e del quale gli portammo una bottiglia qualche giorno prima dell’intervista; naturalmente si guardò bene dal rivelarne la vera provenienza e lo presentò come un suo distillato. Nell’articolo quel giornalista scrisse che aveva bevuto un liquore fatto dal “vecchio saggio” e nel quale sentì un “misterioso sapore di limone”. Quando leggemmo siffatta frase io e mia moglie, dopo un iniziale momento di stupore e incredulità, non potemmo fare a meno di farci grandi risate, sia per la frase in sé poiché il sapore di limone non ha nulla di misterioso, sia perché babbo lo presentò come fatto da lui. Lungi da me aver provato astio verso il giornalista, ha fatto solo il suo lavoro e, come tutti gli altri, suggestionato dall’ambiente e dal personaggio, descrisse quel che sentiva. Prendersi e costruirsi di sana pianta meriti non suoi era, per babbo, un’abitudine che tutti noi familiari conoscevamo e, d’altronde, spesso combinava le sue farse teatrali proprio davanti ai nostri occhi, come quando svuotò due barattoli di confettura di marroni in altro contenitore, vi appose la solita etichetta di carta e la presentò, a chi andava a trovarlo, come preparata dalle sue sapienti mani. Era così entusiasta di se stesso che, in un grande album, incollò tutti gli articoli di giornale che gli erano dedicati e, ogni tanto, lo sfogliava con l’entusiasmo del bimbo che ammira le sue figurine e non vede l’ora di appiccicarcene di nuove. Si sentiva eterno e a casa diceva spesso, rivolto alla moglie “Maddalena, après moi le dèluge!” (dopo di me il diluvio!). Leggere articoli nei quali lui stesso si vittimizzava per aver lavorato troppo, per aver avuto troppe ansie in città e preoccupazioni in famiglia, fino a subire un infarto e sentirsi costretto a farsi un eremo, era piuttosto frustrante per noi, perché nella lista dimenticava volutamente di accennare alle sue avventure e disavventure fuori casa, agli incidenti a caccia e in grotta, alle continue ed esagerate sbornie, a tutto ciò che, realmente, potesse avergli creato le condizioni ideali per subire un infarto.
UN PRANZETTO ESTIVO
Una
assolatissima domenica di agosto dei primi anni 80, quando Bruno sapeva che non
ci sarebbero state visite a Marreri che potessero rivelare che tanto “eremo”
non era, scese con mamma e gli ultimi due figli e invitò me e Graziano e
relative famiglie a raggiungerli per pranzare tutti assieme.
Ci portammo appresso viveri, bibite e bottiglie d’acqua in abbondanza; babbo ci trattava con superiorità e decantava le doti e le virtù salutari della “sua” acqua. Questa sua acqua miracolosa proveniva da una lunga tubatura che aveva fatto arrivare fin sotto alla quercia delle Giovani Marmotte, come la chiamavo io. L’inizio di quella tubatura prendeva l’acqua da un fiumiciattolo più a monte, e la faceva cascare, ma sempre più flebilmente poiché ormai quel fiume si stava lentamente prosciugando, fino alla famosa “fontana di zio Bruno”. Era acqua fortemente inquinata dalle già numerose case di campagna dei vicini e i loro scarichi fognari e di vario genere. Cercammo di farglielo capire riempiendone una bottiglia e mostrandogli gli ossiuri che ci si dimenavano dentro, ma del tutto inutilmente; non voleva rinunciare a quella sua favola. Chissà quante persone si lasciarono convincere a berla?
Preparammo un lauto pranzetto e ci sedemmo attorno al tavolo, babbo si avvicinò a una grande giara di terracotta nella quale teneva le olive a mollo e ne pescò qualche manciata, poi tolse dall’acqua in mezzo alle olive un topo morto che ci doveva essere caduto dentro durante la notte precedente; senza scomporsi più di tanto, sotto lo sguardo attonito di noi tutti e mamma che si coprì la bocca tentando di non ridere, si affacciò alla porta e lanciò il topo giù, verso l’orticello. Tornò dentro e afferrò un’altra manciata di olive, le mise in un piattino e le posò sul tavolo come se non fosse accaduto niente. Cercammo di far finta di nulla anche noi, mangiammo e bevemmo allegramente -tutto meno le olive- e babbo ci raccontò di una signora che lo andò a trovare qualche giorno prima e alla quale, come d’abitudine ormai consolidata, facendogli vedere i suoi fiori le disse “I miei fiori impallidiscono, davanti alla sua bellezza!” e si fece due grosse risate descrivendo quanto fosse racchia: “Che poco ci vuole a far felice una donnina, anche se orribile” disse. Noi ridemmo meno, specialmente mamma trovò la battuta molto deplorevole. “I miei fiori impallidiscono davanti alla tua bellezza” fu una frase che Bruno fece sua da un fumetto di Topolino letto a casa e preso in prestito dai figli più piccoli, detta da Paperone in veste di fioraio. Ritagliammo quella vignetta per ricordo e dovrei averla ancora tra le tante cose che conservo; la sentimmo ripetere tante di quelle volte da venirci a nausea e, ancora adesso, la ricordiamo con ironia.
LA
TENIA E GLI UFO
Un altro ricordo alquanto ributtante riguarda un pomeriggio durante il quale Bruno macellò, assieme ad Angelo, un cinghiale sopra il pozzetto davanti alla casetta, lasciandoci cadere dentro una tenia viva lunga diversi metri, che fino ad allora abitava l'intestino di quel grosso suino.
Quel
pozzetto passava attraverso lo scarico del
water posto all’interno del minuscolo bagno della casetta, e proseguiva
in discesa per scaricare tutti i liquami nel terreno sottostante, dove
coltivava lattughe, peperoni e varie altre verdure. Secondo la sua “filosofia”, era
solo un modo per dare nutrimento alle piante e lo descriveva come “il suo
concime”.
La
tenia ovviamente finì, con tutte le sue proglottidi e relative uova, in mezzo a
quella coltivazione.
Da
quel giorno in poi in famiglia ci guardammo bene dall’accettare una delle sue tanto decantate
insalate; in compenso tante famigliole di suoi visitatori, amici e ignari parenti, ne fecero man bassa. Spero per loro che gli sia andata
sempre bene.
Una
sera all'ora del tramonto, prima di ritornare in città appresso a noi, fece a me e mia moglie una rivelazione; con
voce emozionata ci disse che, la sera prima, erano andati a trovarlo gli
extraterrestri: “Calate da poco le tenebre, vidi tre enormi cerchi luminosi che
si muovevano in cielo, erano sicuramente extraterrestri che volevano comunicare
con me..” Aveva gli occhi accesi della ormai ben conosciuta luce dell’ego e
della presunzione; non gli bastavano più le lodi degli umani, nella sua
fantasia pretendeva di far sbavare di ammirazione anche gli esseri degli altri
mondi.
“Mi
dispiace deluderti babbo” gli dissi, “Le luci che hai visto le abbiamo viste tutti ieri notte in città, e altro non erano che le potenti celle fotovoltaiche
di una discoteca alla periferia di Nuoro, che proiettano fasci di luce così
potenti da formare, appunto, dischi luminosi nel cielo”. La luce nei suoi occhi
si spense, aggrottò le sopracciglia e ci salutò con una fredda
buonanotte.
Potevo
forse lasciarlo ancora sognare? Potevo lasciare che, ancora una volta, si
sentisse al centro dell’universo, quell' uomo adulto e considerato saggio e intelligente?
NO, non avevo nessun favore da rendergli, non mi andava di dargli sempre ragione fino a farne un inconsapevole scemo, avrei dovuto aprirgli gli occhi su mille cose dopo avermi fatto passare una intera infanzia senza sogni e senza speranze, delle quali avrei avuto pieno diritto. Non avevo più il terrore della sua cinta e delle sue urla.
GRANDE
NATURALISTA?
Per alimentare, agli occhi dei suoi visitatori, il suo presunto sconfinato amore per la natura e gli animali -bada bene, dopo aver fatto il cacciatore per tutta la vita- costruì un paio di casettine di legno e le dispose su dei pali nel terreno al di sopra della sua casetta. Uno sprovveduto assiolo ci fece il nido e mal gliene incolse: durante una notte d’estate passata a dormire li sotto, Bruno, infastidito dal suo richiamo, caricò la doppietta e sparò al nido forando la casettina e impallinando i genitori assioli e la nidiata che avevano dentro. Alla richiesta di spiegazioni da parte nostra, si limitò a dire che non lo lasciavano dormire. Io, da sempre appassionato di rapaci notturni, non potei trattenermi dal dirgli ciò che pensavo: “Andavi a caccia e portavi panieri pieni di beccacce, di pernici, merli e tordi, tutte cose che poi ti sei lamentato di non vedere più volare numerose come un tempo. Non hai mai capito, nella tua infinita saggezza, che non hai ucciso solo quelli che impallinavi, ma è stato come ucciderne altrettanti ogni giorno della tua vita, e il perché è facilissimo da capire: assieme a ognuno di quegli uccelli, hai ucciso tutta la sua prole, la prole della sua prole e così via. Hai privato migliaia di pernici, beccacce e tutto il resto, ora persino di assioli, di fare la loro utile vita. Sei un coglione”. Rimase perplesso come lo vidi ben poche volte in vita sua, ma sommessamente mi disse “Sai che a questa cosa non ci avevo mai pensato?”.
Non aveva pensato nemmeno, molti anni prima, che disturbare la ormai estinta foca monaca non era una bella idea. Nella famosa grotta del Bue Marino, così chiamata perché abitata appunto dalle foche, andò con alcuni suoi "seguaci" e un piccolo registratore appresso, nel quale rimasero impresse le voci dei cuccioli di foca che strapparono alla madre, assieme alle grida di quest'ultima. Anche questa impresa servì per farlo passare, alla cronaca, come grande studioso e naturalista. Di li a poco la foca monaca sarà avvistata sempre meno, fino a sparire, e non dico che sia per causa sua, ma il suo contributo può aver influito non poco.
...E IL FILM CONTINUA
Ormai consolidatasi la fama di grande erborista, a Bruno vennero affidate alcune ore di insegnamento di botanica presso un istituto scolastico cittadino, ed ecco che un altro evento si apprestava ad affacciarsi prepotentemente nelle nostre vite.
L’ arzillo vecchietto si infatuò di una sua alunna che, quanto a età, avrebbe potuto essergli nipote, ma quanto a esperienze di altro genere aveva, evidentemente, qualcosa da insegnarli. Bruno riprese ad assentarsi da casa per diversi giorni e, quando andavamo a trovarlo, c'era sempre lei accanto; diceva di essere tanto interessata allo studio delle piante da preferir vivere l’esperienza botanica direttamente sul campo, direttamente dal “suo buon Maestro”. In quel periodo di infatuazione, infastidito dalle visite, geloso del suo nuovo giocattolo adorante, babbo iniziò precipitosamente la sua decadenza morale e intellettiva. Era talmente abituato a ricevere lodi e approvazioni, che tardò a rendersi conto di quanto fosse ridicolo in quel suo nuovo ruolo di “conquistador”. Probabilmente pensava, dall’alto della sua torre costruita in cartone e presunzione, che avrebbe attinto nuove lodi e nuovi complimenti. Ma così non fu. Tutti, amici compresi, iniziarono a diradare le visite a quell’uomo ormai giunto ai limiti della ridicolaggine; mamma, dopo un primo periodo di amaro stupore, se ne fece una ragione e, senza fare scandali, assisteva muta agli eventi. Anzi, diceva a me e a Graziano di scendere ancor più spesso per controllarlo, per dargli attenzione e vedere che non avesse bisogno di qualcosa. Per qualche mese Bruno si godette quella “luna di miele” mentre mamma passava le giornate e le notti nella sua “luna di fiele”, si vergognava persino di uscire a comprare il pane tanto si sentiva umiliata; ormai quella tresca tra suo marito e la allegra pulzella era di pubblico dominio. Un giorno io e Graziano scendemmo in quell'eremo d'amore e trovammo lei e babbo mentre parlavano e ridevano, c’era qualcosa di strano nei loro atteggiamenti ma pensammo che fosse solo l’euforia datagli da quella loro avventura amorosa. Ci sedemmo a bere un bicchierino di liquore, un distillato dal …misterioso sapore di mirto, e il mio sguardo cadde su un barattolo di latta messo in una nicchia in alto, sopra la porta che dava alla camera da letto. Era il classico barattolo dove si conserva il caffè, ma mi incuriosì per la sua posizione così elevata, quasi fuori della portata di mano; l’ innata curiosità di voler vedere il contenuto delle cose mi si ripresentò, approfittai di un momento nel quale babbo e la sua amata giovinetta uscirono fuori seguiti dal fido Puffi, un dolcissimo cane volpino siberiano che stava sempre appresso a Bruno a ogni suo spostamento, per elevarmi sulla punta dei piedi e prendere quel barattolo; era colmo di un’erba che non rientrava nelle solite essenze manipolate dal Mago delle Erbe: infiorescenze secche di odorosissima Cannabis, e questo ci diede la spiegazione dell’atteggiamento di quella romantica coppietta. Lo rimisi a posto e non ne facemmo parola, ma più avanti scoprimmo che la aveva acquistata da un suo amico che anche io e Graziano conoscevamo bene, un ragazzo che viveva in una casa cantoniera dietro la quale aveva una fertile coltivazione di “erba”. Tornati in città andammo da mamma per informarla che suo marito e quella ragazza formavano ancora coppia fissa, evitammo però di parlarle della nostra scoperta riguardo la cannabis. Infastidita dalla notizia che non avremmo voluto darle, se la prese con noi perché eravamo scesi a trovarlo, come fosse del tutto ignara di avercelo richiesto lei stessa. Discutemmo un po’ e, infine, la lasciammo col suo pianto e le sue angosce, troppo nervosa per tentare di tranquillizzarla e ragionarci. Passò qualche giorno e babbo venne a trovarci a casa mia e di Giovanna, naturalmente con appresso la sua "alunna", con la quale notammo che aveva un diverso atteggiamento, meno sdolcinato e a volte sgarbato (Bruno era vittima di profonda gelosia nei riguardi della sua “pupilla”) e, facendo un involontario sgarbo a mamma, li trattenemmo qui a pranzo. Alla fine del pasto, dopo avergli invitato un digestivo (dal misterioso sapore di genziana) presi la chitarra spagnola artigianale che mi ero regalato con grandi sacrifici già da qualche anno, e suonai un brano classico, caratterizzato dal continuo arpeggio: “Recuerdos de la Alhambra”. L’amichetta di babbo ascoltò con interesse e mostrava di gradire, faceva segni a babbo e già lui stava sulle spine. Alla fine del brano si complimentò con me mentre lui, grigio dal malumore e stizzito come un ragazzetto geloso, cercò di sminuire l’esecuzione del brano e la trattò come una che non capiva niente di musica. In seguito seppi che si comportò così anche con Graziano; lei ascoltava con troppo interesse quello che Graziano diceva mentre era intento a nutrire la sua aquila reale, e Bruno temette che la sua giovane amante cercasse già di infilarsi in altri letti. Divenne furioso, ridicolmente furioso. Era il principio della fine del loro rapporto amoroso, una relazione che costò a babbo molte vecchie amicizie, i tanti amici rimasti delusi dopo essersi costruita un’immagine ben diversa di quell’uomo. Forse a quella definitiva separazione contribuì anche qualche sotterfugio del suo amato figliounico, che a un certo punto vide in quella ragazza una possibile antagonista nella conquista del territorio, o per meglio dire del terreno, intanto sempre più occupato dalle sue opere murarie che proseguirono con un canile, un pozzo, e qua e la da campicelli di verdure che rendevano il “nostro” terreno sempre più ristretto e sempre meno nostro. Scesi a Marreri assieme a Graziano qualche giorno dopo quel “divorzio” e trovammo babbo nervoso come un cane idrofobo, non ci salutò nemmeno e rimase chino sotto il cofano motore della sua vecchia auto ridotta ormai a un rottame, lo aiutammo a rimetterla in moto e partì deciso nonostante i tentativi di farlo desistere, ai quali rispose mandandoci al diavolo. Doveva andare al paese della sua morosa e non ci fu modo di farlo ragionare, ci andò, fece una penosa sceneggiata per strada, e rischiò di essere linciato dai familiari. Tornò il tardo pomeriggio più incazzato che mai, letteralmente furioso, e fu comunque un sollievo vederlo ancora vivo dopo quei tanti chilometri di pessima strada percorsi a chissà quale velocità e con che stato d’animo. Non volle ancora arrendersi all’evidenza e tramò vendetta contro colei che tanto lo aveva illuso; prese da casa la sua vecchia macchina da scrivere, tornò in campagna e iniziò il racconto di quella sua storia, col titolo...
...E LA VITA CONTINUA ...
Quando tornò nel suo eremo, si attaccò con impegno deciso alla macchina per scrivere per raccontare l'avventura con quella ragazza che ora chiamava puttana, e di quanto gli facesse ribrezzo ma anche di quante porcherie facevano insieme. Era un racconto così scabroso e osceno che persino i suoi più affezionati amici giornalisti si rifiutarono di pubblicarglielo, e mi rammarico di non aver conservato quei fogli perché, più di ogni altra cosa, ben delineavano il profilo di un uomo ormai totalmente fuori di senno. Il mito del vecchio saggio, del mago delle erbe, del vecchio della montagna, stava sgretolandosi, ma non tutti lo sapevano, non tutti erano a conoscenza della sua decadenza e c’era ancora -e probabilmente ci sarà sempre, come la storia insegna- qualcuno che vuole continuare a crederci. Babbo fu isolato sempre più dagli amici più cari e dalle sue “fan” abituali e si ritrovò solo, persino senza nemmeno più l’affettuosa compagnia del cane volpino Puffi, che Angelo gli fece sparire con la scusa di portarlo a una battuta di caccia. Raggiunto lo scopo di farne una figura mitizzata, avendo ottenuto da lui tutto ciò che si poteva e con la proprietà di metà di quel terreno -anzi proprio tutto, si vedrà poi il perché e il come-, lo lasciarono abbandonato a se stesso, al niente. Finirono le lodi, finirono anche i rifornimenti di cibo e gli aiuti di cui poteva aver bisogno, fosse anche solo un po’ di legna per accendere il camino o acqua minerale da bere.
Quanto vorrei che quel giornalista che dovrebbe, ancora, avere il dattiloscritto, si facesse avanti. Non abbia timore, lo pubblicherò io, senza remore, non ho bisogno di chiedere permesso a nessuno, non ho timori riverenziali verso chicchessia.
LA DECADENZA
Sempre più depresso, trascurato e isolato da nuovi e vecchi amici, trovò sempre Maddalena ad accoglierlo a casa, a tentare di distrarlo e farlo sentire a casa sua. Ma lui aveva sempre un certo non so ché che lo turbava, sentiva la necessità di stare più possibile a Marreri perché, diceva, devo preparare il posto per Figliounico, gli ho promesso di annaffiare, di controllare le sue cose, gli ho promesso che mi avrebbe trovato sempre qui, gli ho promesso questo.. gli ho promesso quello.. Gli aveva promesso tutto. Pieno di malanni mai curati, non poteva accettare di essere visitato da un medico, d'altronde la sua fama era dovuta alla capacità, che gli si attribuiva, di curarsi da solo, con le erbe, con la natura. E lì a Montricos Nieddos lo trovammo, in un rovente pomeriggio estivo, ridotto pelle e ossa. Si affacciò alla porta di ferro tinta di verde con addosso solo un pannolone, con gli occhi pieni di sofferenza e appresso 2 gatti, ridotti anch’essi ai minimi termini, con le costoline che premevano su uno strato sottile di pelle; non riuscivano più neppure a miagolare, non c’era nulla da mangiare neanche per loro. Moriranno di stenti quello stesso giorno.
La sua “acqua fantastica e leggerissima” come la chiamava lui, aveva già da tempo smesso di scendere, il fiumiciattolo era ormai completamente asciutto. All’interno della casa non aveva più niente che fosse commestibile, il frigo, ormai spento, era desolatamente vuoto. Nessun barattolo, nessuna lattina, nessuna forma di pane di qualsiasi genere. Nulla. Nemmeno le “olive in toposalamoia”. Per fare legna per scaldarsi col camino, rase al suolo una fila di eucaliptus che costeggiavano il fiumiciattolo, ed un magnifico salice piangente che piantammo nei primi tempi di quell' "eremo" e che, nel tempo, diventò rigoglioso e sotto il quale era bello riposare all'ombra. Fece tabula rasa di tutto ciò che fino a poco tempo prima costituiva il suo orgoglio. Persino la ridicola ruota di assi di legno collegata all'alternatore divenne legna da ardere. Il generatore di corrente a gasolio, che usava per alimentare il frigo e le luci, era ormai fermo e col serbatoio vuoto.
Nel congelatore qualcosa trovammo, c'era un merlo spiumato, solo un misero magro merlo sparato quella mattina che, disse, sarebbe stato la sua cena. La sua auto era ridotta a un catorcio e probabilmente aveva il serbatoio vuoto al pari del frigorifero. “Non mi hanno portato più niente, sono tutti in vacanza” ci disse. “Scusa babbo, ma la tua pensione che fine fa? Chi doveva portarti qualcosa? Si può finalmente sapere cosa ti stanno combinando? “
Assurdo, era tutto così assurdo, non si riusciva a convincerlo di raccontarci le cose, aveva una paura innaturale di qualcosa o qualcuno e sembrava, persino nei movimenti, un vecchio burattino di legno, bisbigliò cose che non capivamo e, forse, nemmeno volevamo credere. Pensammo che fosse ormai definitivamente fuori di sé.
Non riuscimmo a convincerlo di accompagnarlo a Nuoro, ma -era il minimo da farsi- risalii verso la città per portargli dei viveri. Lo lasciai così, quella sera estiva, col pianto nel cuore. Non potevo fare altro, doveva restare lì a controllare chissà quali inquieti spiriti della sua mente e della sua (nostra, o di chi?) maledetta campagna. Tornò a casa pochi giorni dopo, accompagnato da un suo fratello che gli voleva molto bene ma del quale non seguì i saggi consigli. Una sua celebre sorella, che era stata addetto stampa della Decima MAS, andò a trovarlo e, trovandolo sofferente, propose candidamente, forse in quel momento mentalmente fuori dal tempo, di far arrivare qualche ragazza somala o abissina che lo aiutasse. Una proposta tanto ridicola e fuori da ogni logica che ci tenne sbigottiti a lungo. Messo nel suo letto, col respiro ai minimi termini, Bruno guardò noi e sua moglie e, con flebile voce le disse “finalmente a casa, Maddalè” e mamma, tenendogli la mano, gli rispose “potevi starci anche prima, cosa te lo impediva?”. A questa domanda rispose zio con un lungo discorso del quale conservo ancora un nastro magnetico; quel giorno avevo con me un piccolo registratore a bobina e lo misi in funzione sul comodino di babbo per provarlo. Zio Italo, con quel suo garbo gentile ma deciso da antico barbaricino che tanto lo contraddistingueva, guardò tutti noi con l’espressione di chi chiede un attimo di attenzione e, rivolto a mamma, le disse “Maddalè, ascoltami, una cosa dovete fare adesso, possibilmente subito: chiamate i carabinieri e fate una denunzia, quest’uomo è stato plagiato, ricattato e ridotto alla fame. Non lasciate passare questa cosa, Maddalè mi raccomando.., c'è di mezzo un notaio disonesto che ha intestato tutto ad Angelo”. Chiedemmo chiarimenti a babbo che, con voce sempre più debole, disse che non era vero, che gli aveva intestato metà del terreno ma che l’altra metà era nostra. Era inutile insistere, la risposta era sempre la stessa e non insistemmo ulteriormente perché, ormai, babbo non riusciva quasi più a respirare. Lo facemmo portare in ospedale. Purtroppo mamma non volle dare retta a zio e non chiamò i carabinieri; ecco i danni fatti dall'essere troppo passivi e timorosi, perdemmo l'opportunità di avere ciò che ci spettava legalmente in pieno diritto, e far condannare quelli che, con la disonestà, avevano spennato un vecchio rincoglionito e derubato sua moglie e i figli, escluso ovviamente il figlio unico Angelo. La mattina seguente accompagnammo mamma in ospedale a trovare suo marito.
... E LA VITA FINISCE
Ecco, esattamente come ci aspettavamo, accanto al lettino di babbo c’era già la sua nuora preferita a imboccargli un uovo sodo col cucchiaino; mamma si sedette un po’ distante da quella idilliaca scenetta, in attesa di poter salutare quella preda ormai spolpata, che per lei era pur sempre l'uomo che amò per tutta la vita, nel bene e nel male. Una dottoressa si avvicinò a Maddalena e le chiese perché non si avvicinava al lettino e mamma, con sottile sarcasmo, le rispose “aspettiamo che la recita in corso abbia fine, grazie dottoressa”, lei si girò verso il lettino a guardare e poi, rivolgendosi nuovamente a mamma le disse “dicono che sia la figlia, non è così?”, “lasciamo perdere dottoressa, lasciamo perdere...” le rispose mamma. Finalmente riuscimmo ad avvicinarci e salutare Babbo, trovandolo in pessimo stato fisico e mentale. Graziano gli chiese cosa potevamo fare per la sua (...o nostra?) campagna. Ci disse, lucidamente, che aveva fatto una donazione di metà del terreno (2,5 ettari) al suo caro Figliounico, e che noi altri 4 avremmo dovuto accontentarci della rimanente metà perché, ci spiegò sibillinamente, non aveva potuto fare diversamente, anche se lo avrebbe voluto. E ci chiese, di cuore, di fare in modo che, per motivo di una suddivisione così “sbilanciata”, non si creassero attriti o, peggio, faide tra vicini di terreno. “Perdonatemi e non chiedetemi di dirvi più di questo, non posso dirvi niente altro, siatene contenti comunque perché quella metà ve la ho salvata io”. Queste furono, anche nei giorni successivi, le sue parole, ripetute con insistenza e smentendo con decisione le parole di suo fratello. Lo lasciammo così, con i suoi misteri, con le cose mai dette, con tante cose in sospeso. Ma qualcuno già vantava l’intera proprietà di quel buco di terra. Bruno morì così, nel giro di pochi giorni dal ricovero, e calò il sipario sulle sue ultime recite terrene. Non ci fu nemmeno il diluvio, dopo di lui. Andai dal notaio Serra per prendere copia di tutti gli atti riguardanti Bruno Piredda e Marreri, e così facemmo una scoperta molto interessante: l’acquisto iniziale dei 5 ettari da parte di babbo, l’atto di donazione dei 2,5 ettari al Figliounico e, dulcis in fundo, un secondo atto di vendita farlocco, con la firma palesemente FALSA di babbo. La sua particolarissima firma è sempre stata una e quella sola, figurarsi in un atto ufficiale. Babbo firmava così: brunpiredda , tutto minuscolo, attaccando nome e cognome e facendo della o una p. Non avrebbe mai firmato con quel banale Bruno Piredda a calce di un atto importante, di quell’atto fasullo ottenuto chissà come, anche se qualche idea in proposito ci fu suggerita, anzi rivelata.
Ci riunimmo in famiglia con mamma e noi 4 fratelli non-unici. Avremmo potuto e anzi dovuto andare da un avvocato ma mamma, come al suo solito, odiava le prese di posizione forti e decise. Sapeva bene che un reato così eclatante avrebbe portato a qualche arresto e ad acuire attriti già difficilmente sanabili.
Ci
meditò sopra e ci disse “Cosa ce ne facciamo di un pezzetto di terra scoscesa,
lontana da casa, per giunta con dirimpettaia gente come quella? Con noi, che
siamo sempre stati troppo buoni, quei culi di cane hanno sempre alzato la coda.
Ma figli miei fregatevene, tanto quei Montricos Nieddos prima o poi restituiranno loro tutti quei
frutti che hanno piantato. Ho versato tante lacrime a causa di quel posto
maledetto, che non potrà che portare male a chiunque se ne sia approfittato.
Farina del Diavolo che finirà in crusca.”
Crusca
che odorerà sempre più di merda.
Io e Graziano andammo comunque, contro il volere di mamma, da un bravo avvocato per sentirne il parere. Ci ascoltò, guardò attentamente i due atti riguardanti il terreno, disse subito che quella non era ovviamente la firma di Bruno ma, ad un certo punto, sbirciò il calendario e disse "oh accidenti, è incredibile, se foste venuti ieri avreste potuto fare denuncia, ma oggi, proprio oggi, per un fatale gioco del destino, un certo articolo di legge fa sì che siano scaduti i termini..." e ci spiegò il motivo "la legge presume che i familiari di un soggetto siano a conoscenza degli atti che lo riguardano, perciò mette un termine utile per eventuali denunce. Purtroppo funziona così, e voi siete venuti qui proprio il giorno dopo la scadenza.
Ancora una volta, i timori della povera mamma ci avevano inibito e fatto perdere tempo. Ma in fondo lei aveva ragione, di quei 2,5 ettari non ce ne avremmo potuto fare niente, anche perché, comunque, la parte migliore era quella che, già da lungo tempo e con lunghe mire, Angelo aveva occupato con le sue costruzioni.
Un fazzoletto di terra scoscesa del quale faremo volentieri a meno e che, molto probabilmente, avremmo comunque regalato a quel fratello rapace se solo avesse avuto l'onestà di chiedercelo senza ricorrere ai sotterfugi.
MADDALENA, ULTIMO ATTO
Maddalena
Saba morì, accudita dai 4 figli non-unici, relative mogli e relativi nipotini, quasi tre
anni dopo il suo sempre amato Bruno. “Nonostante il male che ci ha fatto, mi
manca tanto” diceva.
Una
mattina d’agosto del 97, serenamente distesa sul suo letto a leggere il
giornale, mamma Maddalena chiamò i sue due figli più piccoli e un nipote,
diede ad ognuno 10.000 lire e li mandò a “comprare le cose buone, che ci
facciamo un bel pranzetto tutti insieme oggi”. Uno comprò delle fettine,
l’altro frutta e verdura, l’altro ancora spaghetti e bibite.
Al ritorno a casa la trovarono col giornale aperto tra le mani, pensavano che si fosse addormentata leggendo. Sì, si era addormentata leggendo, ma per sempre; il suo cuore si era fermato, il suo viso era rilassato, senza alcuna smorfia, senza alcuna espressione di dolore. Era la fine che lei stessa avrebbe voluto fare, meritava di smettere di soffrire così, senza dolore. Questa è la fine che si augura solo alle persone migliori e più care, e che non auguro di certo a chi le ha causato tanto male.
VAMPIRI MAI SAZI
Nella
tomba della famiglia Piredda mamma non fu ben accetta; qualcuno e qualcuna, tra
cui le sue cognate, avevano remore in proposito. “Non era una Piredda” fu la
sentenza di qualcuno. Stranamente però, di signore “non Piredda” ne verranno
accolte eccome, in quella tomba, spero
ci sia ancora spazio per eventuali altre “non Piredda”, ovviamente per il loro
bene; che possano glorificarsi di essere sepolte in quel luogo tanto blasonato, nella nobile corte dei "Pirellas".
Nella opinione pubblica rimase viva a lungo la credenza, del tutto inventata ad arte, che babbo e mamma fossero separati o addirittura divorziati. Nel corso della mia vita ho dovuto spesso contraddire le molte persone che erano del tutto convinte di una loro separazione, e con quale convinzione! Trovavo persino umiliante dover insistere su cose che, ovviamente, dovevo sapere meglio di loro.
Delle farneticazioni di quella parte di parentela non ci preoccupammo più di tanto, comprammo un loculo tutto per lei in una parete assolata che lei avrebbe sicuramente approvato, innamorata com’era della luce solare, e lasciammo che la tomba di quei Piredda si riempisse di quei Piredda e affini.
Maddalena
Saba era farina di un altro impasto e di un altro forno, era un buon pane da non
mischiare con certi fermenti. Non sentiva il bisogno ossessivo di cercare
araldiche nobili origini e non si vantò mai di niente, era Nobile nell’animo e
basta. Pensava, come lo penso io da sempre e per sempre, che vanagloriarsi di
eventuali origini “nobili” abbia un valore pari a zero. Qualcuno evidentemente
la pensa diversamente e ama glorificarsi di qualcosa che, tra l’altro, può
essere solo frutto di personali interpretazioni non prive di “acrobazie”
storico-anagrafiche. Ma anche se fosse vero? Dovremmo forse impressionarci,
pensare che “nobil discendenza” abbia una qualche valenza pratica che ci eleva al di sopra degli altri? Ma vaffanculo!
Nonostante tutto e tutti, noi sopravvissuti cercammo di evitare situazioni spiacevoli. Un giorno, Figliounico mi fermò per strada e mi chiese di ascoltarlo; ci sedemmo a prendere un caffè e mi disse che aveva un tumore e anche un grande timore. Credeva che Graziano avrebbe potuto far del male alla sua famiglia e non sopportava di sentirsi morire con quel peso. Mi chiese di perdonarlo per il male che mi aveva procurato e, se potevo, di fare da tramite e fargli sapere se poteva permettersi di stare tranquillo. Gli feci questo favore, ancora una volta illudendomi che qualcosa in lui fosse cambiato in meglio. Ma una sera che mi chiese di accompagnarlo al mare per farci una pescata, capii dai suoi discorsi che il detto del lupo che perde il pelo ma non il vizio era ancora maledettamente attuale. Mi parlò di cose che per me erano, fino a quel momento, storie di fantasie; mi propose di accettare di farmi incontrare con una delle tante allegre donnine delle quali aveva una nutrita rubrica telefonica e che praticavano, sotto i suoi ordini, il "bondage". Rimasi perplesso e stupito, mi chiedevo se fosse davvero reale una cosa del genere e, ingenuamente, gli chiesi "ma cioè? Si tratta di prostitute a pagamento?" Ridacchiando rispose "macché pagamento, sono donne che si divertono così, vedi questo numero ad esempio? Se io la chiamo, a qualsiasi ora del giorno e della notte, lei si fa trovare dove voglio e vestita come le ordino io, l'importante è trattarla bene e, per non spaventarla, le posso parlare solo io e lei tiene una mascherina che gli impedisce di vedere con chi ha a che fare. Nel frattempo, l'amico alla quale la offro le fa ciò che desidera, e del tutto gratuitamente. Vedi quest'altro numero? Appartiene ad una seria professionista, sposata e con figli, che ha una importante attività commerciale". Rimasi scioccato, davvero non credevo che intorno a noi potessero accadere cose di questo genere, pensavo fossero relegate ad ambienti ben differenti dal nostro. Dissi "no no, grazie dell'offerta ma non sono il tipo giusto per avventure di questo genere, e tra l'altro non farei mai un torto del genere a mia moglie". Si mise a ridacchiare e lo ignorai. Ma fui infastidito, e allora mi salì in mente un episodio che mi accadde anni prima, mentre ero momentaneamente impiegato nella segreteria di un importante Istituto scolastico cittadino frequentato da un suo figlio. Una mattina entrarono tre alunni mentre ero solo in ufficio e mi chiesero un certificato di frequenza; mi girai per aprire il mobile che conteneva i moduli da compilare e poi, una volta andati via, ci si accorse che mancava il prezioso timbro di Zecca dell' Istituto. Dovetti fare denuncia e perderci la faccia, ma mi fu chiaro fin da subito che l'artefice fu lui, invidioso del mio lavoro e, probabilmente, infastidito dal mio poter conoscere i rendimenti scolastici di suo figlio. Gliene parlai, diventò scuro in volto e non ebbe il coraggio di confessare, ma si limitò ad un "mi dispiace, son cose brutte". Avrei voluto chiedergli se aveva ripagato l'artefice del furto con una delle "sue" schiave sessuali, ma non l'ho fatto.
So che il Karma, spesso assente, avrebbe per una volta abbondantemente ripagato quel ragazzetto, anche se forse nemmeno se ne rese conto.
Avrei potuto sorvolare su tutto o almeno quasi, ma continuare a veder sfruttare l'immagine del tutto falsa e precostruita di un uomo che tutto è stato fuorché un buon uomo, vedere che lo si continuava a spremere anche da morto, a un certo punto ha iniziato a darmi veramente fastidio, ed è un fastidio che lui stesso, alla luce della Verità, prendendo atto di quanto sia stato preso per i fondelli facendo leva sulla vanità, avrebbe sicuramente e pienamente condiviso.
Spero che, tra coloro che sanno queste verità, ci sia qualche coscienzioso che non abbia più remore per esternare ciò che ha realmente visto e sentito, che non tema a contraddire i soliti luoghi comuni che certi “giornalisti piccoli piccoli” hanno ormai preso a cliché, che si smetta di divinizzare ciò che fu tutt’altro che divino. Spero che certe gentili parenti, che per decenni hanno evitato Maddalena per rintronarsi ascoltando sempre e solo il solito rintocco della solita campana fino a mandarsi in tilt il cervelletto, la smettano di starnazzare “Zioo Brunoooo che bravoooo che buonooo, che grande uomooo”. Peccato che non lo abbiate avuto voi come padre o come marito, peccato che non abbiate mai voluto approfondire certi argomenti, che abbiate seguito ciecamente il pifferaio che suonava più forte. Capisco il vostro punto di vista, come parenti lontane che vedevano uno zio “adorabile” per qualche giornata estiva. State tranquille, la soluzione c’è e consiste nel continuare a fare come avete sempre fatto, chiunque è libero di credere alle fatine del bosco e agli gnomi. In fondo, qualche seratina ad ammirar le stelle in Sardegna è per voi sempre garantita, ma non certo da me.
Provo
un notevole disgusto quando mi capita di vedervi in qualche modo “impegnate nel
femminismo” dopo aver passato la vita a disprezzare e gettar disprezzo su
quella grande donna che fu vostra zia. Non l’avete mai meritata.
Scusa babbo se nessuno di noi era presente al tuo funerale, era giusto e dovuto che ti accompagnasse solo quel tuo figlio unico che da te aveva ottenuto tutto, anche se tu, mentalmente non del tutto presente, ne sei stato vittima quanto noi. Chi ha visto e capito le nostre vicende ha giustificato la nostra assenza e anche ammesso che non poteva andare diversamente. Gli altri, quelli che hanno creduto a ben altre campane, quelle che suonano per incantare, possono continuare sereni la loro esistenza credendo ciò che vogliono. Non ho descritto questi episodi della nostra esistenza per creare o demolire convinzioni, non mi interessa un accidente se ancora c'è chi vuole credere a babbo natale ma per amore di verità e rendere un minimo di giustizia, seppur tardiva, specialmente a una donna di nome Maddalena, che ha patito le peggiori brutture del maschilismo più abbietto. Avremmo potuto finirla nel sangue, attraverso quei regolamenti di conti di cui si occupano spesso le cronache familiari e, in molti casi, per cose di minor valore e importanza, ma abbiamo preferito ascoltare i consigli di una donna saggia, che nessuno ha mai definito, in un colorito articolo di giornale, “vecchia saggia”. Lo faccio io adesso anche se, lo so mamma, tu mi diresti ancora una volta di lasciar perdere, di lasciare che il tempo, così come ha sotterrato antichi templi, ricopra anche le vicende umane. Abbiamo discusso insieme del fatto che, se solo ci avessero chiesto quella nostra parte di terreno, gliela avremmo ceduta; ma hanno preferito agire così, con i già collaudati metodi abituali. Maddalena, prima di lasciare questo mondo, prese un foglio e, benché pienamente consapevole che non avesse alcun valore legale, ma sicuramente un grande valore morale, scrisse di suo pugno la volontà di non voler lasciare niente al primogenito. Ma questo si intascò comunque i 20 milioni di lire che gli spettavano da parte della madre dalla vendita dell'appartamento, anche se convinse qualcuno di avervi rinunciato a favore del fratello più piccolo tra noi. Bugie, come al solito. Certe persone sembrano comportarsi come se fossero eterne, pensano di lasciare un qualche luminoso segnale del loro passaggio, ma dovrebbero pensare ai tanti boriosi che, già andati via, non hanno lasciato altro che qualche foto sbiadita, che col tempo successivo sparirà del tutto. Persino delle malefatte non rimarrà che sottile polvere, e così sarà tutto ciò che si è avuto, specialmente con l’inganno. Ti ringrazio comunque babbo, perché è attraverso la tua boria e il tuo fare che ho imparato un sacco di cose interessanti, un sacco di cose da evitare, un sacco di cose da cui non prendere esempio pratico, che aprono la mente e la conoscenza sul comportamento umano di quelli come te e di chi ci ruota intorno.
Sono grato alla natura per avermi, almeno in parte, evitato l'eredità peggiore di quell'uomo: la parte insana del suo DNA vanaglorioso.
La vanagloria non dura che un soffio di venticello, la Verità è un ciclone che dura nel tempo e può turbinare ancora più forte, quando lo vuole.
Amen.
Marcello Gabriele Piredda Saba
Ho letto questa storia riconoscendo solo alcuni dei personaggi coinvolti. Sono rimasta scioccato, ma non sorpreso, per la cattiveria di un padre di famiglia dentro casa e un atteggiamento da brava persona con il mondo. Purtroppo anche nella mia famiglia c'è stato un personaggio simile, peccato che tutti i nipoti abbiamo scoperto questa storia troppo tardi. Nessuno dovrebbe sopportare una vita così dura, però la storia non ci ha mai fatto conoscere la storia di tante Maddalena... Bisognerebbe rimediare come si è fatto qui. Grazie a nome di tutti i parenti che hanno vissuto storie simili e che non hanno mai avuto giustizia
RispondiEliminaGrazie Mario, niente da aggiungere alle tue sagge parole
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